Viaggio sulla luna

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Ma poi che ‘l sol s’ebbe nel mar rinchiuso,

e sopra lor levò la luna il corno,

un carro apparecchiosi, ch’ era ad uso

d’ andar scorrendo per quei cieli intorno:

quel già ne le montagne di Giudea

da’ mortali occhi Elia levato avea.

…….

Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:

che quel paese appresso era sì grande,

il qual a un picciol tondo rassimiglia

a noi che lo miriam da queste bande;

e ch’ aguzza conviengli ambe le ciglia,

s’ indi la terra è ‘l mar ch’intorno spande

discendere vuol; che non avendo luce,

l’imagin lor poco alta si conduce.

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso

La magia delle onde

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Fa freddo e il letto è un nido da dove è difficile uscire. Lucia ha un appuntamento con Roberto per andare insieme al mare a studiare le onde. Hanno la stessa magia delle lucine che a Natale si agitano dietro le finestre delle case.
Ma piove tanto e non è proprio il caso di andare in giro.
Il sole sembra avere tante difficoltà a farsi largo tra i nuvoloni neri che da qualche giorno insistono nel cielo, e dalle fessure delle imposte appena socchiuse entra poca luce. La stanza è in penombra e i pensieri scivolano come cera sui mobili antichi che fanno compagnia a Lucia. Vive da sola da qualche tempo, dedicandosi alla cura di quella casa dove le mura e gli oggetti trasudano di antico amore.
Pensa che c’è da passare l’antiruggine su una vecchia cucina a tre fuochi e sullo sportello di una cisterna che raccoglie acqua piovana da un secolo ormai; poi bisogna mettere un poco di ordine nella stanza dei colori. È qui che Lucia tiene pennelli, tele, tubetti di colori sparsi per tutto lo spazio che ha a disposizione, perché tutto le sia sempre a portata di mano.
Sente l’orologio della chiesa battere già le nove del mattino: di certo Roberto non verrà, meglio riavvolgersi nelle coperte. Si addormenta, e sogna.

Si vede seduta su uno scoglio emerso da una spiaggia nera dove, qua e là, appaiono cespugli verdi che abbracciano piccoli fiori gialli. Non c’è nessuno sulla battigia e il mare sembra irrequieto. Sente quell’ irrequietezza scivolarle addosso e anche il suo animo si agita. Cosa turba il mare? E quelle onde, quali risposte cercano tra il fragore dell’acqua mossa dalle correnti?
Si vede rapita da un’onda e, avvolta dall’acqua, sente di essere trasportata lontano. Lucia si sveglia, madida di sudore mentre lo scroscio della pioggia battente arriva nitido nella stanza, sbattendo forte sui vetri delle finestre, confondendosi con il rumore insistente di qualcuno che bussa alla porta.
Decide di alzarsi. Allunga un braccio per prendere un plaid che tiene sempre ai piedi del letto e se lo mette sulle spalle. Indossa occhiali e ciabatte e va ad aprire.

– Roberto, ma che ci fai qui? Entra.

– Voglio andare al molo, Lucia. Ora.

– Piove, fa freddo. Vieni, intanto siediti qui.

Sistema una sedia davanti una stufetta elettrica che accende perché il suo amichetto si riscaldi. Roberto ha dieci anni, un sorriso dolce e due occhi grandi.

Lucia apre le imposte delle finestre e va in cucina a preparare una bevanda calda.

– Tieni, bevi.
Lo guarda, vuole tanto bene a quel bambino. Lo guarda con più attenzione..

-Ma cosa è successo?

Roberto ha un brutto livido sul collo e dietro l’orecchio.

– Chi è stato? Tuo padre? Ha bevuto di nuovo, vero?

Roberto china la testa, prova vergogna del male subito.

– Non è cattivo, mi legge le favole quando non è ubriaco.

Lucia lo abbraccia. Il bambino inizia a piangere e poi afferra la tazza di cioccolata calda e la beve, piano piano. È dolce, sa di cose buone, di affetto. Sta bene con Lucia; i suoi coetanei spesso lo deridono, lo chiamano “il figlio dell’ubriacone” e lui fugge via quando li incontra per strada. Lucia capisce il dolore di Roberto, conosce il bruciore che certe ferite lasciano per sempre. I loro occhi si parlano, si confortano.

– Ascolta, perché invece non mi aiuti a sistemare i colori nelle lattine? Poi potremmo dipingere insieme. C’ è quella pietra che devi finire di colorare. Se vuoi puoi usare i miei pennelli, so che ti piacciono tanto. Io devo completare un quadro che mi ha commissionato quel tale di cui non ricordo neanche il nome. Sai che ho l’ impressione che sia innamorato di me?

Roberto continua a tenere la testa bassa. È avvolto da una tristezza tale che sembra sordo a ogni sollecitazione.

-Ho capito, non ti va di dipingere. Andiamo al mare, allora?

Roberto fa cenno di sì con la testa.

– Dammi il tempo di vestirmi. Intanto ti racconto una cosa: sapevi che il mare si allunga sulla battigia per

portare tante cose belle, le conchiglie ad esempio, e poi si ritira per trascinare le cose cattive che trova

sulla riva? È una storia che mi raccontava sempre mio padre quando mi portava ad ascoltare lo sciabordio delle onde.

-Pronta! Andiamo a studiare le nostre onde.

Agitando le dita della mano come una fata pronta a mettere in atto una magia, si avvicina a Roberto che sorride e si appresta a indossare giubbotto e un cappello di lana della sua amica magica. Prendono un ombrello e, mano nella mano, percorrono una stradina e poi scendono giù per una scala che sembra calare a picco sul mare.

-Guarda quella, farà una bella schiuma appena arriva.

Il fragore dei ciottoli accompagna il susseguirsi delle onde e l’entusiasmo di osservarle, mentre le tensioni si sciolgono e tutto sembra bellissimo.

-Guarda quella…

Il tempo di vederla arrivare e poi il buio.

Quella sera Roberto non torna a casa e in paese iniziano le ricerche. Qualcuno ha visto il bambino scendere al molo con Lucia, la pittrice. Tutti sapevano della passione che quei due avevano per le onde, ma oggi non si doveva andare.

Trascorrono due giorni prima che si possano continuare le ricerche in mare. Su una delle barche sale anche il padre di Roberto. Bianco in viso, non dice una parola. Le ricerche vanno avanti per ore, invano. Quando arriva la sera, si torna a riva. Dalla barca scende un uomo che chiede di essere lasciato solo. Si siede su una bitta e con lo sguardo abbraccia il mare e promette. Promette di non bere più e di scendere ogni sera al molo per leggere una favola al suo bimbo che da qualche parte, laggiù in fondo al mare, dorme, cullato dalle onde.

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La candelora di cartone

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Tante immagini scorrono davanti agli occhi attenti di un fruitore della festa che  incendia i cuori dei catanesi nei giorni dedicati alla Santuzza, prime fra tutte quelle offerte dalle candelore o cerei di Sant’Agata. Alte e grosse costruzioni in legno riccamente decorate e scolpite con immagini che ricordano la vita e il martirio della santa, arrivano a pesare dai quattrocento ai novecento chili. Fino al secolo scorso, le candelore uscivano in processione a partire dal due febbraio, giorno appunto della festa della Candelora che ricorda la Luce del mondo che squarcia le tenebre della notte, ovviamente con tutta la simbologia cristiana ad essa legata.

A seconda del peso, vengono portate a spalla da quattro a dodici uomini attraverso le vie più popolari della città di Catania con al seguito una banda di trombe, tromboni e tamburi che inneggiano alla festa, al divertimento, alla spensieratezza. Le candelore fremono per uscire dalle chiese dove sono custodite tutto l’anno, così, dall’ultima settimana di gennaio, sfilano, s’annacanu, ballano, e fanno tanto rumore per annunciare la festa, per aprire un varco all’allegria, in una sorta di travaglio gioioso che attende di partorire il tributo maestoso alla giovinetta martire che ha dato a Catania la forza di amarla e venerarla nei secoli. Ogni candelora è legata a una corporazione di arti e mestieri, tranne quella voluta dal vescovo Ventimiglia dopo l’eruzione lavica del 1776, e quella del Circolo Cittadino di Sant’Agata fondato dal Beato Cardinale Dusmet.  Queste due sono più piccole delle altre undici. Durante le processioni del quattro e cinque febbraio, quando fervono i festeggiamenti, la prima a sfilare è quella del vescovo. Seguono quella dei Rinoti, donata agli inizi dell’ottocento dai cittadini del quartiere di San Giuseppe la Rena; quella degli Ortofrutticoli; dei Pescivendoli; dei Fruttivendoli; dei Macellai; dei Pastai; dei Pizzicagnoli; dei Panettieri. Negli anni se ne sono aggiunte altre, sempre molto colorate e pesanti. A chiudere la processione è sempre la candelora del Circolo Cittadino di Sant’Agata. Nei giorni in cui il fercolo di Sant’Agata attraversa la città in un giro esterno e uno interno, perché tutti i cittadini incontrino la loro Santa, le candelore abbandonano il loro carattere folcloristico e pagano che li aveva caratterizzati nei giorni precedenti, per assumere un atteggiamento devoto accompagnato da preghiere e inni, canti e donazione di ceri accesi: più grosso è il cero, più grande è la grazia che viene chiesta.  

            La sera del tre febbraio è la sera dei fuochi più importanti dedicati alla Santa patrona. Seduta nell’atrio del Palazzo Comunale, aspettavo insieme a tantissima altra gente che fosse dato il segnale d’inizio dei fuochi d’artificio. Tra la folla si fece spazio una candelora alta più di un metro, costruita con due scatole di cartone tenute insieme da un bel po’ di nastro adesivo. Legata a due bastoni di legno, era portata in giro da un bambino e il suo papà: il piccolo avanzava serio con la tradizione stampata sul viso, sculettando a destra e a sinistra, seguendo il ritmo di una musica che sentiva solo lui, simulando l’annacata tipica di una candelora che si rispetti. Fece il giro dell’atrio, seguito diligentemente dal padre che assecondava l’innato spirito devoto del figlio, e poi scomparì tra la folla.

            Nota tenera di una festa ricca di sorprese.

Ricordo che in quei giorni di festa ero molto preoccupata. Il mio tempo interiore, la mia goccia di vita si era trasformata in un mare in tempesta. I festeggiamenti in onore di Sant’Agata erano già iniziati: botti, luci e suoni festosi si sentivano da ogni parte della città. Una candelora arrivò nella piazza della chiesa del quartiere dove abitavo e, non avendo ancora avuto la possibilità di vederne una da vicino, decisi di andare con le mie bambine. Con il cuore gonfio di speranza nella preghiera, mi avvicinai a quella torre colorata ricca di fiori, per cercare un conforto. Degli uomini muscolosi iniziarono a far dondolare la candelora al ritmo di note, a volte strampalate, intonate da trombe e tromboni che suonavano musiche e canzoni popolari. Mi sembrava tutto molto buffo, credevo di trovare un clima religioso, appassionato. Appassionato lo era ma nel senso ludico, folcloristico. Allora risi, e con le mie figlie partecipammo alla festa, battendo e le mani, ballando e cantando. La nostra gioia aveva comunque rasserenato il mio cuore.

Paolina Campo, Vi racconto una storia

Pietre, fantasia

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 Delle pietre si dice che siano senza vita. Non respirano, non si nutrono, non si riproducono. Popolano la Terra. Semplicemente. Esistono in forme e colori diversi. Ce ne sono grandi, piccole; pesanti e leggere; ruvide e lisce; grigie chiare e grigie scure; rosa, bianche e striate.

            Lungo una battigia raggiunta da onde salate, stanno vicine, compatte come a darsi sostegno, a rivolgere un ultimo addio a qualcuna di esse che il destino ha voluto fosse trascinata nel mare.

            E se dentro ogni pietra ci fosse la voce di un prigioniero di Alcina, la maga che chiudeva in un albero o in un minerale le vittime della sua crudeltà? O anche, ci fosse racchiuso un pensiero sfuggito a qualcuno che non è mai riuscito a domare, un pensiero che voleva raggiungere il mare?

            La mente arriva lontano, sfonda certezze e le trasforma in grovigli di sogni che stanno insieme, compatti come le pietre su una battigia che aspettano un’onda per scivolare attraverso spazi senza confini, lungo vie  liquide di inaspettata libertà.  

Pensieroso

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Faceva proprio freddo quel giorno. Aveva piovuto tanto e dalla terra si alzava un buon odore di germogli nascosti, di erba verde ristorata dall’acqua del cielo.

            Appollaiato tra i rami dell’albero, suo amico da sempre, discorreva dei tempi passati e della gioia di riuscire ancora ad arrampicarsi su per quei rami. Era quello il luogo dei giochi d’infanzia, della fantasia, dello sguardo indiscreto sulle cose laggiù e su quelle che si muovevano lente nel cielo. Vedeva la gente uscire di casa, i ragazzi correre allegri per le stradine del paese, e le massaie che aprivano porte e finestre perché quell’odore di terra bagnata invadesse le stanze e circolasse libero tra le mura domestiche.

            – Sai alberello, la mia vita è speciale perché ho te che sei sempre pronto ad accogliermi. Quando sentirò che le forze mi verranno meno, non scenderò più da qui.

            L’albero strinse i suoi rami e lo avvolse come in un tenero abbraccio. Chiuse allora gli occhi, Pensieroso. Che nome era il suo! Glielo avevano affibbiato perché stava sempre assorto a pensare qualcosa.

            – Lui non parla con noi, discute con la mente – diceva qualcuno.

            Pensieroso, quel giorno che aveva piovuto, rifletteva sul fatto che tutti devono avere un lavoro, di quelli di cui si è proprio contenti e che hanno bisogno di fantasia perché su un prodotto finito, si possa sognare di fare di più e dare spazio alla mente perché costruisca idee sempre nuove. Lui lavorava con il padre, faceva il fornaio. Gli piaceva impastare acqua e farina e vedere lievitare i panetti: c’era vita lì dentro. Poi creava le forme e spesso suo padre lo riprendeva perché le sue erano strane, ricordavano nuvole sparse nel cielo.

            – Sai alberello, vorrei essere un pittore. Vorrei disegnare nuvole nel cielo.

            Tra quei rami tutto era possibile. Chiudeva gli occhi, afferrava un ramo più lungo di tutti e raggiungeva il cielo: nuvole a forma di cappello, rosse di raggi di sole al tramonto; nuvole bianche striate di grigio come i capelli di una bella signora; nuvole tonde come astronavi o allungate come fiumi di latte.  

            – Ci vediamo domani.

            Giorno dopo giorno, finito il lavoro di fornaio, Pensieroso raggiungeva il suo albero e continuava il lavoro ad occhi chiusi.

            Poi, un temporale, che insisteva da giorni in paese, impedì al ragazzo di salire sull’albero. Un giorno, due giorni e altri ancora ne passarono chiuso in casa o al panificio.  Quando finalmente la pioggia cessò, corse dal suo amico e non ebbe il coraggio di arrampicarsi. Da qualche tempo la pianta soffriva, era vecchia e la linfa saliva a fatica lungo il suo fusto. Dov’erano i frutti succosi, le foglie che godevano al sole rendendo il suo albero orgoglioso e tanto forte? I rami pendevano arrendendosi al truce destino.

            – Non morire, ti prego – e intanto dei rami si spezzavano e cadevano a terra come soldati che avevano perso la guerra.

            – Chiudi gli occhi e portami lassù tra le tue nuvole. Sarò sempre lì ad accoglierti.

            Pensieroso abbassò le palpebre e immaginò di disegnare una nuvola a forma di albero e altre come uccellini che si posavano leggeri sui rami  dove immaginava di continuare a salire .

Una stella da ricordare

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Nel 1887, il direttore dell’osservatorio astronomico di Parigi, Amédée Mouchez, realizzò nuove tecnologie di fotografia per la mappatura dei corpi celesti. Il suo progetto prevedeva una lista di osservatori nel mondo e ad ognuno era affidato il compito di lavorare sulla sezione di cielo osservabile dal proprio laboratorio. Così, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, mentre gli Stati erano impegnati in azioni belliche, studiosi di nazionalità diverse disegnavano la Carte du Ciel, una mappatura dei corpi celesti, frutto del lavoro di osservazione e di ricerca di venti laboratori in venti Stati diversi.

            Nel 1890 Annibale Riccò, noto astronomo e astrofisico italiano, fu chiamato a coprire la cattedra di Astrofisica presso l’Università di Catania. Riccò diresse anche l’Osservatorio etneo e avviò il progetto Carte du Ciel per la zona affidata alla città siciliana, scelta per la sua posizione geografica e per il prestigio dei suoi docenti. Ben presto l’Osservatorio catanese, insieme a quello danese di Helsingfors, dimostrò le sue potenzialità, tanto che dopo mezzo secolo di lavoro, fu il primo a pubblicare la sua parte di Catalogo inserendo coordinate rettilinee e sferiche.

            Tra i collaboratori più importanti di Annibale Riccò, c’era Azeglio Bemporad. Nato a Siena, fu chiamato all’età di ventinove anni a ricoprire la cattedra di matematica all’Università di Catania. Studioso attento e inflessibile, qualche anno più tardi, insegnò Astrofisica e Geodesia sempre all’Università di Catania, dedicandosi con passione alla compilazione del Catalogo Astrofotografico all’interno del Regio Osservatorio etneo, di cui divenne presto direttore. Il suo lavoro fu apprezzato in Germania e a Parigi, grazie alle centinaia di pubblicazioni  scientifiche da lui prodotte.

            Ma Bemporad era ebreo e, durante la Seconda guerra mondiale, precisamente nel 1938, venne esonerato dall’incarico, come previsto dalle leggi razziali. Nonostante si fosse affiliato al Partito Fascista, ne rimase schiacciato e mortificato.  L’illustre matematico e astronomo, docente di Astrofisica e Geodesia per l’Università di Catania e Direttore del Regio Osservatorio etneo vedrà la sua casa distrutta dai bombardamenti e la sua carriera bruciata dalla terribile applicazione di leggi atroci. Morirà a Catania l’11 Febbraio del 1945 e riposa nel cimitero della città che poco o nulla sa di un grande studioso che diede prestigio alla sua università.

Il telaio di Agatina

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30 Aprile 1795. In via del Pozzo, il vescovo Corrado Maria Donati Moncada dichiarava fondata la chiesa di san Berillo. Un groviglio di strade, traverse, case e casette si erano moltiplicate, espandendosi fino a formare un vero e proprio quartiere a ridosso del centro storico di Catania. Era quindi necessaria una parrocchia che accogliesse tutti i fedeli della nuova comunità. La chiesa, umile costruzione posta nelle vicinanze di un pozzo, era stata intitolata a San Berillo, primo vescovo della città etnea. Anche il quartiere prese il nome dell’antico patriarca e fu caratterizzato dalla presenza di tessitori, uomini e donne, che lavoravano a domicilio su vecchi telai, producendo manufatti di alta qualità.

Via dei Tessitori era collegata alla via dei Setaioli che poi incrociavano via Pastore, via Rocca del Vento, via delle Belle.

– Sei una poco di buono! Chi credi di essere?

– Maledetto! Vai via! Non ho tempo da perdere con uno squattrinato come te!

In via delle Belle si praticava il mestiere più antico del mondo: lì approdavano uomini giovani e meno giovani, ricchi e benestanti, poveri e malandati. Tutti in cerca di una dose d’amore. A pagamento.

            In via dei Tessitori viveva Agatina, una donna piccola con gli occhi profondi come il mare. Lavorava sul suo telaio antico che era stato di sua madre e prima ancora di sua nonna, preferendo i filati che raccontavano il blu, l’azzurro, il celeste del mare e del cielo.

            – Questo telaio è la mia vita, ne avrò cura per sempre! Avissi annurbari di tutti e du occhi.

 Una promessa per la vita.

            Si svegliava presto e prima di iniziare il suo lavoro, passava dalla chiesetta per le lodi mattutine, andava a prendere l’acqua nel pozzo, scambiava due parole con le vicine e tornava a casa. Rimaneva ore seduta al suo telaio, con i capelli raccolti dentro un fazzoletto di cotone e un grembiule che le copriva bene il petto e le gambe dove si raccoglievano pelucchi e fili rotti e poi, via: una mano avanti e una indietro, instancabilmente, nonostante certi giorni la luce nella stanza arrivava appena e all’imbrunire il bagliore di una candela non bastava a illuminare il telaio.

Avissi annurbari di tutti e du occhi

            Ma i suoi occhi si ammalarono e Agatina divenne orba di tutti e due gli occhi. Disperata giurava di non meritare quel castigo, che lei avrebbe voluto ancora lavorare e mostrare cosa sapeva fare. Si fece portare un grande pennello e delle latte di colore blu, azzurro, celeste, indaco e iniziò a dare colpi di colore alle pareti, ai mobili, al telaio. Giorno dopo giorno, colore su colore fino a quando qualcuno la portò in via degli Ammalati dove era sorto un grande edificio per il ricovero di gente che come lei aveva perso il senno.

            Trascorsero gli anni, il quartiere, nonostante la laboriosità dei suoi abitanti, andò incontro a notevoli difficoltà: i grandi imprenditori non avevano più tempo da perdere dietro i buoni manufatti e si dedicarono ai guadagni più veloci che venivano dall’edilizia.

Agatina morì prima che arrivassero le ruspe che, come bestie inferocite, sventrarono il quartiere e distrussero il suo telaio.

Per saperne di più: Incontri, la Sicilia e l’altrove – Anno VI N.22 – pag.41