Scivola lento sull’acqua, intonando un basso continuo che si accorda alla musica del blu che lo circonda. Il gozzo di Pasqualino suona sempre le stesse note, sia quando esce al tramonto per disporre le reti e le nasse in prossimità di secche popolose; sia quando all’alba torna a recuperare il pescato.
Sembra una mattina tranquilla. É Marzo. O forse Aprile. Di centro nell’aria c’è sentore di primavera. Pasqualino come al solito è partito presto. E come al solito ha sentito la signora Mimma.
-Se porto delle belle scorfanelle, le vuole?
Certo che le vuole. Quelle, cucinate con pomodorini e capperi sono davvero speciali.
Magro, alto, con un viso scolpito da rughe disegnate dal sole e circondato da una massa di capelli lunghi, arruffati, anche loro “abbronzati”, ha un sorriso cordiale e scostante del tipo: voglio bene a tutti ma statemi lontano.
Sembra una mattina tranquilla, ma Pasqualino ha avvertito un soffio di vento premonitore di mutamento e delle grosse nuvole avanzano da nord.
Poi il botto, fortissimo. Stromboli dà dimostrazione della sua potenza, è esploso lanciando in aria una enorme nuvola di fumo e una roccia si è staccata lanciandosi pericolosamente in mare. Presto, bisogna fare presto. Bisogna raggiungere la riva e tirare a secco la barca.
Pasqualino vede gli altri pescatori dirigersi verso il porto. Lui decide di fermarsi in una baia. Assicura il gozzo a una roccia, lega per bene poppa e prua e sale sul costone roccioso che si affaccia maestosamente sul mare.
Il vento scompiglia i suoi capelli cespuglio e lui, immobile, guarda lontano e la vede. Avanza alta, minacciosa e scaraventa tutta la sua energia sulla riva. Un’onda anomala è partita dalla sciara del fuoco e ha viaggiato imperiosa raggiungendo tutte le isole, spezzando le cime delle barche che non hanno trovato riparo.
Pasqualino sa che la forza del mare, del vulcano è immensa e la sente arrivare, la sente attraversargli le viscere, irrobustirgli il cuore e l’anima.
Custodisce dentro di sé quella forza, per avere cura e rispetto di tutto ciò che lo circonda e in silenzio aspetta che tutto si plachi.
La nave è partita in perfetto orario. È Gennaio e il fatto che sia partita è già un miracolo. La gente, poca, si sistema nei salottini preposti all’accoglienza dei passeggeri e il personale di bordo percorre con zelo le sale e i corridoi. Prendo posto anch’io in una delle poltrone da cui posso osservare il porto illuminato farsi sempre più lontano e le luci della notte sempre più evanescenti. Sono le nove della sera e l’arrivo è previsto per la mezzanotte. Qualche bambino piange, degli uomini parlano a voce alta, qualcuno mangia qualcosa e i motori della nave rombano mentre fuori il mare e il cielo diventano sempre più scuri. I miei occhi perlustrano la sala, forse c’è qualcuno che conosco, ho fatto mille volte questo viaggio. In ognuno riconosco il dialetto, i tratti tipici della gente che vive in quei luoghi dove il mare forgia il carattere e l’animo e ne diventa padrone, ma sono ormai lontani da me. Chiudo gli occhi e la porta del mio presente. Comincio a dipingere con la mente un mondo che profuma di terra bagnata, di aria salmastra, di gioia, di promesse semplici mantenute per sempre. Anche questo mondo è ormai lontano da me. Dietro lo specchio di quelle immagini vedo un mare tenebroso da cui emergono le risa sarcastiche di mostri marini che lanciano frecce, azzannano il cuore e succhiano il sangue di chi si affatica a raccogliere i cenci di trame tessute e inutilmente distese.
La nave continua a solcare quel mare buio che mette paura a gente inesperta. Riapro gli occhi. Forse mi sono addormentata. Qualcuno si è disteso lungo poltrone allineate, i bambini dormono e le madri trascorrono il tempo scorrendo le immagini di un cellulare. Chiedo dov’è la toilette: c’è un grande specchio, alcuni rubinetti e degli erogatori di sapone liquido per lavarsi le mani. Una voce annuncia che siamo arrivati a destinazione. Guardo fuori dal finestrino. Luci gialle, case bianche e volti. Sono di nuovo qui, sono ancora qui. È una promessa.
È una mattina strana. Dalle fessure delle finestre appena socchiuse non arriva tanta luce. Fuori il sole ha di certo difficoltà a farsi spazio tra i nuvoloni scuri che già dal giorno prima, avevano preso possesso della porzione di cielo che sovrasta il paese. Fa freddo e il letto è un nido caldo da dove è difficile uscire. Eppure gli uccellini sono già in giro da un pezzo. Li sente scambiarsi cinguettii, incuranti della brutta piega che sta per prendere la giornata. Lucia non ha voglia di dare inizio alla sua di giornata. Richiude gli occhi e si riaddormenta. Si vede seduta su uno scoglio emerso da una spiaggia nera dove, qua e là, appaiono cespugli verdi che abbracciano piccoli fiori gialli. Non c’è nessuno su quella battigia, fa freddo e il mare sembra irrequieto. Cosa lo turba? Sente quell’irrequietezza scivolarle dentro e il suo animo inizia ad agitarsi. Quante cose ha da chiedere al mondo! E quelle onde, quante risposte cercano tra il fragore dell’acqua mossa dalle correnti! Si vede travolta da una di esse. Si vede avvolta dall’acqua che la trasporta lontano. Ha paura. Si sveglia madida di sudore. Fuori ha iniziato a piovere e lo scroscio della pioggia battente arriva nitido nella stanza dove il sole, quel giorno, non sarebbe entrato. Ognuno ha il suo destino, dicevano gli anziani seduti attorno alla conca. Non capiva di cosa parlavano mentre il fuoco del braciere ardeva di calore e memoria. Andava spesso a trovare i parenti di papà. Loro vivevano in case dai tetti spioventi per fare scivolare la neve che in inverno cadeva lenta e copriva tutto, tranne l’odore del pane di casa che si diffondeva forte e invitante tra le stradine dell’antico borgo incastonato tra i monti delle Madonie. Di quegli anziani non c’è più traccia, se non nella mente di chi ancora li ricorda.
Era una mattina strana. Dalle fessure delle finestre appena socchiuse, non arrivava tanta luce. Fuori, il sole aveva di certo difficoltà a farsi spazio tra i nuvoloni scuri che già il giorno prima avevano preso possesso della porzione di cielo sopra il paese.
Faceva freddo, e il letto era un nido caldo da cui non si riusciva a uscire. Eppure gli uccellini erano in giro da un pezzo: li sentiva scambiarsi cinguettii, mentre saltavano da un ramo a un altro degli alberi che popolavano il suo giardino. Ma Lucia non aveva voglia di dare inizio alla sua giornata.
Richiuse gli occhi e si riaddormentò. Si vide seduta su uno scoglio emerso da una spiaggia nera, dove, qua e là, apparivano cespugli verdi che abbracciavano piccoli fiori gialli. Non c’era nessuno su quella battigia, faceva freddo e il mare sembrava irrequieto. Cosa lo turbava?
Sentì quell’irrequietezza scivolarle dentro e il suo animo iniziò a agitarsi. Quante cose aveva da chiedere al mondo? E quelle onde, quante risposte cercavano tra il fragore dell’acqua mossa dalle correnti?
A un tratto si vide travolta da un’onda.
Avvolta dall’acqua, si vide trasportata lontano mentre si diffondeva, in quel turbinio, il racconto che il mare stava recitando a gran voce ai suoi abitanti. Ebbe paura.
– Annego! – gridò.
Si svegliò madida di sudore.
Fuori aveva iniziato a piovere. Lo scroscio dell’acqua piovana arrivava nitido nella stanza. Il sole , quel giorno, non sarebbe entrato e Lucia preferì rimanere nascosta tra le lenzuola calde del suo letto.
Tra il 1858 e il 1862, le campagne del sud della Francia furono raggiunte da una terribile maledizione: la fillossera, un insetto che aveva infettato migliaia di barbatelle di viti, mettendo in ginocchio la già precaria vita dei contadini. Era arrivato dall’America quel parassita che aveva tolto il sonno a intere famiglie, tra cui quella di Brigitte che, un giorno, si trovò nella condizione di lasciare tutto per cercare un posto migliore dove vivere, magari imbarcandosi su uno di quei velieri che arrivavano al porto di Marsiglia.
In quegli anni, le acque del Mediterraneo erano solcate da grandi velieri, alcuni dei quali provenivano da un’isola, piccola ma tanto ricca, dove si produceva un’ottima Malvasia, vino denso, zuccherato, dorato. La sua fortuna risaliva al periodo tra il 1805 e il 1815, quando i soldati inglesi, di stanza a Messina durante le guerre napoleoniche, l’avevano scoperto e ne avevano consumate enormi quantità. Nel volgere di pochi anni, la flotta mercantile di Salina si fornì di decine di velieri e la terra fertile dell’antica Didyme, fu messa a coltura fino alle cime delle sue montagne, il Monte Porri e il Monte Fossa delle Felci.
Il padre di Brigitte aveva preso contatti con uno dei padron e una mattina aspettò di imbarcarsi, insieme alla sua famiglia, pronto a attraversare il Mediterraneo per raggiungere il luogo dove poteva continuare a coltivare la terra. Navigarono giorno e notte, fino a quando approdarono al porto di Santa Marina. La famiglia francese trovò una sistemazione nella piccola frazione di Lingua, dove Brigitte conobbe un giovane con il quale si sposò e, ancora giovane, ebbe dei figli.
La fillossera, inesorabile, raggiunse però anche le campagne di Salina e nel giro di pochi anni, anche le barbatelle piantate e coltivate sull’isola furono distrutte. I velieri dovettero interrompere il loro commercio: le viti, annientate dal parassita, non diedero più frutto e l’economia dell’isola crollò improvvisamente. Molti emigrarono in Australia, altri in America. Anche i genitori di Brigitte lasciarono l’isola, portandosi dietro affetti, ricordi e progetti. La ragazza, rimase a vivere a Lingua e non tornò mai più nella sua amata Marsiglia.
– La mia mamma soffrì tanto di malinconia. Morì con un grande vuoto nel cuore. – Così ricorda la signora Maria, ormai avanti negli anni e che ancora vive sull’isola.
Il mare aveva raccolto insieme tutte le onde e le aveva portate lontano. Ne aveva dimenticata una piccola e fragile, che si dileguò sulla battigia di un paese dove non aveva scelto lei di approdare.
Nelle acque tranquille del mar Tirreno, vivevano tanti pesci: chi andava su, chi andava giù; chi nuotava a destra e chi a sinistra. Avevano tutti un gran da fare tutto il giorno, ma poi, alla sera, tutti tornavano al luogo da dove erano partiti: un’immensa grotta in fondo al mare dove, appoggiato a una parete, si trovava un grande libro con enormi fogli bianchi. I pesci, al ritorno dai loro viaggi, scrivevano, sulle pagine del volume sottomarino, le storie che avevano ascoltato dalle conchiglie che si muovevano lente sugli scogli. Una volta al mese, la fata degli abissi radunava tutti i pesci e chiedeva a uno di loro di leggere ciò che aveva scritto. Mupe, scorfanelle, polpi, lampughe e cernie accorrevano lieti per partecipare al grande evento. Quando tutti avevano preso posto, da un angolo della caverna partivano tante bollicine per avvolgere e accompagnare il prescelto al centro della grotta. Le storie erano tutte interessanti, alcune commoventi, altre allegre. Quelle lette dai polpi erano a dir poco stravaganti e a volte complicate. Una volta un polpo, che tempo per raccontare ne aveva ormai poco, iniziò a leggere la storia della sua breve vita come fosse un’apertura e chiusura di parentesi tonde, quadre e graffe.
Risolte le operazioni in parentesi tonda riguardante la sua infanzia, era poi passato al calcolo della sua giovinezza in parentesi quadra. Infanzia più giovinezza uguale età adulta che, in parentesi graffa, si andava a moltiplicare con il valore della compagna della sua vita e il risultato era un numero elevato al quadrato di piccoli polipetti. Così concludeva la sua dissertazione e tutti applaudivano con soddisfazione.
Ma la storia più tenera che s’era sentita era quella di uno scorfanello che si era innamorato di una rondinella. Una volta, al tramonto, era salito in superficie, e la vide volare allegra insieme alle sue compagne. D’un tratto i loro sguardi si incontrarono ed entrambi si fermarono, assaporando quell’attimo di tenerezza. Tramonto dopo tramonto, attesero di guardarsi, alimentando il loro amore fino a quando il vento portò via per sempre la rondinella. Da allora lo scorfanello soffrì di una tristezza sorridente che lo accompagnò per tutta la vita. Era triste ma sorrideva quando, chiudendo gli occhi, aveva l’impressione di vederla. Applausi.
Al tramonto gli uomini si erano raccolti in cantina e, come al solito, avevano discusso e bevuto, bevuto e discusso.
-Fammi conoscere tua moglie…la prendo io!
-Che hai capito?!?! Per raccogliere i capperi!!!
E giù vino e risate.
-Fedicei, ma che cavolo di nome hai?
A fine serata non avrebbero capito più nulla, né dei loro discorsi e neanche quale uscita imboccare per tornare alle loro case: qualcuno si perdeva tra l’erba dell’orto dove trovavano spazio gli alloggi per conigli e galline; qualcun altro seguiva incerto la strada che portava alle viti; altri si addormentavano in cantina, prigionieri di un’ebbrezza dionisiaca. Fedicei aveva i capelli bianchi e beveva appena un bicchierino di malvasia. Quella cantina era la sua vita, ci aveva lavorato tanto. Guardava con attenzione le botti che dovevano essere portate al molo di scalo Galera: l’acqua salata del mare le avrebbe pulite e sterilizzate. Era un lavoro che andava fatto, per ogni botte, almeno ogni cinque o sei anni e quelle che si trovavano subito a destra dell’entrata alla cantina avevano bisogno di essere pulite. Decise di andare a letto e lasciare i suoi compari ai loro bicchieri profumati di allegria. Avrebbe aspettato il giorno dopo per parlare delle botti.
Fedicei era arrivato a Salina perché qualcuno aveva raccontato a suo padre che su quell’isola si stava bene. Avrebbe trovato terreni fertili e aria buona e non avrebbe conosciuto più la miseria se solo avesse lavorato sodo. Si decise quindi a partire da Barcellona Pozzo di Gotto alla volta di quell’isola felice.
-Fedicei, dove sei?
Il suo nome sembrava una specie di riassunto di quello che era la sua vita: una spinta continua verso la felicità che si trovava sempre in posti diversi da dov’era lui. I genitori avevano deciso di chiamarlo Felice, come il nonno paterno. Ma proprio quando stava per nascere, arrivò la notizia che un fratello di suo padre era morto al fronte. Si chiamava Cielo per un vezzo un po’ particolare del nonno che andava in giro per le strade del paese a recitare:
S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo; s’i fosse vento, lo tempestarei; s’i fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo; s’i fosse papa, allor serei giocondo, ché tutti cristiani imbrigarei; s’i fosse ‘mperator, ben lo farei; a tutti tagliarei lo capo a tondo. S’i fossi…..
-Ma che racconti?- gli gridava dietro la gente.
-Cielo, cielo!- rispondeva lui.
Mischiando le sillabe di Felice e Cielo, e adattando un po’ il senso, era venuto fuori Fedicei, un nome strano ma che sapeva di sogni lontani, di stelle antiche e stanche. La famiglia di Fedicei si stabilì a Capo, nei pressi della chiesetta di Sant’Anna, e lì iniziarono la loro attività di contadini. Coltivarono la vite e il loro orgoglio più grande era la produzione della Malvasia. Avevano saputo della fillossera, di come le piante erano state attaccate e distrutte. Tanta gente era stata costretta a lasciare quell’isola verde. Ma bisognava ricominciare, era necessario lavorare in quei campi e farli tornare al loro splendore. Chi va via non torna più e ciò che si è lasciato va recuperato, tutelato e salvato da chi di un luogo riesce a sentirne il respiro, e la famiglia di Fedicei si riempì i polmoni dell’aria di quell’isola che aveva bisogno di cure. Seguendo il trascorrere delle stagioni, si zappava, si potava e si portavano le botti a mare. Legate sulla schiena come fossero grossi zaini, i contadini percorrevano a piedi la contrada di Capo Faro e Capo Gramignazzi fino ad arrivare a Malfa. Qui raggiungevano la lunga scala che portava al molo e giù, piano piano, facendo attenzione a non perdere l’equilibrio, fino al mare che avrebbe aiutato quegli uomini forti spingendo le onde fin dentro le pance capienti delle botti di legno. Fedicei aveva sempre seguito il padre e andare al mare gli piaceva tantissimo: la frescura, l’odore e il gioco delle onde gli davano tanta allegria. Una volta lavate, le botti si asciugavano al sole e gli uomini si concedevano un po’ di riposo mentre i ragazzi facevano il bagno. Arrivava la sera e bisognava portare i barili in cantina. Il ritorno sarebbe stato più faticoso: le botti umide erano più pesanti e la scala era tutta in salita!
L’uomo dal nome strano era vecchio ormai e, disteso sul letto, pensava a come riusciva a fare quel lavoraccio e dove trovava la forza, lui che non era neanche un grande uomo: piccolo e magro, andava e tornava. Era la spinta dell’entusiasmo, era la gioia di fare con gli altri era… era che era giovane e forte, nel fisico e nell’animo.
Al di là delle tende sottili le finestre si sono fatte d’improvviso luminose, sono i lampioni della strada. Già così tardi. Questo giorno è finito, ciò che ne resta si libra lontano sul mare e sta fuggendo, soltanto poche ore fa Ricardo Reis navigava su quelle acque, adesso l’orizzonte è qui dove arriva il suo braccio, pareti, mobili che riflettono la luce come uno specchio nero, e invece del pulsare profondo delle macchine del vapore, lui sente il sussurro, il mormorio della città, seicentomila persone che sospirano.