Quanto è veloce la luce? E il buio?

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Verde, azzurro, oro: i colori a cui è affidato il ciclo dei giorni luminosi d’estate.

Luce, ombra, buio: il ritmo della vita che si accende e si spegne, ora in maniera regolare, seguendo il susseguirsi del giorno e della notte, dell’estate e dell’autunno, dell’inverno e della primavera; ora assecondando i capricci dei venti, delle piogge, delle nuvole.

E della velocità della luce e del buio.

È quasi estate e LUCE illumina per tante ore un ritaglio di paesaggio dove un antico albero di ulivo esibisce una folta chioma di foglie verdi.

LUCE decide di avanzare più lenta per prendersi tempo, rubando spazio a BUIO. Il mare adora LUCE. Gli permette di brillare, rendendo più evidenti le sfumature di azzurro che si confondono con il celeste del cielo.

BUIO corre tra le stelle e inizia poi la discesa verso quel frammento di mondo dove una pianta di ulivo profuma di mare e ha ascoltato tante voci, ha regalato un riparo sicuro a uccelli e insetti per tutto il giorno. È stanco quell’albero e aspetta l’arrivo di BUIO perché dia a tutti un riposo da quello splendore.

Eccolo, arriva. Avanza pian piano, conquistando l’angolo di mondo abbracciato fortemente a LUCE.

Il bagliore indietreggia. Lentamente raggiunge le vie luminose del cielo e incontra la luna.

– Dammi, madre, la possibilità di arrivare al mio albero.

LUNA sorride magnanima. Assorbe LUCE e la proietta lì dove BUIO, onorando la magia lunare, disegna i contorni di uno spazio dove può vivere insieme a LUCE.

È quasi estate. Una mamma e il suo bambino si concedono una passeggiata vicino al mare, dove in silenzio dorme l’ulivo.

– Mamma, quanto è veloce la luce? E il buio? Quanto ci mette per arrivare?

– Corrono insieme, spesso per andare in direzioni opposte. Quando la luna è alta nel cielo, si incontrano e regalano sere magiche.

–  BUIO e LUCE si abbracciano, allora?

– Proprio così. Si abbracciano, anche se sono tanto diversi.

Lo sciabordio delle onde intona una musica lieve. È quasi estate.

Ricordati sempre di me

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Novara di Sicilia

Archeologi operosi nel sito più antico della nostra vita, trattiamo le cose che abbiamo accumulato negli anni come reperti di una storia millenaria.

Succede, allora, che cose che pensavamo perdute o di cui, con il passare dei giorni, degli anni, non avevamo più memoria, all’improvviso, inaspettatamente, mentre cerchiamo qualcos’altro, si rivelano.

Tra le chiavi di casa, ce ne sono tante ormai in disuso e non avendo più nessuna destinazione da ricordare, sono diventate mute, non hanno più nulla da raccontare.

Ce n’è una invece che sembra arrivare dalla preistoria della mia vita. È una chiave come tante, tonda come la faccia paffuta di un bambino e una coda scanalata come la sega per gli gnomi. È agganciata a un ciondolo in plastica azzurra, dove è inserita una targhetta con su scritto: PORTA SOGGIORNO SOTTO.

Apparteneva a una serie di chiavi appese all’interno di una nicchia in muratura che mio padre aveva fatto realizzare facendo scavare un muro di casa, realizzando una casetta con tanto di porticina in legno.

La casetta delle chiavi era arredata con ganci disposti in fila dove erano appesi ciondoli azzurri, viola, verdi, bianchi ognuno con una targhetta scritta in stampatello a caratteri maiuscoli: PORTA SOGGIORNO SOTTO – SPORTELLO CISTERNA – CANCELLO PICCOLO – CANCELLO GRANDE e così via.

Le chiavi all’occorrenza uscivano dalla loro abitazione, svolgevano la loro mansione e poi tornavano ordinatamente al loro posto. Chissà se nella loro intimità, nel buio della loro dimora, si raccontavano di quando erano state dimenticate su un muretto, o di quando una serratura si era bloccata, o quella volta che si erano perse nelle tasche dei pantaloni di qualcuno.

La chiave PORTA SOGGIORNO SOTTO (porta che ormai non esiste più), un giorno mi ha seguita a Catania e ha trovato un altro alloggio, seppellita da altre chiavi che aprono nuove porte. È lì che l’ho scovata dopo tanto tempo.

Apparteneva a una famiglia numerosa di chiavi, come io appartenevo a una famiglia numerosa e chiassosa.

Appartiene a una serie di reperti, (radio antica, quaderni, opuscoli, libri) raccolti sotto un’unica denominazione: RICORDATI SEMPRE DI ME, un mantra, una sottoscrizione che mio padre ha firmato prima di morire.

Metamorfosi

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Nevica, e sono solo a metà del mio percorso. Sapevo che non sarebbe stato facile salire su per la montagna. Fa freddo, la neve cade lenta come a ritmare il mio passo, a orchestrare il desiderio che pulsa forte in mezzo al petto.

Fa freddo, ma sento il sudore scivolare lungo la schiena e irrorarmi la fronte. Respiro profondamente. Non mi sono mai sentito così potente, mai ho avvertito così forte la sensazione di una pace intensa con me stesso.

Lungo la scarpata si susseguono vallate profonde, minacciose. Bisogna avere ali forti, sapere vibrare nell’aria come un’aquila dalla vista acuta ed esperta per non farsi risucchiare da questa voragine che sembra senza fine.

Il bosco si infittisce e la nebbia si insinua tra i fusti di alberi che si piegano in avanti. Sembrano volere dialogare con me. Di certo vegliano sul territorio.

Gli alberi, la neve, la nebbia e adesso la notte. Occhi curiosi vibrano tra i rami, fendendo l’aria lattiginosa che mi circonda e amplifica il rumore dei battiti del mio cuore che si è unito alle voci degli uccelli notturni. E poi questo silenzio che avvolge tutto e dove certe cose possono accadere. Solo dentro questo silenzio magico, oltre il tempo, oltre lo spazio, solo ora è possibile la mia metamorfosi.

Mi accascio ai piedi di un grande albero. Mi addormento. I fantasmi della notte mi sollevano, il fusto del grande albero si apre e diventa la mia dimora. Non più sangue mi scorre nelle vene, ma linfa; non desidero più respiro, aria, ma scambio di particelle con il mondo. Non sono più un uomo, ma crisalide di una vita in attesa di trasformazione.

I bambini

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A un bambino si può dire tutto, tutto; mi ha sempre colpito pensare a quanto i grandi, i padri e le madri, conoscano male i bambini, i loro stessi figli. Ai bambini non va nascosto nulla, con la scusa che sono piccoli e che è presto per loro sapere le cose. Che pensiero triste e sventurato! E i bambini stessi avvertono benissimo che i loro padri li considerano troppo piccoli e pensano che non capiscono niente, mentre, invece, capiscono tutto. I grandi non sanno che, persino nella questione più difficile, un bambino può dare un consiglio di straordinaria importanza. Cielo, quando vi guarda quel grazioso uccellino, fiducioso e felice, come si può non vergognarsi di ingannarlo! Per questo li chiamo uccellini, perché al mondo non c’è niente di meglio degli uccellini.

L’ IDIOTA, Fëdor Dostoevskij

Passerotti

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Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Raccolti attorno a una piccola croce di legno piantata in un angolo del giardino, ci scambiammo l’ultimo sorriso di tenero cordoglio: era morto un altro passerotto a cui volevamo salvare la vita.

I malcapitati uccellini appartenevano al bottino di una giornata trascorsa scorrazzando per la campagna che, per me e i miei fratelli, era una sorta di El Dorado.  Tutto quello che ci veniva incontro durante il nostro girovagare, ci rendeva sovrani del territorio, capitani coraggiosi. Pietre appuntite, tonde, scure, chiare; erbette profumate, vanitose, impreziosite da fiorellini viola, gialli, bianchi o rosa; pelli di serpente, lucertole da inseguire, farfalle colorate e passerotti caduti dal nido: tutti trofei di cui andare fieri.

– Guardate! Poverino! È caduto dal nido! È piccolissimo! Ha fame! Ha freddo!

Immediatamente si muoveva la macchina del soccorso passerotti: piccole tovagliette per asciugarlo, molliche di pane per ingozzarlo e occhi puntati su quell’esserino che dopo qualche ora di insistenti attenzioni, moriva, probabilmente per un infarto.

Bisognava allora preparare il funerale, secondo il rito seguito dai grandi quando moriva un parente o un amico.

Recuperata una scatola di cartone, vi sistemavamo con cura l’uccellino privo di vita. Comunicando solo con rispettosi movimenti della testa e rimanendo sempre in silenzio, chiudevamo la scatola con il coperchio. Ci avviavamo quindi in giardino, rigorosamente in processione. Una preghiera, due preghiere, un mazzolino di papaveri rossi o margherite di campo, un momento di raccoglimento e poi eravamo pronti per altri “salvataggi”.

Dopo cinque o sei croci, e altrettanti funerali, abbandonammo l’idea di salvare i passerotti e ci dedicammo ad altro.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Dal silenzio di un tempo che torna e poi svanisce, emergono immagini, si sovrappongono voci. Qualcuno mi viene a trovare, mi sussurra qualcosa: è una bimba magra, minuta, i capelli neri e gli occhi malinconici. Mi prende per mano e mi accompagna attraverso sentieri che avevo dimenticato. Ci imbarchiamo su un’onda e approdiamo su una riva popolata da bambini che mi aspettano.

Profumo di zagara. È primavera. Ci immergiamo in un giardino di alberi alti e tanto vicini tra loro. Sembra non esserci spazio per noi. I rami però si aprono e ci indicano un fazzoletto di terra bagnata. Ci accolgono dei passerotti vivaci che svolazzano tra i rami e tornano lesti sul prato. Entrano e escono da alcune cassettine di cartone coi coperchi poggiati su un angolo. Hanno tanto da fare: si schiudono le uova dentro le scatole, dentro quei piccoli ambienti confortevoli, ornati di foglioline, fiori, vermetti e qualche raggio di sole rubato al mattino.

– Guardate! Sono piccoliss…

Improvvisamente le voci diventano fioche e le immagini si fanno sempre più evanescenti. Come una stella che collassa nel suo buco nero, quel momento sprofonda nel pozzo dei ricordi smarriti.

Una bimba minuta si allontana, svanisce e io aspetto che, di tanto in tanto, mi venga ancora a trovare.  

Föhn e Scirocco

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Messina

Föhn, vento caldo e asciutto, si era fatto strada tra le vie, le case, i boschi e le valli della Sassonia. Soffiava a raffiche da giorni e il mese di marzo aveva aperto tutte le porte attraverso cui poter correre indisturbato. Molti abitanti della zona battuta dal vento, continuavano pazientemente a condurre la propria vita, certi che presto quel soffio caldo si sarebbe allontanato. Alcuni invece, si sentivano destabilizzati da quella forza prepotente che aveva invaso non solo la loro area geografica, ma anche la mente, i sensi e il respiro.

A Friedrich Nietzsche Föhn aveva intensificato il malessere fisico e mentale.

– Devo partire, devo fuggire da questo vento maledetto!

Su un treno veloce, attraversò la Germania e si diresse in Italia, di cui tanto bene parlava Goethe, spingendosi fino a una terra alla “fine del mondo”, in Sicilia.

A Genova Nietzsche si imbarcò, come unico passeggero, su un veliero alla volta di Messina. Un vento forte (Föhn?), agitava le acque del Tirreno e le onde sbattevano contro l’imbarcazione con violenza.

Era il 31 marzo del 1882 quando il veliero approdò al porto siciliano, con a bordo quell’unico passeggero così provato dalla difficile navigazione che sbarcò in barella.

La città dello stretto lo accolse e se ne prese cura, tanto che al filosofo sembrava che la città fosse stata preparata e istruita proprio per rendergli il soggiorno gradevole. Anche il sole, splendente già dalle prime luci dell’alba, partecipava alla migliore riuscita dell’accoglienza, illuminando le facciate dei palazzetti in stile liberty di via Cesare Battisti, mentre arrivavano confortanti i rintocchi delle campane del duomo. Il mare poi era fantastico.

Il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto»

Nietzsche, La Gaia Scienza, 1882, Idilli di Messina

I balconi delle stanze dell’appartamento dove soggiornava il filosofo, si trovavano al primo piano di una palazzina sita appunto in via Cesare Battisti, dove un’antica pasticceria diffondeva dolci e aromatici profumi e dove trattorie eleganti imbandivano tavoli colorati baciati da un caldo sole primaverile.

– Credo che rimarrò qui per un po’. C’è aria buona, gente amabile, odori gradevoli.

Le premesse per un soggiorno lungo e tranquillo, ideale per scrivere, c’erano tutte e, nella città dello stretto, Nietzsche scrisse gli Idilli di Messina come prefazione a La Gaia Scienza.

Da quando fui stanco di cercare,

imparai a trovare.

Da quando un vento mi fu avverso,

navigo con tutti i venti.

Ibid.

Le albe e i tramonti; il mare e la brava gente. Cosa avrebbe potuto volere di più.

Poi, dopo appena venti giorni dal suo idilliaco soggiorno messinese, iniziò a diffondersi nell’aria un sibilo, un rumore, un soffio caldo come di vento molesto.  Chi era ora che minacciava la sua tranquillità? Possibile che Föhn era andato a cercarlo fino “alla fine del mondo”? Come si permetteva di turbare il suo lavoro, la sua pace così amabilmente conquistata a Messina?

Soffiava da sud-est un forte vento. Non era Föhn, ma un suo lontano parente che sembrava avere la stessa tecnica, lo stesso stile: caldo, impetuoso. Fastidioso.

Era arrivato Scirocco e bisognava fuggire.

Sorridi

Vi ho amato tanto
e vi amo ancora.
Siete state la mia porta di condivisione,
il mio spiraglio di luce,
la gioia di specchiarmi in un mondo
a cui da sempre credo.
Dove siete?
Cosa mi farà sempre conquistare la vostra fiducia?
Di certo il mio sorriso, la mia pazienza.
Allora cuore mio,
sii forte,
dona sorriso e gioia
e gioia ti sarà restituita.

Viaggio di una falange

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Succede che a un certo punto della vita bisogna cercare un altro modo di stare al mondo. Basta solo un momento, uno schiocco di dita e tutto cambia.

Per me tutto inizia con un volo, una sorta di viaggio improvviso. No, non in aereo. Neanche sulle ali di una farfalla. Sono schizzata via dalla mia sede naturale come un proiettile, atterrando in un’aiuola profumata di erba fresca, rallegrata da farfalline colorate e avvolta da un caldo tepore primaverile. Non so quanto tempo ho trascorso in quella atmosfera bucolica; non sono pratica di lancette, ore e minuti.

All’improvviso sento delle voci concitate. Certo! Preoccupate. Sicuro!

Si avvicina qualcuno che cerca proprio me. E mi trova!

Passo da un tenero praticello a un angusto, freddo, buio contenitore: una borsa frigorifero che una signora ansiosa mette a tracolla, mentre si agita e si arrabbia con qualcuno, forse un medico incompetente.

Le marce di un’auto, a me familiare, si susseguono una dopo l’altra. Mi portano da qualche parte. Sento il rumore del mare.

Voglio uscire da qua, voglio tuffarmi in acqua, libera finalmente!

Chiusa dentro la gabbia, ascolto la signora. Siamo di certo al pronto soccorso di un ospedale.

– Ho recuperato la falange – ansima la donna – è qui, dentro la borsa frigorifero.

– Non serve – presumo sia la voce di un medico – qui bisogna chiudere tutto.

Appartenevo alla mano di un giovane uomo. La catena di un motorino ha cambiato le sorti, mie e del malcapitato.

Rimango in attesa di sapere cosa ne sarà di me. So di un naso che è tornato alla sua sede originale, rendendo felice l’uomo che lo cercava disperatamente, ma ho capito che il mio destino sarà diverso.

Chissà, potrei rifarmi una vita trasformandomi, non so, in un sassolino su cui i bambini dipingono onde e barchette; oppure potrei essere un sostegno per una piantina appena nata; o anche fissarmi su una roccia, così fra mille anni qualcuno potrà studiare il mio fossile.

– Bene, tutto fatto – dice la voce maschile.

Presumo che è arrivato il momento di capire che fine farò. Sento di nuovo il mare. Una mano mi prende e mi lancia dal molo. Fluttuo leggera, mentre raggiungo il fondale. I pesci mi guardano incuriositi.

– Tranquilli – dico- sono solo la falange di un dito spezzato!

Mi adagio su uno scoglio. Finalmente! Un poco di pace! Mi prendo un attimo per pensare, per ragionare e valutare. Credo di sapere cosa sarò d’ora in poi: una conchiglia!

Una scatoletta di cartone

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Cosa proverei oggi se qualcuno mi regalasse un grillo verde smeraldo?

Era arrivato a scuola con una scatoletta di cartone bianco. Giulio era il mio compagno di classe, eravamo in quinta elementare e quell’anno erano capitate tante cose.

La nostra maestra aveva dovuto lasciarci per un certo periodo e al suo posto era stato nominato un maestro appassionato di storia e di teatro. A seconda dell’argomento, del periodo storico che bisognava affrontare, preparava dei copioni e ci assegnava delle parti da imparare e recitare in classe.

– Tirem innanzi…- declamava un mio compagno, avanzando fiero mentre altri lo reggevano per le braccia.

– Bisogna formare la Giovine Italia…- tuonava un altro con aria seria e decisa.

Chi si scorda più i  moti di liberazione nazionale della metà del 1800? Chi si dimentica di Giuseppe Mazzini o Daniele Manin?

E la scatoletta bianca?

Impegnati nei nostri ruoli, qualcuno riusciva a farsi spazio, durante l’ora di ricreazione, per dare sfogo alle proprie emozioni, ai propri sentimenti. Giulio mi porse la scatoletta come un fidanzato porge un anello prezioso. Gli sorrisi e sollevai il coperchio di cartone.

Due occhi teneri e pietosi puntarono i miei. Erano quelli di un bellissimo grillo verde, di un verde smeraldo che di certo l’animaletto aveva rubato a qualche foglia di lattuga. Con un balzo colmo di desiderio di libertà, saltò fuori e dopo due o tre zompi si diresse verso la finestra e sparì.

Il gesto simbolico di Giulio aveva preso le sembianze della libertà di cui recitavamo le gesta: la cattura e nel giro di qualche attimo,  la liberazione. 

E se qualcuno oggi, a distanza di anni mi regalasse un grillo verde? Di certo lo aiuterei a fuggire e mi lascerei andare all’idea di seguirlo per raggiungere luoghi dove le caprette brucano pale di ficodindia; le farfalle cantano in coro prima che viene la sera; le lucertole corrono leste a catturare un raggio di sole; le api danzano attorno a fiori ondeggianti.

E grilli verdi fissano gli occhi di chi ha conservato nel cuore l’immagine di un bimbo vestito di candido stupore.