Pugni stretti

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Tutti la ricordavano, tutti quelli che erano passati da quella riva.

Pescatori, bagnanti, giovani e anziani. Trascorreva le giornate con i pugni chiusi a guardare il mare. Di tanto in tanto immergeva le mani tra la schiuma di qualche onda che delicata la raggiungeva. Quando poi le tirava fuori, stringeva i pugni ancora più forte.

– Cosa tieni tra le mani?- le chiese un signore che da tempo la osservava.

– Tengo l’aria, quella poca che è rimasta. Troppo presto fugge via. Ho provato a trattenere anche l’acqua del mio mare. Ma ogni volta mi rimane solo l’umido profumo e il ricordo di una musica a me cara.

Ma io aspetto. Aspetto che tutto torni a riempire queste mani. Aspetto.

Mentre il giorno diventa notte e la notte lascia il posto ancora al giorno.

Aspetto, mentre piove e torna il sole. Mentre il tempo si fa lieve e più spesso mi sorprendo quando in viso, un mio ricordo, mi disegna un bel sorriso. Forse è quello che io aspetto? Che il ricordo mi raggiunga e mi inondi di dolcezza?

Smise quindi di parlare. C’era un velo di magia che avvolgeva ogni gesto della donna, che teneva i pugni stretti.

Quando poi nessuno più la vide, si disse che una notte qualcuno aprì quelle mani consumate e la portò lontano.

Le lavandaie (lavoratrici 1)

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Il bucato in casa c’è chi lo fa meglio di te! E per questo dico, grazie Candy!

La lavatrice! Sogno delle casalinghe, oggetto di desiderio dell’automa Tic che, nello spot pubblicitario, si innamorava della nuova macchina per lavare la biancheria con un oblò frontale, come grande occhio ammaliatrice, forte di una eccezionale potenza centrifuga e con un nome romantico, tratto da una canzone popolare resa famosa dal cantante statunitense Nat King Cole:

Candy, I call my sugar Candy

Because I’m sweet on Candy

And Candy’s sweet on me

Il nuovo elettrodomestico divenne presto elemento indispensabile anche nelle case di molte famiglie di piazza Bonadies, e le voci delle lavandaie di Cibali entrarono a far parte del repertorio inesauribile della memoria.

Infatati, Bonanno editore

Prima dell’avvento della “graziosa” lavatrice, c’erano le lavandaie, lavoratrici al soldo di ricche signore o facoltosi baroni.

Le immagino stanche, a volte arrabbiate, chiassose. A volte distrutte da ore di duro lavoro.

Le immagino con i capelli raccolti qua e là sulla testa, come cespugli bizzarri scossi dal vento; con enormi grembiuli sempre bagnati; con scialli pesanti a riparare le spalle dall’umidità delle giornate d’inverno; con seni prosperosi, morbidi e partecipi di movimenti che appesantivano la schiena.

Le immagino con grosse ceste di panni da lavare, mentre aspettano il turno per prendere posto in una delle vasche addossate ai bordi delle sponde di un fiume o di una sorgente. Acqua, cenere, lisciva. Immergi, sbatti, immergi, strizza. Appendi. Sui rami degli alberi, sulle ringhiere della piazza vicina.

Le immagino mentre insieme cantano, ridono e parlano, sparlano e litigano e poi si confidano.

Le immagino stanche.

Poi arriva la lavatrice che toglie loro la stanchezza, regala tanto tempo libero e, spesso, nessun lavoro.

Mi viene in mente un film con Totò e Gino Cervi, intitolato Il Coraggio. Un ricco e vanitoso imprenditore salva un pover’uomo che, disperato, si era buttato nelle acque di un fiume. Gli aveva salvato la vita e questo doveva saperlo la gente, tutti dovevano sapere quanto il commendatore era stato coraggioso.

Ma quella vita salvata reclamava dignità: un lavoro, una casa, relazioni sociali, ruoli riconosciuti.

La donna “salvata” dalla lavatrice, si è trovata spesso sola tra le mura di casa, senza reddito e spesso poco rispettata.

Dipingere il cielo

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Il giorno dopo la festa, Assunta si era svegliata con una grande agitazione nel cuore.

Aveva fatto un sogno strano. Si vide smarrita tra i sentieri di una grande montagna che sembrava cambiare colore al mattino, a mezzogiorno e alla sera.

Presso il pendio della montagna, un piccolo uomo danzava leggero: un passo avanti, un ondeggiare del busto e poi ancora un passo. Danzava e con entrambe le mani teneva un lungo pennello che intingeva in una delle sorgenti che si affacciavano dalla roccia e poi lo portava al cielo. Si muoveva tra latte di colore diverso: bianco, rosa, arancione, violetto, grigio…e dipingeva. Dipingeva nuvole.

-Chi sei?-chiese Assunta-Ti prego! Rispondimi! Sto cercando il mio Vincenzo. Dov’è? E’ tra le tue nuvole?-

Ma egli continuava a dipingere e danzare.

Paolina Campo, A FINE GIORNATA, A&B editrice, 2015

Il bosco e le sue metafore

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L’immersione in un bosco è totale. Tutti i sensi sono coinvolti, sia quelli a cui affidiamo la percezione del mondo fuori di noi, sia quelli che di quella percezione ne fanno strumento fabbricatore di sogni.

Cos’è allora un bosco? Si può dire che è il posto dove la fantasia piove copiosa. Dove è possibile perdersi tra ciò che si vede e ciò che possiamo solo immaginare di vedere.

Pan

Silenzioso, lento, ammaliatore. Arriva, mi prende per mano.

Apre una porta, foriera di imprevedibili storie. 

Morfeo mi invita a percorrere i sentieri di un bosco, paesaggio immenso di un sogno.

Cammino lentamente. Sposto i cespugli che intralciano i miei passi. Chino la testa, lì dove i rami cadono bassi. Mi guardo attorno. Non faccio rumore. Ogni suono del bosco è avvolto dal silenzio, guscio impalpabile di echi remoti.

Soffia un venticello fresco. Arrivo presso una radura circondata da alberi altissimi con grossi tronchi che fanno ombra a altri più esili, li abbracciano, se ne prendono cura. Sono in un luogo intriso di amore.

Mi distendo e guardo il cielo, una porzione di cielo ritagliato, con contorni di foglie verdi e brillanti di luce solare.

Un rumore, un grido lontano. Uccelli che scattano insieme per sfuggire a qualcosa.

Mi assale una strana agitazione. Mi alzo e continuo a camminare. Sento un respiro profondo, come di creatura che dorme. Inciampo, cado e la creatura si sveglia. Un urlo mostruoso si diffonde per il bosco e tutti gli abitanti della radura, presi dal panico, fuggono. Anche io fuggo, senza meta. Mi perdo, ho paura.

Mi raggiunge un suono, una sorta di richiamo. Lo seguo e mi accorgo che uccelli, serpi, lucertole, ragni, vermi, scarabei fanno la stessa cosa. Tutti arriviamo al cospetto di una capra. No, non è una capra, ne ha le sembianze. Suona uno strumento a fiato con canne di diversa lunghezza.

«Abbiamo un’ospite!» tuona con voce possente.

Mi guarda con occhi curiosi. I tratti del viso si distendono, non sembra arrabbiata.

Giunge allora uno scarabeo verde con zampine veloci e un occhio dipinto sul dorso. Si fa largo tra rami secchi e ricci di castagne. Un rametto qua, una zolla di terra là. Su, giù, avanti, indietro, fino a raggiungere i miei piedi. Inizia un viaggio lungo il mio corpo: sale su per le gambe, le braccia e poi il collo e le orecchie.

Mi sussurra qualcosa, mi parla di festa, di regine, di fate e di streghe. Le tenebre scendono in quell’angolo di mondo dove la luna diventa faro di una notte stregata. Pan ora è felice, non urla. Suona il suo strumento e danza insieme alle streghe del bosco che volteggiano tra i rami e attraversano i fusti degli alberi.

Danzo anch’io e mi lascio travolgere da vertiginose giravolte, da passi veloci e movimenti convulsi della testa. Poi svengo esausta.

Grossi uccelli mi sollevano dalla terra, da quell’humus vivo di foglie, insetti e altre creature che veloci si spostano e sempre ritornano lì da dove erano partite.  

Sento il canto dei barbagianni.

Riapro gli occhi. Mi trovo al cospetto del signore di quel paesaggio misterioso.

Voglio tornare a casa.

Qual è la strada? Pan, dov’è il sentiero che porta a casa?

Cartoline dal Bosco, Algra editore.

Il bosco è anche il posto dove si insinuano le nostre inquietudini, dove si muovono le nostre paure. Dove si narra lo smarrimento. Tra i rami, dietro i grossi tronchi degli alberi, sulle foglie, tramano indisturbati i dolori dell’anima. Streghe, folletti, figure mostruose si agitano, fuggono e si incontrano. Nella notte delle danze folli, ci si trova faccia a faccia con un mondo tutto interiore con il quale bisogna fare pace. E tornare finalmente a casa.

Oltre lo specchio

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È vita vera quella descritta dai sogni? Cosa ci fa essere spettatori e protagonisti allo stesso tempo?

Quante volte durante la notte sono scivolata dentro la scena in cui mi ha posto il sonno, mentre la fantasia mi pioveva addosso copiosa e apriva nuove porte all’immaginazione.

Per quante notti ho sognato un tappeto bianco scendere giù come una cascata, scavalcando ampi strati celesti. Lì accorrevano le nuvole cariche di emozioni e storie impossibili, desideri, ansie e paure, versando, tra le fitte maglie del candido tappeto, l’angoscia di vivere. Poi si scioglievano e di esse non rimaneva neanche un minimo ricordo.

Quante volte un cumulo di denso vapore giungeva alla cascata, proteggendo gli amori di maghi e paladini.

 -Ove son io? – chiedeva stordito Ronaldo che dentro una nuvola aveva viaggiato per trovarsi nel giardino incantato dell’innamorata Armida*.

-Ove son io? – continuava a chiedere

-Al fianco mio.

Ma la nuvola si scioglieva, l’inganno era svelato e la maga al suo fianco non trovava che sé stessa.

Al fianco mio, vicino a me, con me. Ci sono solo io.

Scivolo piano lungo il tappeto di bianco vestito, mi guardo, mi riconosco. Al fianco mio, vicino a me, con me.

Vedo sciogliersi nuvole di solitudine e stanchezza che devono fare i conti con un temporale, che trascina tutto nell’inesorabile imbuto di una vita che doveva essere comunque vissuta. Dentro e fuori un sogno, mentre i mesi correvano uno dopo l’altro fino a che uno di loro ha segnato il traguardo.

È aprile che ansima, in attesa di esalare l’ultimo dei suoi giorni. L’ultimo dei miei giorni.

Il mio corpo è ormai consegnato alla morte, ma la mia mente è vigile e mi concede l’ultima notte. Immobile, mi faccio accarezzare dalle cose che mi hanno fatto da sempre compagnia: antiche foto, madonne con abiti turchini, mobili che non si sono arresi al delirio delle tarme, ma che odorano ancora di antico amore.

Qualcuno mi consiglia di chiudere gli occhi, di riposare. Non sa che sono entrata nello specchio infinito della mia vita. E tutto voglio rivedere perché di ogni immagine ne possa ricordare il passato. Ma anche il futuro.

Il tempo si è curvato e le immagini ondeggiano e si sovrappongono, correndo verso un orizzonte dove tutto scivola. Vi scivolo anch’io e vedo tutte le mie vite unite da un unico filo. Quello con cui ho cucito abiti e vicissitudini.

 Nelle prime ore di questa notte, mi vedo seduta vicino a una finestra. Porto i capelli lunghi, raccolti dentro una cuffietta. Indosso un ampio grembiule bianco e sono intenta a cucire. Vivo nel quartiere ebraico della Giudecca, in casa di un medico. Aiuto nei lavori domestici e, di tanto in tanto, mi mandano al Castello Ursino, a trovare la regina Maria. È suo il vestito che sto cucendo.

È così giovane e sola. Orfana di Federico IV e di Costanza d’Aragona, subisce le ambizioni di chi vuole la corona di Sicilia e non ammette l’idea di vedere una donna al trono. Io non so nulla di conti, vescovi e dinastie. Ascoltando i discorsi che circolano nel quartiere, immagino la tristezza della giovane regina.

Qualcuno è venuto a trovare il dottore. Un uomo anziano, dalle labbra ancora carnose e gli occhi profondi, si ferma con il suo carretto davanti la casa. Scende lentamente, lega il suo asino a una staccionata e si dirige verso l’ingresso. Lo vedo dalla finestra mentre avanza stanco, determinato. I capelli gli svolazzano disordinati e indossa degli abiti pesanti, nonostante tiri un forte vento di scirocco.  Bussa alla porta. Appoggio il mio lavoro su una poltrona e mi appresto ad aprire. Lo guardo bene.

Ha l’aria di uno che è venuto a supplicare un rimedio, un ultimo rimedio, definitivo. Da un braccio gli pende un cesto di uova e ne fa dono al suo stimato amico che intanto si è avvicinato all’uscio.

Il dottore lo fa accomodare e lo ascolta. È disperato, ha bisogno di qualcosa che faccia guarire la sua donna che sta morendo.

Mio Dio! Parla di me.

Di quelle labbra carnose, di quello sguardo profondo me ne sarei innamorata perdutamente. Ma non in questa curvatura dello specchio!

Lo vedo scomparire oltre Porta Aci. Senza alcun rimedio.

La notte mi concede ancora qualche ora. Immergo lo sguardo lì dove lo specchio custodisce il tempo in cui vivevo in quella parte della città di Catania che più di tutte trasuda di devozione per Sant’Agata: il bastione del Santo Carcere. Sono una donna innamorata che deve prendere una decisione importante, coraggiosa: lasciare la città, fuggire con il suo uomo dalle labbra carnose, che scrive lettere che catturano il cuore.

Ho tanti vestiti da consegnare, devo cucire orli, imbastire giacche, modellare gonne e camicie.  Lascio il mio tavolo da lavoro e corro lì dove la pietra si fece molle e accolse il diritto di una donna di sostenersi in piedi. Sant’ Agata dammi il coraggio di continuare a lottare per i miei diritti.

Il mio diritto è quello di seguire e amare chi sa parlare al mio cuore. Senza costrizioni, senza imposizioni.

Dove sto andando?

Da nessuna parte e in tutte le parti del mondo.

            Tolgo le scarpe, per non sentire il rumore della mia vita.

            I miei piedi avanzano, sopportando il dolore del contatto con la terra e ne faccio dono alla mia Santa.

            Respiro profondamente. È arrivato il momento di assaporare la gioia della conquista di un modo migliore per contare i miei giorni. Sant’Agata dammi la forza di rimanere in piedi.

            Un canto si sviluppa dentro l’anima, come vulcano che alimenta la fiamma dell’amore profondo per tutto ciò che mi appartiene.

Amore, che canta il mio destino di donna.

            I miei piedi procedono lesti, decisi verso l’altare a supplicare coraggio. Immagino di attraversare il mare, scendendo giù, lungo le colline dove il sole si mostra benefico. Lungo tutto il viaggio incontro sguardi, ascolto parole, narro la mia storia. Intanto il canto leva in alto le sue note e costruisce certezze.

Dove sto andando? Da nessuna parte e in tutte le parti del mondo.

Sono io il mio viaggio.

Mi prostro davanti alla pietra che si fece molle per accogliere i piedi che tengono ritta la roccia della volontà di non tradire sé stessa. Per sempre.

            Porto con me la lettera del mio amato. Fuggi con me.

Oltre lo specchio mi vedo pronta a dare una svolta alla mia vita. Lascio il mio lavoro, lascio la famiglia che mi avrebbe voluta sposa a un uomo che non amo.

            Appuntamento al bastione del Santo Carcere, sotto la piccola finestra che garantiva un fascio di luce alla santa che in carcere fortificò la sua fede.

            Lui mi prende per mano e insieme iniziamo il nostro percorso.

Lo specchio sta per oscurarsi. Sono pronta.

 

                                   ***

 

C’era una volta, un’anima bella che aveva preso dimora nel cielo, accanto a un maestoso vulcano. Era in attesa di tornare in una vita nuova che quella vecchia l’aveva dimenticata.

Alcune cose le erano rimaste incollate come un segno distintivo della sua identità: l’odore del mare e della terra bagnata dalla pioggia; il colore gioioso delle erbette selvatiche e la fragranza dei fiori di primavera; il profumo del mosto e le risa festose dei bambini.  Erano cose che un vento generoso, di tanto in tanto, trasportava per le vie del cielo rallegrando le stelle, i pianeti e tutti gli abitanti di quel mondo celeste.

E quando il vento arrivava, l’anima bella raccoglieva un tantino di fuoco dal vulcano, delle nuvolette chiare come albumi di uova di giornata, alcuni soffi di aria fresca e gocce di pioggia leggera. Montava tutto con un vortice veloce di maestrale, fino a formare una bella torta ripiena d’amore vero per tutte le storie che, scendendo lievi da un candido tappeto bianco, avrebbero popolato ancora la Terra.

 

 

             

 

 

 

Cocci rotti

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Avrà un senso far rivivere le cose?

Cosa nasconde un pezzo di vaso rotto?

Esigenza di generare ancora bellezza,

lì dove sembrava per sempre negata?

Desiderio di continuità,

lì dove si è perso il senso della Cura?

Di certo, è amore immenso

per ciò che è stato,

per ciò che sarà.