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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Archivi tag: Sicilia

I Palici

12 giovedì Gen 2023

Posted by paolina campo in Etna, Sicilia

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I Palici, mito, modi di dire, Sicilia

L’avea mandato in Sicilia il padre

da lui nutrito nel materno bosco

in riva del Simeto, ov’è la mite

ricca di doni ara di Palìco.

Virgilio, Eneide, Libro nono 845-849

Nella Piana di Catania, dove scorre sinuoso il fiume Simeto, si trova il lago Naftia, sorgente di acque sulfuree ribollenti. Si narra che quel luogo fosse abitato dai figli di Giove e della ninfa sicula Talia, figlia di Efesto. Presso le sponde del fiume siciliano, Talia aveva incontrato il padre degli dei con il quale ebbe una relazione. Giunone, venuta a conoscenza di quell’amore e che la ninfa era rimasta incinta, perseguitò la giovane che chiese a Giove di liberarla dall’ira della dea. Sprofondata nelle acque del laghetto siciliano, Talia rimase lì nascosta dove partorì due gemelli, i Palici, Παλιϰοί in greco, cioè venire di nuovo dalle tenebre alla luce, come ci tramanda Eschilo: la terra si aprì e la madre con i figli balzarono fuori. I fratelli nati e nascosti nel laghetto di acque sulfuree, ebbero onori divini in quanto figli di Giove. Si eresse quindi un santuario nei pressi del laghetto dove, secondo la leggenda, si prestavano solenni giuramenti e lo spergiuro era punito dagli dei con la cecità.

Avissi annurbari di tutti e du occhi!

si grida ancora tra le vie popolari delle città siciliane, sottolineando quanto il mito abbia segnato l’ animo siculo, focoso come le acque dell’antico lago di Naftia.

Il riscatto

03 sabato Set 2022

Posted by paolina campo in libri

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coraggio, forza, Sicilia, tornare

Viola Ardone, OLIVA DENARO

Anche questo è fare politica…

Luce

30 sabato Apr 2022

Posted by paolina campo in pensieri

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Catania, Etna, Sicilia

Cerco,

tra le mille luci della città,

la risposta

alle mie paure,

alla mia solitudine.

Cerco,

il motivo delle mie convinzioni,

il perché

certe cose,

ai miei occhi,

sono di una bellezza sconvolgente,

da curare.

Perché

il desiderio di abbracciare con forza

ciò che mi appartiene

è così radicato in me,

tanto da farmi male?

E mi sento piccola,

un puntino

perso in questo angolo di universo

che ho tanto amato

e che tanto amo ancora.

Le nuvole sono diverse

22 venerdì Ott 2021

Posted by paolina campo in pensieri, Sicilia

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donna, Giuditta, Sicilia, uomo

Parto da una considerazione. Per carità, lontana da me l’idea di emulare certi slogan tristi e banali.

Sono siciliana e sono una donna. A voler dare credito ai dibattiti che sfrecciano di recente sui giornali e sui social, nella mia affermazione c’è tutto per considerarmi una sfigata. Il fatto è che ciò di cui si parla spesso è fondato su certezze secolari, dure a morire che vivono in un non-tempo, un tempo statico chiuso in una gabbia, da dove un orecchio attento può ascoltare le grida di dubbi che vogliono tornare alla vita.

La Sicilia è “strutturata” in modo tale che non è mai riuscita a dare risalto alle proprie risorse.

Le donne sono “strutturate” in modo tale che non possono fronteggiare l’avanzata trionfale degli uomini.

Ma se ribaltassimo le prospettive tanto da riuscire a scorgere che l’essere “differenti” è una risorsa, che inseguire un modello che vada bene per tutto e per tutti porta inevitabilmente al blocco della creatività, dell’ essere unici tra le mille cose del mondo?

Un territorio chiede attenzioni diverse secondo la sua posizione geografica e le sue tradizioni che vanno tutelate e mai dimenticate, pena l’appiattimento delle emozioni: cosa proverei io, siciliana, se spostandomi in un altro luogo trovassi le stesse cose, la stessa atmosfera che ho in casa? E lo stesso chi viene nella mia terra ha voglia di scoprire, di stupirsi, di curiosare. Di conoscere. Nessun territorio può essere considerato un problema, una questione da risolvere (da chi spesso non conosce i termini di tale problema), un groviglio di contraddizioni (io le definirei ricchezze multiple), se venisse osservato secondo le opportunità che offre, se si lasciasse ai limiti di diventare propositi e progetti.

Le donne. Ma davvero è necessario assumere atteggiamenti da soldati consumati, avanzando con passi pesanti di chi non ce l’ ha duro, ma ci prova?

Le donne sono diverse dagli uomini. Certo. Come il sole è diverso dalla luna; come il mare è un’altra cosa rispetto alla terra; come i fiori sono differenti dai frutti e le foglie dai rami; gli alberi dagli arbusti; i fiumi dai laghi; i pesci dai crostacei e i mammiferi dagli ovipari. Quanta ricchezza in queste differenze! Ogni cosa al mondo ha un suo ruolo, la sua insostituibile importanza. Cosa è mancato, quindi, alle donne perché il loro ruolo è stato così spesso sottovalutato? Non certo la spavalderia. Non serve. Ciò che è mancata è stata l’ autorevolezza, spesso, ancora oggi, in molti campi, prerogativa degli uomini che preferiscono descrivere come irrilevante l’esperienza delle donne.

Nell’Antico Testamento, pochi sono i racconti dedicati alle donne ma c’è una storia che racconta di una donna, Giuditta, che ha messo in atto tutta la sua femminilità per salvare il suo popolo. La sua autorevolezza è stata riconosciuta dal consiglio degli anziani, la sua voce è stata ascoltata e la sua strategia non è stata sbeffeggiata dagli uomini. Giuditta, donna autorevole,  una sorta di Ulisse buono al femminile, con l’inganno è riuscita a introdursi in uno degli accampamenti delle truppe di Nabucodonosor, conquistandone la fiducia. Non ha avuto bisogno di atteggiarsi a maschio furente. Il suo ingegno, la sua determinazione di donna sono bastati a portare a termine il suo piano.

Troppe donne vivono all’ombra di uomini che non riescono a liberarsi del fardello di una tradizione patriarcale che li ha fatti sentire dominanti. Si è detto che bisogna “educare la nuova generazione di maschi”. Bisogna educare anche le nuove generazioni di madri. In questa parentesi che è la vita, tutti devono avere il diritto di guardare al proprio destino con orgoglio. Le nuvole in cielo corrono libere di assumere ognuna la propria forma, di raggiungere ognuna il proprio traguardo.

Le acconciature della Montagna

04 lunedì Gen 2021

Posted by paolina campo in Etna, Sicilia

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Etna, racconti, Sicilia

https://amareilmare.wordpress.com/2016/01/24/le-acconciature-della-montagna/

Fammi strada-Le parole che non si devono dire (15)

30 martedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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capitolo quindicesimo, famiglia Florio, mafia, Sciascia, Sicilia

“Costui, il cui nome non voglio nemmeno pronunciare,….Mi ha chiamato, costui, mafioso; e va dicendo che io ho portato la battaglia elettorale sul terreno della mafia. Ma qual’è, o amici miei, l’autentico significato della parola mafia? “ Leonardo Sciascia, I MAFIOSI, Adelphi, Milano, 2010, pag.160

LE PAROLE CHE NON SI DEVONO DIRE

L’inverno era trascorso con tanta preoccupazione per la salute della nonna. Da qualche tempo accusava dei disturbi improvvisi che minavano il suo equilibrio, la sua stabilità fisica. Qualcosa, nella grande macchina che è il cervello, le faceva perdere il controllo delle gambe e rischiava di cadere rovinosamente, se non fosse che da qualche tempo non usciva più da sola. Era come se alcuni neuroni andassero in corto circuito, come se i comandi cerebrali, preposti al controllo degli arti inferiori, andassero in fase di alta tensione e quelli, presi da una forte scossa, perdessero completamente la forza di tenerla in piedi. Nunzia, dopo avere ascoltato un medico specialista, si era fatta una certa idea della situazione vascolare della nonna:  quel sistema di circolazione sanguigna si era ridotto come un impianto idrico guasto, dove capitava che da qualche tubatura saltava un pezzetto di ruggine che, errando senza meta, andava a minacciare il funzionamento di quel corpo. La vita cominciava a cambiare per quella donna dall’entusiasmo tutto siciliano per cui “arancina” era “arancina” e basta.

-Oggi faccio le polpette con le patate.-

In quel “faccio” c’era la collaborazione di chi si trovava in casa.

-Prendi la cipolla e poi le patate.-

Seduta al tavolo, si apparecchiava per preparare le sue patate, le sue polpette o qualsiasi altra cosa che passando per quelle mani diventava una specialità condita di allegria.

-Che dice il giornale oggi?-

-Che c’è la guerra, mamma. No quella che abbiamo conosciuto noi. Una guerra subdola, fatta di parole che non si possono dire, di pensieri che non si devono esprimere. Ne hanno ammazzato un altro ieri.-

Erano gli anni che a Palermo i giornali si trovavano nelle edicole ma si vendevano anche per strada, lungo i vicoli dei mercati della Vucciria, di Ballarò, di Capo. “L’ORA, quanti ni murieru!”[i], gridava uno strillone senza denti, povero e chissà con quale idea di quei morti raccontati da un giornale che un’idea precisa ce l’aveva: combattere la mafia, il malaffare, la povertà di una terra tanto bella quanto sottomessa. Un’idea che pulsava forte, che sfidava i colpi di lupara perché “ la pelle è solo un tessuto”[ii]. Gli americani avevano lanciato sigarette e cioccolata dai loro  carri armati, e la gente si era convinta che con quello sbarco in Sicilia, gli “amici” d’oltreoceano erano davvero venuti a liberarli dall’orrore della guerra. Con loro era arrivato, però, anche Lucky Luciano, Lucky, il Fortunato, il mafioso con la gola cucita. Gli americani attraversarono la Trinacria, accolti con grande enfasi mentre si preparavano a trattare con gente senza scrupoli che avrebbero governato comuni, gestito terreni, controllato appalti, seminando sfiducia e paura.  “L’ORA, quanti ni murieru!”. Dal 1954 Vittorio Nisticò assunse la direzione del giornale palermitano e la lotta alla mafia divenne impegno quotidiano. Le attività mafiose, che trovavano terreno fertile nei silenzi e nella complicità delle istituzioni, avevano tracciato un’immagine distorta della Sicilia e dei siciliani a cui era stata tolta anche la speranza di alzare la testa, di guardare con orgoglio alle proprie tradizioni, alla propria storia.

-Vedi Nunzia, per ognuno che muore sotto i colpi della lupara, se ne devono alzare mille per dire basta. Ma per fare questo bisogna che voi giovani studiate. Per ognuno che muore sotto i colpi della lupara, mille coscienze si devono svegliare, mille voci si devono alzare. E tanti libri devono circolare. L’ignoranza è l’amica migliore della sopraffazione e il nostro direttore lo sa.-

La zia non perdeva una copia del giornale L’Ora, e non perdeva occasione per raccontarle la storia di una Sicilia che voleva credere nel progresso.

-Immagina i quattro canti pieni di gente curiosa e tanti abbanniaturi che arrivano dal mercato della Vucciria con fasci di giornali. Immagina un uomo che sale sul bordo di una delle fontane agli angoli della piazza, e annuncia l’uscita di un giornale nuovo, tutto siciliano. Un giornale che non si sarebbe accontentato di fare la cronaca dei fatti e dei misfatti che attraversavano le strade di Palermo, ma che voleva imporsi all’attenzione nazionale perché la Sicilia non fosse più considerata periferia di mali da piangere in solitudine.-

La zia continuava a raccontare le pagine più significative del giornale nato nel 1900 per voler della famiglia Florio e che vide come suo primo direttore Vincenzo Morello che, salito energicamente su quella fontana ai Quattro Canti, si diede un nome di battaglia: Rastignac.

-L’ORA si era dato un obbiettivo: uscire dalla condizione di solitudine e condividere con la nazione l’arte, la cultura, il paesaggio, la gente, offuscati dalla mafia, con la compiacenza delle istituzioni.-

Nunzia la guardava, la ascoltava. La Sicilia, la sicilianità scorreva nelle vene di quella donna, con la stessa forza che avrebbe avvertito tra le pagine del giornale, che aveva la sua sede in Piazzetta Napoli e che presto sarebbe stata una delle sue mete quotidiane.


[i] L’ ORA, quanti ne sono morti

[ii] Pierluigi Ingrassia, direttore del giornale l’Ora dal 1947 al 1953, nel 1947 risponde, con un intenso editoriale, alle intimidazioni del bandito Salvatore Giuliano, dopo la strage di Portella della Ginestra.

Fammi strada-Una piccola goccia (12)

24 mercoledì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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Castelbuono, dodicesimo capitolo, frassini, manna, movimento dei contadini, Sicilia

“Producendo innanzitutto le erbe di ogni genere, e la verzura splendente, la terra ne ricoprì dovunque le colline e le pianure; i prati fioriti brillarono d’un colore verdeggiante; poi i diversi tipi di alberi poterono slanciarsi a piacimento nell’aria, senza né freno né redini per imbrigliarne la crescita.” Lucrezio, DE RERUM NATURA, Garzanti editore, 1975, libro V, vv. 783-787

UNA PICCOLA GOCCIA

-Sono stato a Catania. Sono passato da Cibali, ho rivisto mio padre. E’ sempre lì ad aggiustare biciclette.-

-Sei passato da Ognina? Hai visto mia madre? Hai incontrato mio padre? Hai parlato con Rosetta?-

-Siediti. Sono passato da casa tua. Le porte, le finestre erano tutte chiuse. Ho chiesto ai vicini e mi hanno detto che i tuoi genitori non ci sono più.-

-Non ci sono più? E dove sono andati?-

-Sono morti, Giovanni.-

-Ma che dici?-

-Rosetta, una mattina, all’alba, ha preso un gozzo ed è andata via. Nessuno l’ha più rivista al porticciolo.-

Giuseppe non aveva mai amato la pesca e non aveva mai voluto imparare a nuotare. Quella che si faceva strada nella sua mente era l’idea di tornare ai campi, gli stessi che il padre aveva lasciato quando, prima della guerra, era arrivato a Catania per portare un carico di mannite ad un farmacista.

-Cos’è la mannite, papà?-

– E’ il risultato dell’amore per la propria terra.-

-In che senso?-

-Attorno al mio paese si distendono vallate dove crescono alberi di frassino. Hanno un tronco sottile e rami che danzano al primo soffio di vento. Dai tronchi sgorga la manna. Ti racconto come si fa.-

Giusepe, allora, si sedeva vicino vicino, quasi abbracciato al padre e ascoltava quell’uomo che negli occhi aveva dipinte le montagne delle Madonie, le verdi vallate e le antiche strade attraversate dall’odore del pane fatto in casa.

-Gli attrezzi principali sono il mannaruolu, una sorta di coltello a forma di falce; la rasula, dalla forma di una fionda di legno alla cui estremità è teso un filo metallico; una grande foglia di ficodindia.-

-Una foglia di ficodindia?-

Incredulo il bambino guardava il padre che rise e continuò a raccontare.

-Allora, andiamo per ordine. Con il mannaruolu il contadino incide il tronco, gli fa una ‘nzinga. Questa parola dalle nostre parti indica l’anello di fidanzamento, quindi il contadino si fa zitu ca pianta, si fidanza con la pianta. Si innamorano. Da quell’incisione sgorgano cannoli di manna, una linfa bianca come la cera e dolce più dello zucchero. Secondo un’ antica leggenda contadina, le piante del frassino amano la musica e per questo producono solo quando cantano le cicale. Un fidanzato innamorato è attento alle esigenze del cuore della sua amata e il contadino, per raschiare la manna dal fusto, usa una rasula dove il filo metallico è una corda di chitarra.-

-E la foglia di ficodindia?-

-Quella si mette ai piedi del fusto, proprio sotto la ‘nzinga, per raccogliere la parte di manna che cade durante la colatura. Quando la linfa comincia a sgorgare dalla pianta, scende lungo il fusto e man mano si solidifica. Se il fusto è storto, si formano dei cornetti, come delle stalattiti di ghiaccio, sai come quelli che abbiamo visto una volta sull’Etna. Sono i cannoli di manna. Nel mio paese, a Castelbuono, la mia vecchia Ypsigro, esiste una fabbrica dove lavorano la manna. Io lavoravo lì prima della guerra. Poi ho conosciuto una bella catanese e sono rimasto qui.-

I racconti di suo padre si intrecciavano con i pensieri di un ragazzino che immaginava estesi campi, aria fresca, e verdi vallate come l’unico luogo dove avrebbe voluto vivere.

Era andato via dalla casa dei suoi genitori senza dire nulla, certo di tornare quando avrebbe potuto raccontare loro della sua gioia di essere riuscito a lavorare in quei campi dove gli alberi amano la musica. Avrebbe portato loro cubetti di mannite, per curare i loro disturbi di stomaco o per fare un ottimo sciroppo per la tosse.

-E’ andata così, Giuseppe. Nessuno ha colpa. Tu hai seguito la tua strada che poi era quella segnata dall’amore per i tuoi genitori. Continua, lotta. Lottiamo insieme.-

Aveva raccontato a suo padre della sua ambizione, di quell’idea che si faceva sempre più insistente di lavorare per dare ragione della bellezza della sua terra.

-Sei una piccola goccia in mezzo a un mare in tempesta. Ti costringeranno ad abbandonare il tuo sogno e affogherai nella tua delusione.-

– Papà, ricordi quando mi raccontavi la favola del colibrì? Chi te lo fa fare, gli chiedevano gli animali più grossi di lui che scappavano davanti al fuoco che stava distruggendo la foresta. Lui, piccolino, continuò a trasportare gocce d’acqua per spegnere il fuoco. Fece la sua parte, non si arrese e altri piccoli animali lo seguirono, non scapparono e la foresta si salvò. Io voglio fare la mia parte, papà.-

Erano gli anni in cui si formavano sindacati, come l’Alleanza dei coltivatori e l’Unione siciliana delle cooperative agricole, attenti alle esigenze delle organizzazioni di massa del movimento dei contadini. Forte dell’adesione ai sindacati, Giuseppe, insieme ad altri giovani decisi ad essere piccole gocce capaci di migliorare le sorti della Sicilia, incontrò agricoltori, sindacalisti e viaggiò per tenere alto l’interesse su una terra martoriata, non solo dalla recente guerra, ma anche e soprattutto dai soprusi mafiosi radicati e alimentati da chi di quella terra ne voleva fare una schiava.

-Ho parlato oggi con il dottore Ovazza.-

-Chi è? Non lo conosco.-

-Dai, il comunista ebreo innamorato della nostra isola.-

Il comunista ebreo innamorato della Sicilia era Mario Ovazza che nel 1938 era stato cancellato dall’albo professionale degli ingegneri perché ebreo.

– Mio padre conobbe un matematico all’Università di Catania che poi, come astronomo, divenne direttore dell’Osservatorio che c’era all’interno del Monastero dei Benedettini e aveva iniziato la compilazione di un’ imponente Catalogo Astrografico. Anche lui, come era previsto dalle leggi razziali, venne esonerato perché ebreo e la sua vita, la sua carriera furono completamente distrutte.-

Giuseppe aveva lasciato la sua casa convinto di essere una goccia capace di poter fare qualcosa, convinto che la storia poteva essere l ‘amica migliore per imparare a essere liberi di costruire, difendere, tutelare ciò che ci appartiene ed esserne orgogliosi. Aveva seguito dei giovani studenti, si era iscritto all’università di agraria a Palermo e presto lavorò come pubblicista per il giornale L’ ORA.

-Forse siamo solo dei giovani visionari. Ma ci dobbiamo provare.-

Azeglio Bemporad, Direttore del Regio Osservatorio di Catania già prima della Seconda Guerra Mondiale, autore della compilazione di un importante Catalogo Astrografico. (Officine Culturali, Catania)

Uomini di cervello

24 domenica Mag 2020

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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cultura, Giovanni Falcone, mafia, Sicilia

Durante gli anni del liceo vivevo a Palermo in un antico quartiere vicino al mercato storico di Ballaro`. Il balcone della mia stanza, dove dormivo, studiavo e passavo la maggior parte delle mie giornate tipiche di un’ adolescente, si affacciava su una strada che correva fino al Policlinico, all’ Ospedale Civico e al cimitero monumentale di Sant’ Orsola. Quella strada era quindi attraversata da ambulanze in corsa verso quelle destinazioni, ultimo porto a cui approdavano, troppo spesso in quegli anni, le vittime di mafia. Sul finire degli anni settanta e agli inizi degli anni ottanta, le sirene tuonavano forte e senza tregua. Erano gli anni in cui i giornali e i telegiornali rendevano conto del susseguirsi di morti eccellenti per mano di un’ organizzazione che sembrava avere ingaggiato una guerra per un potere che doveva essere incontrollato, il potere degli uomini “d’ onore”. A Palermo si usava definire qualcuno di cui ci si poteva fidare masculu di panza o fimmina di panza, non nell’ accezione di persone di grossa taglia, ma di gente che teneva nello stomaco verità inconfessabili, e quindi persone che non avrebbero mai parlato di cose che era meglio tenere nel limbo delle verità pericolose. Un uomo d’ onore era un masculu di panza, addestrato ad essere silenzioso e crudele. A lui era dovuto rispetto, assenso e sottomissione, facendo leva su chi aveva più paura della miseria che dell’ annullamento di sé stesso, del coraggio di rivendicare i propri diritti, perché la mafia “da’ pane e morte” come si leggeva negli articoli del giornale L’ Ora, fiore all’ occhiello di una Sicilia colta e coraggiosa. Vittorio Nistico`, mitico direttore del quotidiano palermitano dal 1954 al 1975, non si stancava di scrivere nei suoi editoriali che era proprio nella stretta dell’ omertà, dell’ ignoranza, della miseria che i poteri mafiosi intrecciano i loro affari. Quando ci fu l’ attentato al magistrato Giovanni Falcone, non ero a Palermo, non sentii le sirene delle ambulanze che gridavano di costernazione, quelle stesse che anni prima avevano annunciato la morte di Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa, per citarne alcuni, che erano uomini di cervello, di libertà culturale. Mi ero trasferita da poco a Catania e la notizia dell’ attentato mi arrivò come una scossa, un terremoto: hanno vinto loro? Certo che no. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e quelli che prima di loro hanno dato la vita per sciogliere le catene del malaffare, ci hanno insegnato che l’ ignoranza va combattuta, che l’ entusiasmo premia, che la paura va guardata in faccia perché ci dica qualcosa e poi ci hanno lasciato un grande messaggio: dobbiamo amare di più la nostra terra e non dobbiamo permettere a nessuno di offenderla.

Noi siciliani

09 sabato Mag 2020

Posted by paolina campo in libri

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De Rerum Natura, Etna, Lucrezio poeta latino, Sicilia

……e di chi ammette che quattro elementi bastano a produrre tutte le cose: il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua. Li guida Empedocle di Agrigento (che dentro le sue spiagge ha visto nascere la Trinacria Sicilia, che i flutti dell’Ionio circondano e frastagliano in vaste insenature, bagnandola con l’acredine delle verdi acque-uno stretto canale, dove precipita l’onda marina, separa questa terra dalla sponda italica: qui sta la divorante Cariddi e i boati dell’Etna che minacciano un nuovo risveglio della sua collera, una nuova eruzione la cui violenza vomiterebbe il fuoco dalle sue bocche portando fino al cielo i bagliori delle fiamme-). Malgrado tutte le meraviglie che rendono questa terra degna di ammirazione del genere umano e della curiosità dei viaggiatori, e l’abbondanza dei suoi beni, e il baluardo che per lei forma la forza d’un popolo numeroso, mai -credo- essa ha posseduto nulla più illustre di quest’uomo, più venerabile, stupefacente, prezioso.

Lucrezio, De Rerum Natura, vv.714-730

Le gelsominaie di Milazzo

09 lunedì Mar 2020

Posted by paolina campo in Sicilia

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diritti alle donne, donne lavoratrici, gelsomino, sciopero, Sicilia

Porto di Milazzo

Si narra che la madre di tutte le stelle, che viveva in un castello fatto di nuvole belle, cuciva vestiti dorati per tutte le sue figlie sparse nel firmamento. Alcune piccole stelle, non contente dei vestiti che avevano ricevuto, iniziarono a ribellarsi e a chiedere con insistenza che la madre cucisse per loro altri vestiti.

-Adesso non posso. Abbiate pazienza, ci sono anche le vostre sorelle.-

Ma le stelline continuavano a lamentarsi e a portare scompiglio tra le stanze del castello fatto di nuvole belle. Il signore del cielo si arrabbiò e punì severamente le stelline: le spogliò dei loro vestiti dorati e le lanciò sulla terra. La madre era disperata, non voleva che le sue stelline fossero calpestate dagli uomini. Chiese allora aiuto alla signora dei giardini che trasformò le piccole stelle in fiori profumatissimi che chiamò gelsomini.

Fin dai primi anni del ‘900, nella piana di Milazzo, cittadina sulla costa nord-orientale della Sicilia affacciata sul mar Tirreno, si coltivavano i gelsomini. La raccolta di questi fiori profumatissimi era affidata alle donne, non solo perché le loro mani più piccole erano più adatte alla raccolta, ma anche perché venivano pagate meno degli uomini. I gelsomini, stelline del firmamento, dovevano essere raccolti di notte. Con il sole ingiallivano e perdevano il loro profumo: la loro essenza doveva arrivare intatta alla grande industria cosmetica francese di Grasse dove si preparavano i migliori profumi al mondo. Le gelsominaie si trovavano alle 2:00 di notte in una piazza della loro cittadina e alle 2:30 passava un camioncino per portarle nei campi. I gelsomini raccolti venivano messi dentro una sacca che le donne tenevano legata in vita. Quando la sacca era piena, la svuotavano dentro un grande cesto. Andavano vestite con gonne lunghe e un fazzoletto in testa e spesso lavoravano scalze, affondando i piedi nudi nel terreno irrigato qualche ora prima. Il loro lavoro terminava alle prime luci dell’alba, quando la fatica e l’umidità avevano messo a dura prova quei corpi e aveva provocato gravi infezioni ai piedi nudi tra fango e insetti. All’indomani della seconda guerra mondiale, le gelsominaie, guidate da una di loro forte e intraprendente, conosciuta con il nome de la bersagliera, occuparono il comando di polizia di Milazzo e iniziarono uno sciopero contro lo sfruttamento e le cattive condizioni in cui erano costrette a lavorare. La loro lotta fu tenace e il loro grido si alzò forte fino a che non fu loro riconosciuto un aumento del salario e un abbigliamento più adatto per sopportare l’umidità come stivali di gomma, grembiuli e guanti. La bersagliera continuò la lotta per i diritti delle lavoratrici di Milazzo iscrivendosi a un sindacato. Le gelsominaie ottennero orari e turni di lavoro migliori e continuarono a raccogliere le stelline profumate fino agli anni ’90, quando i campi furono coperti dal cemento e la fragranza inebriante dei gelsomini fu riprodotta chimicamente.

La signora dei giardini pianse la scomparsa dei campi e la madre di tutte le stelle non cucì più vestiti dorati.

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