Quel giorno, sì, quel giorno era uguale a tanti altri. Il sole sorgeva e poi tramontava; la gente si incontrava e si salutava. All’improvviso tutto sembrò fermarsi, anche il vento smise di soffiare. Un giovane uomo era arrivato su un’isola magica, attraversata da mille colori, da forti profumi, da attraenti malie. Rimaneva spesso incantato guardando un tramonto, osservando il mare in tempesta, ascoltando le storie dei pescatori. Faceva lunghe passeggiate, attraversava i boschi, i campi, gli scogli, e camminava scalzo sulla battigia. Una volta era arrivato in una vallata che scendeva fino al mare come una lunga gonna con grandi ed eleganti pieghe: verdi, rosse, gialle, dorate come i pampini di viti di cui era vestita. Era la gonna di una fata bellissima che, con un gesto elegante delle mani, chiamava il vento perché soffiasse lungo le pieghe e ne pulisse ogni angolo. Quelle mani sottili e leggere, dirigevano l’orchestra di refoli carichi di pollini che, come note di una sinfonia armonica e dolce, si posavano sugli acini dorati diffondendo una musica leggera e ammaliante, mischiando colori, aromi, profumi. Il giovane uomo seguì il soffio del vento, attraversò la valle e scese giù, fino alla riva del mare. Non si accorse. No, non si accorse. O forse la fata lo avvolse tra le pieghe della sua gonna. Chissà come fu. Ma certo un’onda lo prese e lo portò lì dove la fata affondava i suoi piedi. Il mare era calmo e il vento soffiava leggero. Chissà come fu, ma da quell’anno la valle produsse uva abbondante e mosto odoroso, fruttato, infatato, con l’incantesimo della fata dentro, arricchito di sole e di mare e della storia di un ragazzo che si era perso nella magia di un’isola bella.
Qualcuno, aldilà di quel mare, dormiva e nel sonno incontrava sé stessa mentre alzava lo sguardo alla luna e recitava orazioni. Si spargeva il corpo di oli stregati e poi volava lontano tra valli fatate. La notte, il silenzio, la luna: compagni di un dolore che si faceva dolce via via che il sogno dipanava le sue fila, creava immagini, raccontava storie. Tra i sentieri di quella malia che l’aveva incantata e trasportata in un mondo abitato da fate e fattucchiere, aveva saputo, aveva imparato a trasformare il suo pianto in linfa vitale per potere incontrare chi non avrebbe più visto camminare per strada. Certe notti entrava in un sogno e si vedeva trasportata sull’isola dove il suo amato viveva insieme a una fata. Sedevano sul bordo di un’alta falesia battuta dalle onde, abitata da falchi e caprette selvatiche. Aspettavano l’alba pescando parole che nuotavano libere sulla superficie del mare, per descrivere un mondo odoroso e vivo nei sogni in chi crede alle fate.
Arrivava la sera, leggera, silenziosa, magica, accompagnata da un soffio di vento. Tutto si era compiuto: le voci, i colori, i suoni, i racconti della gente, la luce, le ombre. Un’altra pagina della storia dell’ isola era stata scritta. Era tempo di voltare pagina e dare spazio a nuove parole, a nuova meraviglia.
-Dove correte?- chiedeva la sera a dodici letterine che svolazzavano veloci sulla battigia.
-Avete paura? Di cosa? Del mare?-
-Il mare siamo noi…siamo noi…- e intanto il vento accompagnava la leggerezza di quel volo simile a quello dei petali di un buganville che maestoso ornava case bianche e luminosi terrazzi.
La voce incalzava, voleva sapere.
-Dove andate? Che gioco è il vostro?
-Ci aspetta…Ci aspetta la casa dagli occhi di cielo!-
Quando arrivava la sera, la casa accoglieva le dodici lettere e le combinava in varia maniera perché formassero parole che descrivessero la vita, la gioia, il dolore. Così cominciava.
MARE – MITO-
ENTRARE – ETERE –
DENARO – DARE –
IDEA – IRA
TERRA – TRADIRE –
ERA – ERMETE-
REMO – RAMO –
……
Continuava fino ad ottenere dodici gruppi di parole. Dodici, come le fatiche di Ercole, i mesi dell’anno, gli apostoli e le dodici porte della Gerusalemme Celeste. Un’ onda sceglieva per lei una di quelle parole che per tutta la notte danzava e cantava e, infine, raccontava.
ERA: l’ ho vista arrivare e riempire un sacco di petali spenti. Lo consegnò alla Memoria e iniziò a disegnare una curva di arrivo. E poi si portò via il sospiro.
E ogni parola aveva il suo tempo narrante, per tutta la notte.
Arrivava poi l’alba: il vento fermava il suo soffio, stupito da tanta bellezza e la casa dagli occhi di cielo apriva la porta, consegnava le lettere al mare e attendeva di nuovo la sera.
ALONSO Io non vedo l’ora di conoscere tutta la storia della vostra vita, che deve essere meravigliosa a udirsi
PROSPERO Ed io ve la racconterò tutta. E vi prometto un mare tranquillo, venti favorevoli, e una traversata così rapida che sarete in grado di raggiungere, nonostante la lontananza, la vostra flotta regale in viaggio. ( A parte a Ariel) O mio Ariel, pulcino, il procurar che tutto questo accada è compito tuo. E poi sarai libero di scioglierti negli elementi…
William Shakespeare, LA TEMPESTA, BUR, Milano, 2008, pag.285
Uscito da casa, Mimmo era rimasto un attimo fermo davanti a piazza Bonadies, la sua piazza: abitata ancora dal silenzio della notte, gli sembrava grandissima. Avvertì una paura diversa da quella che provava quando doveva affrontare la furia di suo padre. Sentì il brivido dell’incertezza di una storia che si trovava oltre quella piazza e che lo attirava con adulazioni misteriose: oltre la piazza fluttuavano pensieri, figure, parole che attendevano di far parte della sua vita. Non poteva rimanere lì, né voleva tornare indietro. Decise quindi di tuffarsi tra quei pensieri, quelle figure e quelle parole e cominciò la sua corsa, giù per via Cifali, fino a piazza Santa Maria di Gesù.
Da ogni vicolo buio sembravano uscire spiriti minacciosi, voci tenebrose. -Dove vai? Ti prenderò!- e la paura irrobustiva i muscoli delle sue gambe che veloci arrivavano fino a via Lago di Nicito. Sentiva il cuore battergli forte e all’improvviso lo sentì sussultare: sembrava che, da dietro un platano, uscisse un veliero accompagnato dal crepitio dei suoi legni, bruciati e arsi da una lava incandescente che, come un drago affamato, divorava le sue parti. Tanu, il cantastorie, raccontava di un grande lago che si era formato al centro della città di Catania, prima, molto prima della nascita di Gesù. La lava dell’Etna aveva bloccato il corso del fiume Amenano che tranquillo scorreva in quella parte di città che da piazza Santa Maria di Gesù arrivava fin quasi al Castello Ursino. Per secoli il lago ampio e grazioso, Nicito era chiamato, fu circondato da splendide ville e l’8 settembre del 1652, in onore alla Madonna, raccontava sempre Tanu, era stata organizzata una imponente regata navale. Ma l’Etna decise che così come aveva contribuito a far formare il lago, così doveva arrivare il tempo della sua scomparsa. Nel 1669, con un’immensa colata lavica, coprì per sempre lo splendido lago catanese.
Man mano, l’immaginazione lasciava il posto alla realtà: un carretto, trainato da un cavallo stanco e assonnato, avanzava per quella via deserta. Un uomo, fischiettando, teneva mollemente le redini del suo ronzino che sembrava sapere benissimo la strada da percorrere.
-Che fai? Dove corri?- questa volta la voce era vera, non era un fantasma a parlare.
-Carusu? Chi fai? Ancora è notte! Dove devi andare?-
-Da qualsiasi parte, ma che sia dalla parte del mare.-
-Sei strano, ragazzo! Salta su. Io vado ad Aci Trezza. Tu quando vuoi scendere, scendi.-
Mimmo salì sul carretto che attraversava la notte ormai quasi alla fine. L’uomo lo osservò per un attimo e poi si voltò a seguire la strada.
-Sei proprio strano. Com’era strana la guerra che ci ha lasciati consunti e disperati. Ci hanno lanciato le bombe sulla testa, ci hanno distrutto le case. Una volta…sai cosa è successo? Le bombe arrivarono a mare e fecero la fortuna dei pescatori di Ognina: le onde consegnarono chili e chili di pesce.-
Proruppe in una risata clamorosa carica di ironia, a sottolineare che per una volta quella stupida guerra era stata beffata.
-Ma dimmi, quanti anni hai?-
– Sedici, ho sedici anni.-
-Sei ancora un ragazzo, ma di questi tempi si cresce in fretta.-
Smise di parlare e cominciò a canticchiare una filastrocca senza inizio e senza fine, di parole buttate lì, alla rinfusa, tra le pieghe della luce che pian piano fendeva le tenebre.
-Rema nel mare/rete di tela/lava di fuoco/cori di rosa…- Tutto a un tratto cadde in una specie di estasi mnemonica, il suo viso fu attraversato da un velo di tenerezza, come se pensasse a una donna, a un amore perduto, lontano nel tempo. Poi ebbe come una scossa, si riprese, abbandonò il suo ricordo e ricominciò.
-Cima de calli/lima pè lari[i]/- rise divertito di quella pazza commistione di parole e continuò- lima e lani/nica e naca…-
Su questo impasto infinito di bisillabe, l’uomo sembrava divertirsi parecchio e anche il ragazzo rise di quella confusione.
-Mi esercito a fare girare bene le rotelle del mio cervello e mi passo il tempo allegramente.-
Non parlava di nulla, ma quel nulla gli faceva ottima compagnia.
Mimmo non seguì più la folata di parole: si addormentò e si trovò altrove. Si vide al cimitero, nei pressi della tomba di una parente. La mamma sistemava i fiori e lui era andato a prendere dell’acqua alla fontanella. Gli si avvicinò una donna che gli indicò qualcosa che sul vialetto luccicava. Si abbassò e si accorse che era un’antica moneta. Cercò di prenderla e affondò le dita di una mano nel suolo che, prima compatto e impenetrabile, divenne soffice e accogliente e, non una, ma tante monete si nascondevano tra quella terra rossastra. La sua voce e la sua figura erano come assorbite da un incantesimo, erano chiusi in un cono magico senza ombre e senza tempo. Iniziò a raccogliere tante di quelle monete dai bordi discontinui e che raffiguravano una testa di donna ornata da tantissimi pesci, dei delfini che sembravano guizzare fuori da quella cornice bronzea. Si vide uscire fuori dal cono e raccontò alla madre quello che aveva visto. All’improvviso le sue orecchie furono investite da un fragore, come di mille vetri andati in frantumi.
-Non dovevi dire a nessuno quello che hai visto. Non avrai più quelle monete.-
La signora misteriosa scomparve e lui non trovò più il cono magico.
Si svegliò che ancora il carrettiere fischiettava e si divertiva con quel profluvio di parole che seminava nell’aria man mano che avanzava verso la sua meta.
-Che fai? Dormi? Siamo arrivati a Ognina.-
Il ragazzo saltò giù dal carretto e si rifugiò in una delle barche tirate a secco sotto gli archi del piccolo porticciolo. Si sentiva appena lo sciabordio delle onde, piccole, gioiose che insieme a lui godevano dello spettacolo che la Montagna offriva alla città. Cominciava ad albeggiare. Qualche nuvola rifletteva il bagliore del fuoco del vulcano, mentre la luce del sole si impadroniva lentamente del cielo. Il cratere, magico cono della natura, si colorava del bianco del fumo e dei vapori che continuavano a rigenerarsi.
Sentì dei passi veloci. Alzò appena la testa oltre la linea del fasciame del gozzo dove aveva trovato riparo. Vide una giovane donna precipitarsi giù per il molo. Sembrava dirigersi proprio verso di lui.
-Ah! Mari! Amuri di la me vita! Turmentu di lu me cori! Comu ‘aia a fari?-
Gridava disperata portandosi le mani al petto in forma di preghiera.
Correva verso il mare, quando ancora tutti dormivano e quel mare era una landa scura, appena illuminata dai primi raggi del sole. Abbandonò i sandali sugli ultimi scalini che portavano al porticciolo. Alzò le maniche della camicia, si avvolse lo scialle attorno al collo e sistemò i capelli portandoli sotto il fazzoletto che le copriva il capo. Arrotolò i lembi della gonna fino alla cintura e a piedi scalzi prese il gozzo, il suo gozzo, e lo spinse in acqua. Con un salto abitò la barca, posizionò la piccola lampara a poppa, cominciò a remare e si allontanò dalla riva.
-E tu che ci fai qui?-
Mimmo si sentì come colpito da uno di quei ciottoli che le onde fanno rotolare sulla battigia .
-Che vuoi? Dove devi andare? Per me puoi tornare a nuoto. Non ti riporto indietro.-
Il ragazzo non disse nulla e lei non si preoccupò di avere una risposta. Prese tra le mani dell’acqua di mare, ne aspirò profondamente l’odore come a volere diventare acqua salmastra lei stessa e poi, decisa, lanciò in aria quell’insieme di liquida magia e ordinò:
-Fammi strada!-
Strinse forte i remi tra le mani e navigò decisa verso il mare aperto.
Presentare il mio ultimo libro A FINE GIORNATA nel patio storico della Biblioteca Comunale di Malfa, era un appuntamento a cui non potevo mancare. Un luogo familiare, amico, dove ogni mia pubblicazione è stata accolta con affetto ed entusiasmo. C’è un non so che di magico in quel terrazzo, specie in questo periodo dell’anno. Un albero centenario libera a terra piccoli frutti, piccolissimi, minuscoli mandarini, per diffondere nell’aria il profumo di un caldo abbraccio. Gli uccellini che non possono costruire il nido tra quei rami profumati perché timorosi dei topi predatori, non cercano altri alberi dove nidificare ma si adattano sopra una lampada posta in alto sulla parete dove si apre la porta che dal patio antico si va in biblioteca. E tutto parla di un dono, quello di don Giovannino Marchetti, parroco di Malfa dal 1905 al 1955, che offrì la sua opera e i suoi averi al suo paese, compresa la palazzina con il patio dove regna sovrano il mandarino centenario. Tra ricordi, profumi e cinguettii di uccelli si aggira Antonio Brundu, appassionato delle storie del suo paese, attento bibliotecario e custode di ciò che nella storia di Salina ha generato bellezza, commozione, cultura, impegno, sapienza. Quando mi mostrò il modello in legno del disegno preparatorio all’opera che Virgilio Lo Schiavo avrebbe realizzato nella volta absidale della chiesa di san Lorenzo, risalente all’anno 1931, rimasi stupita. Crebbe in me l’entusiasmo di continuare a scrivere il romanzo dei dipinti che la chiesa madre di Malfa custodisce e che parlano ancora una volta di un dono.
Antonio Brundu, autore della foto che ho scelto come copertina, nonché della presentazione in quarta di copertina, ha curato ogni particolare perché nel patio venisse creata l’atmosfera giusta per parlare di un artista che “ha scelto la nuova chiesa della sua Malfa, a depositaria dei suoi primi lavori in Arte sacra”[1]. Le rose, le letture e l’attenzione di Melina Ciccolo, anche lei grande estimatrice della storia di Malfa, hanno dato un tocco di eleganza alla serata dello scorso 20 giugno. Un pubblico attento ha ascoltato le mie storie, spesso individuando nei personaggi i volti di gente di cui aveva sentito parlare o di cui aveva condiviso le esperienze. Credo che ho ancora tanto da raccontare di quest’isola che ha scolpito nel mio animo la gioia di emozionarmi e sapermi stupire anche per le piccole cose che la vita mi offre.
“A fine giornata, abbracciai le storie che viaggiavano lungo le note del campanile disegnato sull’azzurro del cielo e il verde della montagna dei Porri, e mi rifugiai nel silenzio che parla e raccoglie l’energie di vite che con la morte si erano compiute , lasciandosi dietro una scia luminosa…
…Do, re… il mondo esiste cantandolo e per cantare bisogna vivere, amare, non dimenticare”[2]
[1] Don Giovannino Marchetti , Bollettino parrocchiale di Malfa, 12 dicembre 1934.
[2] Paolina Campo, A fine giornata, Bonanno editore, Acireale, 2015, pag. 96-97