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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Archivi tag: lavoro

Fedicei

13 martedì Giu 2017

Posted by paolina campo in Salina

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Tag

botti, gente laboriosa, isola, lavoro, vino

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Al tramonto gli uomini si erano raccolti in cantina e, come al solito, avevano discusso e bevuto, bevuto e discusso.

-Fammi conoscere tua moglie…la prendo io!-

-Chi capisti?!?! Pi ghiri a cogghiri i capperi!!!-¹

E giù vino e risate.

-Fedicei, ma che cavolo di nome hai? Manco o cani mia ci mittissi stu nomi!-²

A fine serata non avrebbero capito più nulla, né dei loro discorsi e neanche quale uscita imboccare per tornare alle loro case: qualcuno si perdeva tra l’erba dell’orto dove trovavano spazio gli alloggi per conigli e galline; qualcun’altro seguiva incerto la strada che portava alle viti; altri si addormentavano in cantina, prigionieri di un’ebbrezza dionisiaca. Fedicei aveva i capelli bianchi e beveva appena un bicchierino di malvasia. Quella cantina era la sua vita, ci aveva lavorato tanto. Era tempo di portare alcune botti al molo di scalo Galera: l’acqua salata del mare le avrebbe pulite e sterilizzate. Era un lavoro che andava fatto, per ogni botte, almeno ogni cinque o sei anni e quelle che si trovavano subito a destra dell’entrata alla cantina avevano bisogno di essere pulite. Decise di andare a letto e lasciare i suoi compari ai loro bicchieri profumati di allegria. Avrebbe aspettato il giorno dopo per parlare delle botti da lavare.

Fedicei era arrivato a Salina perché qualcuno aveva raccontato a suo padre che su quell’isola si stava bene. Avrebbe trovato terreni fertili e aria buona e non avrebbe conosciuto più la miseria se solo avesse lavorato sodo. Si decise quindi a partire da Barcellona Pozzo di Gotto alla volta di quell’isola felice.

-Fedicei, dove sei? Sempri taddu arriva stu carusu!-³

Il suo nome sembrava una specie di riassunto di quello che era la sua vita: una spinta continua verso la felicità che si trovava sempre in posti diversi da dov’era lui. I genitori avevano deciso di chiamarlo Felice, come il nonno paterno. Ma proprio quando stava per nascere arrivò la notizia che un fratello di suo padre era morto al fronte. Si chiamava Cielo per un vezzo un po’ particolare del nonno che andava in giro per le strade del paese a recitare:

S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo;
s’i fosse vento, lo tempestarei;
s’i fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo;
s’i fosse papa, allor serei giocondo,
ché tutti cristiani imbrigarei;
s’i fosse ‘mperator, ben lo farei;
a tutti tagliarei lo capo a tondo.
S’i fossi…..

-Ma chi cunti?- ∗gli gridava dietro la gente.

-Cielo, cielo!- gridava lui.

Mischiando le sillabe di Felice e Cielo, e adattando un po’ il senso, era venuto fuori Fedicei, un nome che non piaceva a Lorenzo ma che sapeva di sogni lontani, di stelle antiche e stanche.

Quando arrivarono sull’isola trovarono tanta gente che come loro si era trasferita a Salina per lavoro: c’erano pescatori che si erano stabiliti a Rinella e a Santa Marina, provenienti da Santa Maria La Scala, paesino della provincia di Catania; c’erano contadini che si erano fermati a Malfa, a Pollara o a Capo e che venivano da Brolo, nel messinese, o da altre isole come Filicudi. Il postino era sardo e la signora Carolina, che era stata in America, a Malfa aveva affittato la sua bella casa ai signori Arcidiacono, della provincia di Siracusa, che si trovavano a Salina per valutare la possibilità di un impianto elettrico più efficiente sull’isola. La famiglia di Fedicei si stabilì a Capo, nei pressi della chiesetta di Sant’Anna, e lì iniziarono la loro attività di contadini. Coltivarono la vite e il loro orgoglio più grande era la produzione della Malvasia. Avevano saputo della fillossera, di come le piante erano state attaccate e distrutte. Tanta gente era stata costretta a lasciare quell’isola verde. Ma bisognava ricominciare, era necessario lavorare in quei campi e farli tornare al loro splendore. Chi va via non torna più e ciò che va recuperato, tutelato e salvato viene consegnato a chi di un luogo riesce a sentirne il respiro e la famiglia di Fedicei si riempì i polmoni dell’aria di un’isola che aveva bisogno di cure. Seguendo il trascorrere delle stagioni, si zappava, si potava e si portavano le botti a mare. Legate sulla schiena come fossero grossi zaini, i contadini percorrevano a piedi la contrada di Capo Faro e Capo Gramignazzi fino ad arrivare a Malfa. Qui raggiungevano la lunga scala che portava al molo e giù, piano piano, facendo attenzione a non perdere l’equilibrio, fino al mare che avrebbe aiutato quegli uomini forti spingendo le onde fin dentro le pance capienti delle botti di legno. Fedicei aveva sempre seguito il padre e andare al mare gli piaceva tantissimo: la frescura, l’odore e il gioco delle onde gli davano tanta allegria. Una volta lavate, le botti si asciugavano al sole e gli uomini si concedevano un po’ di riposo mentre i ragazzi facevano il bagno. Arrivava la sera e bisognava portare i barili in cantina. Il ritorno sarebbe stato più faticoso: le botti umide erano più pesanti e la scala era tutta in salita!

L’uomo dal nome strano era vecchio ormai e, disteso sul letto, pensava a come riusciva a fare quel lavoraccio e dove trovava la forza lui che non era neanche un grande uomo: piccolo e magro, andava e tornava. Era la spinta dell’entusiasmo, era la gioia di fare con gli altri era… era che era giovane e forte, nel fisico e nell’animo.

-Fedicei, chi fai? Vieni?-

-No, no! Oggi mi staiu a casa.∗∗-

 

 

¹Che hai capito! Per andare a raccogliere i capperi!

²Neanche al mio cane metterei questo nome!

³Sempre tardi arriva questo ragazzo!

∗Ma che racconti?

∗∗Oggi sto a casa.

Otto e il principe Orgoglio

22 martedì Nov 2016

Posted by paolina campo in pensieri, Sicilia

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Tag

affetto, bambini, lavoro, orgoglio, sogno

BOSCO ETNEO
BOSCO ETNEO
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C’era una volta un bambino bellissimo, ma anche tanto triste. Il suo papà lo aveva portato a lavorare presso un mugnaio che aveva il mulino così distante dalla loro casa che doveva alzarsi molto presto al mattino per raggiungerlo.

-Alzati!-gli comandava il padre-E’ ora di andare a lavoro. E questa sera ricordati di portare il sacco con la farina che ti darà il mugnaio.-

Il piccolo Otto obbediva. Attraversava campi e boschi, stradine e viottoli, sotto la pioggia o il sole cocente. Così ogni giorno, giorno dopo giorno. Andava al mattino e tornava la sera. Un po’ come il suo nome che andava e veniva, da destra verso sinistra e da sinistra verso destra, sempre allo stesso modo. La sua mamma aveva voluto chiamarlo Mariotto e poi Otto.

-Che bello il mio Mariotto! Che dolce il mio Otto!- E si riempiva la bocca con quel nome, così come si riempiva il cuore quando lo abbracciava. Era volata in cielo troppo presto lasciandogli quel nome ridondante e pieno d’amore.

 Una volta la stanchezza lo sorprese e cadde in un sonno profondo, rannicchiato ai piedi di un albero. Si addormentò profondamente. Nel sonno, vide lui stesso aprire gli occhi e stupirsi: un grande uccello gli accarezzava la guancia con il becco e con un’ala lo avvolgeva come per abbracciarlo. Non aveva mai visto un uccello così bello: delle piume di un forte colore azzurro gli coprivano il capo sul quale spiccavano delle piumette ritte colore dell’oro; il petto era di un giallo ocra che si intensificava fino ad assumere un caldo colore marrone; le sue ali verde smeraldo erano grandi e lucenti e la sua coda si apriva a ventaglio con tutte le sfumature del verde, del giallo, del marrone, dell’azzurro mescolato a tanti riflessi d’argento.

-Ciao piccolo! Sei molto stanco, vero?-

-Chi sei?- domandò il bambino

-Sali sulla mia schiena. Ti porto in alto, lassù, nel cielo a vedere quei boschi e quelle campagne che sempre attraversi e di cui mai hai notato la bellezza. Capirai cosa io rappresento.-

Otto accettò fiducioso quell’invito e, in groppa al suo uccello fantastico, si sentì pronto a iniziare il volo, mentre il suo viso si illuminava di gioia per quell’esperienza unica e eccezionale.

-Vedi laggiù quelle macchie colorate sulla montagna? Sono i laghetti dell’orgoglio- gli spiegava l’uccello.

-Quello giallo ocra è il laghetto dell’orgoglio di saper bene usare l’intelligenza; quello marrone è il laghetto dell’orgoglio di saper bene usare la forza fisica; quello azzurro è il laghetto dell’orgoglio di saper bene usare la parola, il linguaggio. Guarda quanto è bello quello argentato, splendente come una pietra preziosa al sole. E’ il laghetto dell’orgoglio di sapere ascoltare il proprio cuore. In ogni laghetto vivono dei folletti molto laboriosi che preparano delle bottigliette di prezioso orgoglio. Tutto il verde che vedi attorno è la vita che scorre, che tutto muove. Vuoi scendere in uno di quei laghetti?-

Otto fece cenno di sì con la testa, mentre sentiva il cuore battere forte e un sorriso a labbra strette nascondeva un’emozione e una felicità mai provate prima. Si immersero nel laghetto giallo e subito dei folletti verdi con cappello e mantellina gialla lo accolsero festosi, invitandolo a visitare il loro laboratorio. Otto rimase stupito nel vedere tante di quelle ampolline, bottigliette e vetrini e altro ancora che servivano perché il liquido fosse confezionato puro e efficace. Intanto il bimbo notava che il suo corpo si copriva a tratti di giallo e più avanzava nel laghetto, più sentiva  crescere dentro di sé una forza nuova. Visitò tutti i laghetti e in ognuno trovò simpatici folletti verdi con cappelli e mantelline di colori diversi a seconda del posto in cui vivevano e lavoravano, e ogni volta tracce di colore gli dipingevano il corpo. Doveva ancora immergersi nel laghetto argentato, ma rimase fermo a guardarlo incantato: era davvero il più bello e sentiva una certa soggezione al pensiero di toccare quello specchio di acqua lucente. Il suo compagno di viaggio lo incoraggiò e insieme si immersero nel lago argentato. I folletti si inchinarono alla vista dell’uccello che maestoso avanzava con Otto sul dorso. I due raggiunsero un laboratorio dove tutto brillava e un alito vitale si spandeva fino a raggiungere il cuore del bambino che si sentì all’improvviso leggero e felice come chi finalmente aveva trovato la cosa più preziosa che avesse al mondo: la voce del suo cuore.

Fu allora che il grande uccello cominciò a parlare:

-Le mie piume sono cariche di liquido che i folletti preparano e poi versano sul mio corpo per mantenere forte il significato della mia esistenza: sono il principe Orgoglio, guai se i miei colori sbiadissero! Tutti gli uomini perderebbero la forza di andare avanti, perderebbero la fiducia in sé stessi. Purtroppo l’uomo a volte è stolto e usa impropriamente tale forza, arrogandosi il diritto di superare il limite di Umiltà. Allora diventa cattivo e rischia di rimanere da solo: non c’è niente di più triste di un uomo solo. Impara Otto a usare l’orgoglio di essere uomo con umiltà e la vita ti regalerà tante gioie che sentirai ogni volta che avrai costruito qualcosa con impegno, mettendo in campo tutte le tue risorse.-

Il bimbo si svegliò all’improvviso, si alzò in piedi e cercò invano il suo amico. Capì che aveva incontrato quella creatura in sogno e che era arrivato il momento di tornare sui suoi passi.

 Il grande uccello tornò spesso nei sogni di Otto e la sua vita, umile, fu sempre costellata dalla soddisfazioni di avere raccolto i frutti del suo orgoglio.

I miei libri

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