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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Una stella da ricordare

27 venerdì Gen 2023

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Carte du ciel, leggi razziali, Università di Catania

Nel 1887, il direttore dell’osservatorio astronomico di Parigi, Amédée Mouchez, realizzò nuove tecnologie di fotografia per la mappatura dei corpi celesti. Il suo progetto prevedeva una lista di osservatori nel mondo e ad ognuno era affidato il compito di lavorare sulla sezione di cielo osservabile dal proprio laboratorio. Così, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, mentre gli Stati erano impegnati in azioni belliche, studiosi di nazionalità diverse disegnavano la Carte du Ciel, una mappatura dei corpi celesti, frutto del lavoro di osservazione e di ricerca di venti laboratori in venti Stati diversi.

            Nel 1890 Annibale Riccò, noto astronomo e astrofisico italiano, fu chiamato a coprire la cattedra di Astrofisica presso l’Università di Catania. Riccò diresse anche l’Osservatorio etneo e avviò il progetto Carte du Ciel per la zona affidata alla città siciliana, scelta per la sua posizione geografica e per il prestigio dei suoi docenti. Ben presto l’Osservatorio catanese, insieme a quello danese di Helsingfors, dimostrò le sue potenzialità, tanto che dopo mezzo secolo di lavoro, fu il primo a pubblicare la sua parte di Catalogo inserendo coordinate rettilinee e sferiche.

            Tra i collaboratori più importanti di Annibale Riccò, c’era Azeglio Bemporad. Nato a Siena, fu chiamato all’età di ventinove anni a ricoprire la cattedra di matematica all’Università di Catania. Studioso attento e inflessibile, qualche anno più tardi, insegnò Astrofisica e Geodesia sempre all’Università di Catania, dedicandosi con passione alla compilazione del Catalogo Astrofotografico all’interno del Regio Osservatorio etneo, di cui divenne presto direttore. Il suo lavoro fu apprezzato in Germania e a Parigi, grazie alle centinaia di pubblicazioni  scientifiche da lui prodotte.

            Ma Bemporad era ebreo e, durante la Seconda guerra mondiale, precisamente nel 1938, venne esonerato dall’incarico, come previsto dalle leggi razziali. Nonostante si fosse affiliato al Partito Fascista, ne rimase schiacciato e mortificato.  L’illustre matematico e astronomo, docente di Astrofisica e Geodesia per l’Università di Catania e Direttore del Regio Osservatorio etneo vedrà la sua casa distrutta dai bombardamenti e la sua carriera bruciata dalla terribile applicazione di leggi atroci. Morirà a Catania l’11 Febbraio del 1945 e riposa nel cimitero della città che poco o nulla sa di un grande studioso che diede prestigio alla sua università.

Il telaio di Agatina

26 giovedì Gen 2023

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, San Berillo, speculazione edilizia, tessitori

30 Aprile 1795. In via del Pozzo, il vescovo Corrado Maria Donati Moncada dichiarava fondata la chiesa di san Berillo. Un groviglio di strade, traverse, case e casette si erano moltiplicate, espandendosi fino a formare un vero e proprio quartiere a ridosso del centro storico di Catania. Era quindi necessaria una parrocchia che accogliesse tutti i fedeli della nuova comunità. La chiesa, umile costruzione posta nelle vicinanze di un pozzo, era stata intitolata a San Berillo, primo vescovo della città etnea. Anche il quartiere prese il nome dell’antico patriarca e fu caratterizzato dalla presenza di tessitori, uomini e donne, che lavoravano a domicilio su vecchi telai, producendo manufatti di alta qualità.

Via dei Tessitori era collegata alla via dei Setaioli che poi incrociavano via Pastore, via Rocca del Vento, via delle Belle.

– Sei una poco di buono! Chi credi di essere?

– Maledetto! Vai via! Non ho tempo da perdere con uno squattrinato come te!

In via delle Belle si praticava il mestiere più antico del mondo: lì approdavano uomini giovani e meno giovani, ricchi e benestanti, poveri e malandati. Tutti in cerca di una dose d’amore. A pagamento.

            In via dei Tessitori viveva Agatina, una donna piccola con gli occhi profondi come il mare. Lavorava sul suo telaio antico che era stato di sua madre e prima ancora di sua nonna, preferendo i filati che raccontavano il blu, l’azzurro, il celeste del mare e del cielo.

            – Questo telaio è la mia vita, ne avrò cura per sempre! Avissi annurbari di tutti e du occhi.

 Una promessa per la vita.

            Si svegliava presto e prima di iniziare il suo lavoro, passava dalla chiesetta per le lodi mattutine, andava a prendere l’acqua nel pozzo, scambiava due parole con le vicine e tornava a casa. Rimaneva ore seduta al suo telaio, con i capelli raccolti dentro un fazzoletto di cotone e un grembiule che le copriva bene il petto e le gambe dove si raccoglievano pelucchi e fili rotti e poi, via: una mano avanti e una indietro, instancabilmente, nonostante certi giorni la luce nella stanza arrivava appena e all’imbrunire il bagliore di una candela non bastava a illuminare il telaio.

–Avissi annurbari di tutti e du occhi

            Ma i suoi occhi si ammalarono e Agatina divenne orba di tutti e due gli occhi. Disperata giurava di non meritare quel castigo, che lei avrebbe voluto ancora lavorare e mostrare cosa sapeva fare. Si fece portare un grande pennello e delle latte di colore blu, azzurro, celeste, indaco e iniziò a dare colpi di colore alle pareti, ai mobili, al telaio. Giorno dopo giorno, colore su colore fino a quando qualcuno la portò in via degli Ammalati dove era sorto un grande edificio per il ricovero di gente che come lei aveva perso il senno.

            Trascorsero gli anni, il quartiere, nonostante la laboriosità dei suoi abitanti, andò incontro a notevoli difficoltà: i grandi imprenditori non avevano più tempo da perdere dietro i buoni manufatti e si dedicarono ai guadagni più veloci che venivano dall’edilizia.

Agatina morì prima che arrivassero le ruspe che, come bestie inferocite, sventrarono il quartiere e distrussero il suo telaio.

Per saperne di più: Incontri, la Sicilia e l’altrove – Anno VI N.22 – pag.41

Harry

02 mercoledì Nov 2022

Posted by paolina campo in Eolie, storia

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'Nto scurari, eruzione, fantasia, inglesi, storia, vecchio post, vulcano

Tutto può accadere nei sogni, anche di vedere un albero in mezzo al mare che ha radici negli abissi e rami persi tra le nuvole. Con foglie larghe come quelle di un banano, ma non è un banano. E foglie piccole come quelle di un ulivo, ma non è un ulivo.

Un albero. In mezzo al mare.

– Era meglio che rimanevo al mio paese e marcire in carcere invece di seguire quel pazzo di Mr. Stevenson!

Harry parlava, si arrabbiava e remava. Sbuffava e se la prendeva con i pesci che nuotavano liberi e seguivano la sua barca.

– Cosa avete da guardare? Cosa ne sapete voi della fame? E’ per colpa sua che sono qua ora!- e intanto gli rimbombavano nella mente e nel cuore i boati di Vulcano e il frastuono della sua vita.

Conosceva bene la solitudine, in tutte le sue forme, anche quella che si sceglie per difendersi, per continuare a sentire che respiri ancora. I suoi genitori l’avevano abbandonato per strada e questa era diventata la sua casa. Aveva conosciuto ladri, ubriaconi, approfittatori. Imparò l’arte di arrangiarsi. Imparò che doveva bastare a se stesso, che guardarsi intorno era l’unico modo per sopravvivere sia quando i crampi allo stomaco lo spingevano a rubare o elemosinare qualcosa, sia quando il sonno arrivava inesorabile a chiudergli gli occhi,  a spingerlo a piegarsi in un angolo di marciapiede per trovare un fugace rifugio.

Un giorno la polizia lo prese, dopo una corsa tra le vie più impervie di quella città dove neanche la nebbia, quella volta, lo aveva protetto e nascosto.

Finì in carcere e pensò che almeno per un po’ avrebbe avuto un tetto sulla testa. I giorni cominciarono a susseguirsi stanchi, lenti, scanditi dalle voci di malfattori e assassini che trascorrevano il tempo tra imprecazioni e racconti che impregnavano l’aria di sangue e vendetta. Harry ne aveva sentite di storie strane di fattucchiere, streghe, scope volanti e maghi e folletti che apparivano e sparivano tra il buio e la nebbia dei vicoli della sua città. Di notte la città di Glasgow era popolata da ubriaconi, donne grasse dagli occhi terribili e poveracci che si rannicchiavano sotto le panchine per ripararsi dal gelo. Di giorno, su quelle stesse strade sfilavano superbi ricconi e bellissime dame. Harry li guardava, li osservava e non capiva se per quella gente provava invidia, rabbia o ammirazione. Proprio uno di loro lo aveva reclutato, insieme ad altri galeotti, per formare l’equipaggio di una nave a vapore che avrebbe solcato l’oceano e superato lo stretto che separava Europa e Africa, per raggiungere il Mediterraneo. Qualcuno gli aveva detto che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso, ma sarebbero arrivati in un posto dove il mare abbracciava isole che profumavano di vino ambrato, dolce e inebriante; dove le donne lavorano nei campi e conoscevano i pesci, il vento e il mare, e alcune di loro la notte si spalmavano di oli e volavano verso terre lontane per tornare all’alba nei loro letti, a scaldare i loro uomini. Harry non sapeva nulla delle mire egemoniche inglesi descritte su articoli dei  giornali, ma quel viaggio soddisfaceva la sua curiosità di gran sognatore.

 Mr James Stevenson, ricco imprenditore inglese, aveva fiutato un buon affare proprio in mezzo al Mediterraneo dove spagnoli, francesi e inglesi si contendevano terre, sbocchi sul mare e traffici proficui come quello dello zolfo e dell’allume.  Il ricco imprenditore scozzese aveva comprato l’isola di Vulcano, nell’arcipelago delle isole Eolie, da un generale dell’esercito borbonico, dopo la caduta del Regno delle due Sicilie. Partì quindi con tutta la sua famiglia, per ingozzarsi di potere e di denaro. Era il 1885 e Harry si imbarcò su una nave a vapore per lavorare come fuochista, insieme ad altri galeotti che insieme a lui furono chiusi in grandi cabine dove il rumore dei motori era assordante e il calore toglieva loro il respiro. Si lavorava a gruppi e una volta, stremato dalla fatica, crollò per terra prima di raggiungere un giaciglio dove potersi distendere.

Si addormentò poi, seduto in un angolo e sognò uno strano albero: era grande, grandissimo, e sorgeva tra le onde del mare. Aveva radici che si allungavano nelle profondità degli abissi e i rami si allungavano fino a perdersi tra le nuvole. Foglie larghe, foglie strette, a forma di cuore o tonde e smerlate componevano una chioma irregolare e strana. Ogni tanto una delle foglie cadeva in acqua e sembrava portasse impresso un messaggio. Allora arrivava un’onda, raccoglieva la foglia e la portava con sé. Dove la chioma si diradava appena, piccoli gnomi scrivevano e sembrava avessero tanto da fare: sulle foglie larghe scrivevano storie; su quelle medie messaggi, aforismi; su quelle piccole, le parole che mai devono essere dimenticate. Harry si vide trasportato da una nuvola fino a raggiungere uno degli infaticabili scrivani che appena lo vide, gli sorrise e gli spiegò che stava scrivendo proprio la sua storia. Ma che storia era la sua? La storia di un povero disgraziato che non sapeva neanche dove era finito.

Fu svegliato da un vocione che gli intimava di tornare al lavoro. Harry aveva sempre creduto ai sogni e sicuramente tra le onde del mare delle donne volanti, doveva esistere un albero che nasceva dal mare e non dalla terra.

L’isola di Vulcano apparve come un’immensa miniera d’oro agli occhi di Stevenson, e una meravigliosa, magica apparizione agli occhi dei fuochisti sporchi di carbone: il blu del mare, il verde di piante selvatiche che a chiazze prendeva il posto del giallo dello zolfo che spargeva nell’aria un pesante odore di uova andate a male. E poi il bianco dei vapori che qua e là si aprivano un varco tra la roccia e che sembrava manifestare l’esistenza di giganti fuochisti dentro la montagna che lavoravano incessantemente per dare vita a quel posto.

Sbarcati sull’isola, si pensò subito ad avviare la fabbrica per l’estrazione dello zolfo e Harry e i suoi compagni furono alloggiati in grandi cameroni attigui alla fabbrica. Stevenson si fece costruire un elegante dimora e visse tra gli agi, fino a che i diavoli del vulcano non uscirono dai crateri e lanciarono grosse  pietre che distrussero la fabbrica. Un masso a crosta di pane si conficcò proprio sul tetto della bella casa dei ricchi scozzesi che corsero in cerca di una barca per fuggire da quell’isola infernale. Scapparono via mentre i diavoli di Vulcano se la godevano sguazzando tra i bollori dell’acqua sulfurea.

L’imprenditore non tornò più sull’isola. Harry, preso da una grande paura, era sceso anche lui in riva al mare e sulla battigia aveva preso un gozzo e aveva cominciato a remare, affannandosi e imprecando. Era il 3 agosto del 1888, un giorno che non avrebbe mai più dimenticato. Si trovò al largo, stanco e confuso. Frenò la sua ira e non remò più e, disteso a poppa del gozzo, si fece trasportare dalle onde. L’aria era limpida e l’odore del mare lo raggiungeva come una carezza. Chissà come è stato: all’improvviso una grande foglia gli si posò sul viso. La prese tra le mani e lesse la sua storia. In lontananza, tra la folta chioma di un grande albero, uno gnomo scrivano lo salutava. Harry pensò che aveva ragione: ai sogni bisognava credere e quell’albero ne era la prova.

Continuò quindi a dormire, lasciando che le onde si occupassero di lui e segnassero il suo destino.

∗http://www.ct.ingv.it

∗http://www.giornaledilipari.it/lalbum-dei-ricordi-leruzione-del-1888-a-vulcano/

∗http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

∗Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia, trad. e note Carlo Ruta, Edi.bi.si., Palermo, 2004, pag.61

∗Gastone Vuillier, La Sicilia-impressioni del presente e del passato, nota intr. di Francesco Brancato, Edizioni Grifo, Palermo, 1995, pag. 401 

Il grande albero

30 giovedì Dic 2021

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, meraviglia, piazza Asmundo, storia, via della Mecca

Un grande albero osserva me mentre io osservo il dispiegarsi della storia. Ne ascolto il battito, il respiro, immaginando di leggere tra le pieghe del paesaggio, osservando ogni pietra, ogni elemento da cui evaporano parole e immagini. Una colata di asfalto raggiunge antichi basolati in pietra. Corde tese scorrono attraverso carrucole, in un andare e venire di bucato che profuma di pulito e di futuro: vestiti stesi al sole, rigeneratore di vita, raccontano di bambini che popoleranno la piazza nel pomeriggio, quando saranno liberi dai loro impegni scolastici. Non è grande questo scrigno circondato di storia che si perde nei secoli. In queste ore del mattino, il palazzo Asmundo, che da’ il nome alla piazza ed è uno splendido esempio del barocco catanese, resta all’ombra come una vecchia signora che ha paura di esporsi alla luce del sole: guarda con orgoglio la via Crociferi che le sta di fronte ( tra vecchie e nobili signore ci si intende) e si fa espressione di quella rinascita cittadina avvenuta dopo il terribile terremoto del 1693. Da un lontanissimo passato sento lo scalpitio rumoroso e cadenzato dei cavalli del conte Ruggero, al cui seguito la famiglia Asmundo aveva raggiunto la Sicilia. Originari di Pisa, ricoprirono importanti ruoli nella storia politica e culturale dell’isola. 1434: Adamo Asmundo, insieme a Battista Platamone, membro di un’altra famiglia prestigiosa nel ‘400, fondava l’Università degli studi di Catania, una delle più antiche d’Italia e del mondo.

Cosa nasconde l’ albero che continua a guardarmi, che continua a stuzzicare la mia curiosità? Un edificio, grande, maestoso e severo alle sue spalle odora di rigore e sapienza: un antico monastero dei gesuiti ormai dismesso, dimenticato. Le imponenti finestre si affacciano su via della Mecca e consegnano all’ albero le voci sapienti dei monaci che nel ‘700 popolavano il convento. Via della Mecca. No, non è un riferimento ad antiche religioni orientali, ma al grande sogno di un uomo che agli inizi del ‘900, aveva pensato a una casa cinematografica, l’ Etna Film, che nell’ idea di don Alfredo Alonzo doveva essere guardata come un miraggio, come un grande esempio per tutto il mondo.

Tra i rami del grande albero maturano storie e leggende e come frutti ormai troppo maturi, aspettano che qualcuno le raccolga e ne apprezzi il sapore.

Devo andare.

Mediterraneo

01 giovedì Lug 2021

Posted by paolina campo in filosofia, storia

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Boezio, Dante, mediterraneo, Paolina Campo, Pavia, Sant'Agostino

“Per vedere ogni ben dentro vi gode

l’anima santa che ‘l mondo fallace

fa manifesto a chi di lei ben ode:

lo corpo ond’ella fu cacciata giace

giuso in Cieldauro; ed essa da martiro

e da essilio venne a questa pace.”      

Dante, La Divina Commedia, Paradiso, X 124-129

Mediterraneo. Se si dovessero contare gli uomini che nei secoli l’hanno attraversato; le civiltà che si sono succedute nella conquista di sbocchi importanti su questo mare; se si dovessero contare le battaglie, le scorrerie piratesche e le navigazioni a scopo commerciale, bisognerebbe esprimersi attraverso una serie di numeri infiniti. Nella foto e nei versi di Dante il Mediterraneo, il mare non c’è. Eppure, la Basilica citata da Dante custodisce una storia che ha attraversato il Mediterraneo per approdare a Pavia. La storia riguarda un grande filosofo nato a Tagaste, in Algeria, nel 354 d.C. ed eletto vescovo di Ippona, sempre in Algeria, dopo essere stato battezzato da Ambrogio, vescovo di Milano. Sant’ Agostino, attraversò più volte il Mediterraneo. Insegnò retorica prima a Roma e poi a Milano dove seguì le prediche del vescovo Ambrogio che lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornato a Roma, raggiunse Ostia per imbarcarsi, attraversare il Mediterraneo e raggiungere la sua terra. Divenuto vescovo di Ippona continuò la sua attività letteraria volta a combattere l’eresia manichea, oltre che allo studio del rapporto tra ragione e fede che il filosofo non vide mai in contrasto, ma anzi in perfetta armonia. Il suo capolavoro, le Confessioni, vedono la luce nel 400 e in quest’opera autobiografica, Agostino loda il Signore per averlo condotto verso la luce della Verità. Il vescovo di Ippona morì il 28 agosto del 430, mentre i Vandali di Genserico assediavano la città algerina. Per mettere in salvo le reliquie dall’assalto dei barbari, il corpo di Sant’Agostino fu trasportato fino a Cagliari, in Sardegna. Il Mediterraneo avrebbe ancora visto le spoglie del filosofo viaggiare sulle sue acque. Circa tre secoli più tardi, il pio re longobardo Liutprando prese a cuore le sorti delle sante reliquie e nel 722 offrì un’ingente somma di denaro per riscattare il corpo del Santo Padre Agostino che ancora una volta attraversa il mare da Cagliari a Genova. Liutprando, con il suo esercito, raggiunse le sacre reliquie a Savignone e, percorrendo la via del sale, le trasportò fino a Pavia, capitale del suo regno. Il Corpo di Sant’Agostino fu deposto nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove già riposavano i resti di un altro grande filosofo, Severino Boezio. Pavia continuò ad onorare il santo filosofo e nel XIV secolo si pensò di costruire, all’interno della Basilica, una magnifica Arca a Sant’ Agostino. Il pericolo non erano più i barbari, ma l’umidità: l’Arca avrebbe degnamente custodito le spoglie del Santo racchiudendole e proteggendole sontuosamente. La nuova “casa” del filosofo fu costruita in marmo di Carrara e su ogni lato furono scolpite scene della vita del Santo.

“-Il mare siamo noi…siamo noi…- e intanto il vento accompagnava la leggerezza di quel volo simile a quello dei petali di un bouganville che maestoso ornava case bianche e luminosi terrazzi.

La voce incalzava, voleva sapere.

-Dove andate? Che gioco è questo?-

-Ci aspetta…Ci aspetta la casetta dagli occhi di cielo!-

Quando arrivava la sera, la casa accoglieva le dodici lettere e le combinava in varia maniera perché formassero parole che descrivessero la vita, la gioia, il dolore. Così cominciava

Mare-mito-morte

Entrare-etere-errato

Denaro- dare- dire- dote

Idea-iter-ira

Terra- tradire- temere-tenero

Era-Ermete

Remo-ramo-rete

…..”

Paolina Campo, ‘Nto Scurari

Sera

19 mercoledì Mag 2021

Posted by paolina campo in poesia, Salina, storia

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pace, riflessioni, tramonto

Bellezza che ferisce

trafigge il cuore

E poi svanisce.

Si accendono le luci

di gusci che tutelano

le gioie e i dolori

di una vita

ferita da più parti

da raggi di sole

troppo intensi

e che tanto hanno promesso.

Con gli ultimi bagliori,

si rasserenanno le menti

si allontanano gli affanni

si pensa a un raggio verde

da percorrere fino alla Luna

dove abbandonare

follie e sbandamenti

timori e ripensamenti.

Uomini di cervello

24 domenica Mag 2020

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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cultura, Giovanni Falcone, mafia, Sicilia

Durante gli anni del liceo vivevo a Palermo in un antico quartiere vicino al mercato storico di Ballaro`. Il balcone della mia stanza, dove dormivo, studiavo e passavo la maggior parte delle mie giornate tipiche di un’ adolescente, si affacciava su una strada che correva fino al Policlinico, all’ Ospedale Civico e al cimitero monumentale di Sant’ Orsola. Quella strada era quindi attraversata da ambulanze in corsa verso quelle destinazioni, ultimo porto a cui approdavano, troppo spesso in quegli anni, le vittime di mafia. Sul finire degli anni settanta e agli inizi degli anni ottanta, le sirene tuonavano forte e senza tregua. Erano gli anni in cui i giornali e i telegiornali rendevano conto del susseguirsi di morti eccellenti per mano di un’ organizzazione che sembrava avere ingaggiato una guerra per un potere che doveva essere incontrollato, il potere degli uomini “d’ onore”. A Palermo si usava definire qualcuno di cui ci si poteva fidare masculu di panza o fimmina di panza, non nell’ accezione di persone di grossa taglia, ma di gente che teneva nello stomaco verità inconfessabili, e quindi persone che non avrebbero mai parlato di cose che era meglio tenere nel limbo delle verità pericolose. Un uomo d’ onore era un masculu di panza, addestrato ad essere silenzioso e crudele. A lui era dovuto rispetto, assenso e sottomissione, facendo leva su chi aveva più paura della miseria che dell’ annullamento di sé stesso, del coraggio di rivendicare i propri diritti, perché la mafia “da’ pane e morte” come si leggeva negli articoli del giornale L’ Ora, fiore all’ occhiello di una Sicilia colta e coraggiosa. Vittorio Nistico`, mitico direttore del quotidiano palermitano dal 1954 al 1975, non si stancava di scrivere nei suoi editoriali che era proprio nella stretta dell’ omertà, dell’ ignoranza, della miseria che i poteri mafiosi intrecciano i loro affari. Quando ci fu l’ attentato al magistrato Giovanni Falcone, non ero a Palermo, non sentii le sirene delle ambulanze che gridavano di costernazione, quelle stesse che anni prima avevano annunciato la morte di Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa, per citarne alcuni, che erano uomini di cervello, di libertà culturale. Mi ero trasferita da poco a Catania e la notizia dell’ attentato mi arrivò come una scossa, un terremoto: hanno vinto loro? Certo che no. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e quelli che prima di loro hanno dato la vita per sciogliere le catene del malaffare, ci hanno insegnato che l’ ignoranza va combattuta, che l’ entusiasmo premia, che la paura va guardata in faccia perché ci dica qualcosa e poi ci hanno lasciato un grande messaggio: dobbiamo amare di più la nostra terra e non dobbiamo permettere a nessuno di offenderla.

La festa delle donne

25 lunedì Nov 2019

Posted by paolina campo in libri, storia

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Aristofane, donne, poeta greco

Suvvia, con piede leggero, formiamo un cerchio e teniamoci per mano; tutte insieme seguendo il ritmo della danza. Su, su, con passi veloci. E il coro si disponga in modo da volgere l’occhio tutt’intorno da ogni parte.

E insieme tutte cantiamo, e onoriamo nella danza scatenata la stirpe degli dei Olimpi.

E se qualcuno si aspetta che in questo tempio, perché siamo donne, parliamo male degli uomini, si sbaglia.

Ma bisogna innanzitutto, nella danza in tondo, trovare subito un passo armonioso.

Avanti dunque, e celebriamo il dio dalla splendida lira e la vergine regina, la cacciatrice Artemide. Salute, dio che saetti di lontano, concedici vittoria. E poi com’è giusto celebriamo Era, protettrice dei matrimoni, che gode di tutte le danze, e custodisce le chiavi delle nozze.

Aristofane, LA FESTA DELLE DONNE, 411 a.C.

E’ arrivata la luce!

08 mercoledì Mag 2019

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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carrarmato, Castelbuono, centrale elettrica, Madonie, seconda guerra mondiale

 

castelbuono
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chiesa

 

In Sicilia, nei pressi della rotabile da cui si dividono le strade per Geraci, Isnello e Castelbuono, vicino il santuario di San Guglielmo, operava una vetreria di proprietà dei Ventimiglia che, nel ‘300, erano principi  di un vasto territorio che dalle montagne delle Madonie si estendeva fino alle verdi valli che si affacciavano al mare di Cefalù, dove alberi di frassini, corteggiati dal vento e, secondo una leggenda contadina, amanti della musica, offrivano cannoli di manna, linfa dolce, bianca e consistente come stalattite di ghiaccio. Dell’antica vitrera, rimane ben poco: una ciminiera e parte dei muri perimetrali, quanto basta per indicare come quartiere vitrera o largo vitrera la zona dove i resti dell’ antica fabbrica raccontano ancora la loro storia.

Prima della seconda guerra mondiale, nel quartiere vitrera il Comune di Castelbuono fece costruire una centrale elettrica. In paese arrivò quindi un grosso motore Graz[1] a tre cilindri con un volano enorme, tanto grande che fu necessario scavare il pavimento dell’edificio che avrebbe ospitato la nuova centrale elettrica. Dentro la buca fu inserito il volano[2], fornito di grosse cinghie. Il motore, dotato di altrettanti grossi pistoni e bielle, veniva azionato facendo girare le cinghie a mano mentre delle bombole, caricate di aria da un compressore, soffiavano forte per avviarlo. Per sollevare i pistoni e le bielle era necessario un parangolo a catena e bisognava lubrificare spesso le cinghie per rendere più agevole l’avviamento del motore che, a quel tempo, serviva a illuminare le case solo dopo il tramonto e per poche ore. A vicinedda di mastru Iachinu u scarparu, la vicina di casa di mastro Gioacchino il calzolaio, lavorava presso un piccolo ufficio postale dove i paesani pagavano il servizio elettrico, vero miracolo per la gente che poteva usufruire ancora di un po’ di luce, artificiale, per completare le loro faccende domestiche.

Arrivò la guerra e fu vietato accendere le luci la sera, anzi bisognava barricarsi dentro le case al buio perché il paese non venisse intercettato dai ricognitori nemici. Castelbuono venne presto occupato dai tedeschi e quando, nell’estate del 1943, gli americani sbarcarono in Sicilia, i soldati germanici costrinsero quelli italiani a scavare trincee e montare mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello del paese madonita. Il 22 luglio di quell’anno si diffuse la notizia che un aereo tedesco era caduto nelle campagne e che da Isnello si avvicinava una colonna americana di carrarmati, percorrendo la stradale di ponente. I tedeschi fecero saltare allora dei ponti tra cui quello della Nucidda e quello della Fiumara. Proprio qui, all’ indomani della fine della guerra, il signor Giovanni Mancuso, responsabile della centrale elettrica del paese, decise di recuperare un carrarmato abbandonato sotto quel ponte. La guerra aveva impoverito le casse comunali e non si potevano chiedere soldi per potenziare il motore della centrale con la costruzione di nuovi gruppi elettrici. Il motore del carrarmato poteva essere la soluzione alla necessità di rafforzare quello già esistente. Un mezzo funesto, che aveva suscitato timore tra la gente, diventava la soluzione per creare un vantaggio grazie alla genialità di un uomo. Un po’ come Perseo che uccide la Medusa, mostro terribile, e porta con sé la testa che produrrà bellezza.

Trasportato a Vitrera, venne costruito un casotto, un alloggio per ospitare il mezzo armato che non aveva motore di avviamento. Si decise di collegare un alternatore al motore del carrarmato in parallelo con il Graz, già esistente. L’alternatore girava, avviava i motori e, quando si arrivava alla tensione elettrica giusta, arrivava la luce in paese!

-Vinni a luci! C’è a luci!-

Gli operai facevano turni giorno e notte, a due a due, e altri si mantenevano in stato di reperibilità nel caso ci fossero stati dei problemi. La luce doveva arrivare e i paesani l’aspettavano come un vicineddu che dalla campagna bussava alla porta la sera.

Il paese poté godere quindi della luce e si poterono intensificare le luminarie durante i festeggiamenti dedicati alla madre Sant’Anna.

-Ma dove sono Natalino e gli altri? Era il loro turno in centrale oggi?-

In occasione della festa in onore della patrona, culminante nei giorni 25-26-27 luglio, i turni in centrale si intensificavano: le luminarie, le chiese avevano bisogno di tanta luce e per più tempo. Il sindaco, allora, non vedendo gli operai tra la folla, faceva preparare un fagotto con biscotti e bibite per i ragazzi della centrale elettrica di Castelbuono.

-E’ festa anche per noi che siamo qua!- e i motori continuavano a girare più forte per Madre Sant’Anna.

C’era un altro appuntamento importante che il capocentrale e i suoi operai volevano seguire, nonostante i turni di lavoro.

-Natalino, vai a Palermo. Servono dei pezzi per completare le radioline a transistor. Altrimenti come facciamo a sapere cosa succede alla Targa Florio?-

Il signor Mancuso era un appassionato della corsa automobilistica che percorreva le strade strette e tortuose delle Madonie, attraversando i  comuni di Cerda, Caltavuturo, Petralia, Geraci, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice in un circuito che vedeva frecciare le migliori auto da corsa dell’epoca. Decise quindi di montare delle radioline a transistor, lì in centrale, insieme ai suoi operai, durante le pause lavorative, per ascoltare tutti insieme i momenti più emozionanti di quella gara automobilistica che infiammava i cuori e che solo la guerra aveva fermato.

Intanto, il Comune di Castelbuono, provato dalla guerra, ebbe difficoltà a sostenere le spese per l’erogazione della luce elettrica. L’incarico della gestione della centrale fu affidato ad un ingegnere, coadiuvato da Mastru Ciccio Gliommaro e i suoi operai, tra cui il giovane Natalino, Campo Natale, mio padre. La centrale passò quindi alla SIMA, Società Idroelettrica delle Madonie, nome, come mi diceva papà, sbagliato perché la centrale di Castelbuono non era una centrale idroelettrica, ma, probabilmente, la società abbracciava un progetto nato a Petralia Sottana. L’ingegnere lasciò presto la gestione della centrale e, verso la metà degli anni ’50, a bordo di una FIAT 1100 ESCORT, arrivava a Castelbuono un omone: alto, fiero e deciso, uno di quelli che sapeva il fatto suo. Era l’ingegnere Campagna, della Società Elettrica della Sicilia o Ente Siciliano di Elettricità, che impiantò in centrale un motore FIAT 4 cilindri con un grosso alternatore Bivona. Il nuovo motore dava tanti problemi, non riusciva a coprire le esigenze del paese e quando c’era un sovraccarico di tensione, le marmitte e il tubo di scarico si surriscaldavano a tal punto che prendevano a fuoco. Il capotecnico, pensando che questo problema poteva essere risolto con un uso ridotto della corrente elettrica, andava casa per casa a controllarne il consumo domestico. Apriti cielo! La zia Rosa, come anche altri, si infastidirono parecchio di questa nuova invasione.

-A casa mia! Mi dici quantu luci a’ cunsumari!-

(-A casa mia! Mi dice quanta luce devo consumare!-)

Fatto sta che, tra lo scontento della gente e il cattivo funzionamento del nuovo motore, l’ingegnere Campagna fece arrivare un nuovo motore più potente, un Ansaldo a 7 cilindri, della sezione Grandi Motori FIAT, e due gruppi elettrici posti fuori dall’edificio della centrale che facevano un gran rumore e scaricavano fumi fastidiosi e maleodoranti. Neanche questa sembrava la soluzione giusta.

-Pari ca c’è a guerra a centrali!-

(-Sembra che c’è la guerra in centrale-)

La gente si lamentava tanto. Si pensò quindi all’alta tensione con un trasformatore collegato a barre di rame. I motori furono spenti e quando era necessario incrementare la distribuzione di energia elettrica, si azionava un motore a gas con alternatore che si trovava presso la fabbrica della mannite[3] in via Geraci. Questa soluzione alla distribuzione della luce elettrica a Castelbuono non dovette soddisfare né la gente, né gli ingegneri impegnati nell’ installazione di motori, gruppi elettrici e cavi.

Nel 1959 la centrale elettrica del quartiere vitrera, fu chiusa e divenne cabina elettrica con trasformatore a corrente alternata.

Fu in quell’anno che l’operaio specializzato Natalino  Campo accettò di imbarcarsi per un’altra avventura: l’ingegnere Campagna gli propose l’installazione di una centrale elettrica a Salina, nelle isole Eolie, dove il suo estro, la sua passione per la “luce”  continuò a distinguersi.[4]

[1] Motore Graz- motore austriaco. Il Politecnico di Graz, accademia specializzata nel settore tecnologico-scientifico e fondata nel 1811 dall’arciduca Giovanni d’Austria, dal 1879 al 1880 ebbe come suo studente Nikola Tesla, inventore del motore a corrente alternata.
[2] Volano- organo meccanico che serve a regolare il moto rotatorio dell’albero motore.
[3] Mannite- zucchero, monosaccaride derivato dalla lavorazione della manna.
[4] Per saperne di più:
www.castelbuonolive.com
www.salvarepalermo.it/per/archivio/per-n-33/…/323-lanticavetreria-di-castelbuono
www.scuderiatargaflorio.it/stotia-targa-florio.php
Salvatore Farinella, I VANTIMIGLIA-Castelli e dimore di Sicilia, fotografie di Gaetano Gambino, Editori del Sole, 2007.

Murìu, murù, mossi-dinamismo tra parole

11 lunedì Feb 2019

Posted by paolina campo in filosofia, Sicilia, storia

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Tag

langue, parole, Saussure, storia

 

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-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

         -Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

         -Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

         -Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!

-Oggi si va al mercato! E poi al mare!- disse la zia

Attraversarono via Maqueda e si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva come un venticello allegro un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?-

Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’ idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

La dinamica tra LANGUE e PAROLE ipotizzata da Saussure è complessa e stratificata e la mediazione fra fatto sociale e individuale si può configurare nella capacità della mente umana di contemplare associazioni mentali individuali, accanto ad associazioni mentali ratificate dal consenso sociale.

AA.VV., La mente, a cura di Stefano Gensini e Antonio Rainone, Carocci editore, Roma, 2009, pag.197

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