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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Il grande albero

30 giovedì Dic 2021

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, meraviglia, piazza Asmundo, storia, via della Mecca

Un grande albero osserva me mentre io osservo il dispiegarsi della storia. Ne ascolto il battito, il respiro, immaginando di leggere tra le pieghe del paesaggio, osservando ogni pietra, ogni elemento da cui evaporano parole e immagini. Una colata di asfalto raggiunge antichi basolati in pietra. Corde tese scorrono attraverso carrucole, in un andare e venire di bucato che profuma di pulito e di futuro: vestiti stesi al sole, rigeneratore di vita, raccontano di bambini che popoleranno la piazza nel pomeriggio, quando saranno liberi dai loro impegni scolastici. Non è grande questo scrigno circondato di storia che si perde nei secoli. In queste ore del mattino, il palazzo Asmundo, che da’ il nome alla piazza ed è uno splendido esempio del barocco catanese, resta all’ombra come una vecchia signora che ha paura di esporsi alla luce del sole: guarda con orgoglio la via Crociferi che le sta di fronte ( tra vecchie e nobili signore ci si intende) e si fa espressione di quella rinascita cittadina avvenuta dopo il terribile terremoto del 1693. Da un lontanissimo passato sento lo scalpitio rumoroso e cadenzato dei cavalli del conte Ruggero, al cui seguito la famiglia Asmundo aveva raggiunto la Sicilia. Originari di Pisa, ricoprirono importanti ruoli nella storia politica e culturale dell’isola. 1434: Adamo Asmundo, insieme a Battista Platamone, membro di un’altra famiglia prestigiosa nel ‘400, fondava l’Università degli studi di Catania, una delle più antiche d’Italia e del mondo.

Cosa nasconde l’ albero che continua a guardarmi, che continua a stuzzicare la mia curiosità? Un edificio, grande, maestoso e severo alle sue spalle odora di rigore e sapienza: un antico monastero dei gesuiti ormai dismesso, dimenticato. Le imponenti finestre si affacciano su via della Mecca e consegnano all’ albero le voci sapienti dei monaci che nel ‘700 popolavano il convento. Via della Mecca. No, non è un riferimento ad antiche religioni orientali, ma al grande sogno di un uomo che agli inizi del ‘900, aveva pensato a una casa cinematografica, l’ Etna Film, che nell’ idea di don Alfredo Alonzo doveva essere guardata come un miraggio, come un grande esempio per tutto il mondo.

Tra i rami del grande albero maturano storie e leggende e come frutti ormai troppo maturi, aspettano che qualcuno le raccolga e ne apprezzi il sapore.

Devo andare.

Mediterraneo

01 giovedì Lug 2021

Posted by paolina campo in filosofia, storia

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Boezio, Dante, mediterraneo, Paolina Campo, Pavia, Sant'Agostino

“Per vedere ogni ben dentro vi gode

l’anima santa che ‘l mondo fallace

fa manifesto a chi di lei ben ode:

lo corpo ond’ella fu cacciata giace

giuso in Cieldauro; ed essa da martiro

e da essilio venne a questa pace.”      

Dante, La Divina Commedia, Paradiso, X 124-129

Mediterraneo. Se si dovessero contare gli uomini che nei secoli l’hanno attraversato; le civiltà che si sono succedute nella conquista di sbocchi importanti su questo mare; se si dovessero contare le battaglie, le scorrerie piratesche e le navigazioni a scopo commerciale, bisognerebbe esprimersi attraverso una serie di numeri infiniti. Nella foto e nei versi di Dante il Mediterraneo, il mare non c’è. Eppure, la Basilica citata da Dante custodisce una storia che ha attraversato il Mediterraneo per approdare a Pavia. La storia riguarda un grande filosofo nato a Tagaste, in Algeria, nel 354 d.C. ed eletto vescovo di Ippona, sempre in Algeria, dopo essere stato battezzato da Ambrogio, vescovo di Milano. Sant’ Agostino, attraversò più volte il Mediterraneo. Insegnò retorica prima a Roma e poi a Milano dove seguì le prediche del vescovo Ambrogio che lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornato a Roma, raggiunse Ostia per imbarcarsi, attraversare il Mediterraneo e raggiungere la sua terra. Divenuto vescovo di Ippona continuò la sua attività letteraria volta a combattere l’eresia manichea, oltre che allo studio del rapporto tra ragione e fede che il filosofo non vide mai in contrasto, ma anzi in perfetta armonia. Il suo capolavoro, le Confessioni, vedono la luce nel 400 e in quest’opera autobiografica, Agostino loda il Signore per averlo condotto verso la luce della Verità. Il vescovo di Ippona morì il 28 agosto del 430, mentre i Vandali di Genserico assediavano la città algerina. Per mettere in salvo le reliquie dall’assalto dei barbari, il corpo di Sant’Agostino fu trasportato fino a Cagliari, in Sardegna. Il Mediterraneo avrebbe ancora visto le spoglie del filosofo viaggiare sulle sue acque. Circa tre secoli più tardi, il pio re longobardo Liutprando prese a cuore le sorti delle sante reliquie e nel 722 offrì un’ingente somma di denaro per riscattare il corpo del Santo Padre Agostino che ancora una volta attraversa il mare da Cagliari a Genova. Liutprando, con il suo esercito, raggiunse le sacre reliquie a Savignone e, percorrendo la via del sale, le trasportò fino a Pavia, capitale del suo regno. Il Corpo di Sant’Agostino fu deposto nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove già riposavano i resti di un altro grande filosofo, Severino Boezio. Pavia continuò ad onorare il santo filosofo e nel XIV secolo si pensò di costruire, all’interno della Basilica, una magnifica Arca a Sant’ Agostino. Il pericolo non erano più i barbari, ma l’umidità: l’Arca avrebbe degnamente custodito le spoglie del Santo racchiudendole e proteggendole sontuosamente. La nuova “casa” del filosofo fu costruita in marmo di Carrara e su ogni lato furono scolpite scene della vita del Santo.

“-Il mare siamo noi…siamo noi…- e intanto il vento accompagnava la leggerezza di quel volo simile a quello dei petali di un bouganville che maestoso ornava case bianche e luminosi terrazzi.

La voce incalzava, voleva sapere.

-Dove andate? Che gioco è questo?-

-Ci aspetta…Ci aspetta la casetta dagli occhi di cielo!-

Quando arrivava la sera, la casa accoglieva le dodici lettere e le combinava in varia maniera perché formassero parole che descrivessero la vita, la gioia, il dolore. Così cominciava

Mare-mito-morte

Entrare-etere-errato

Denaro- dare- dire- dote

Idea-iter-ira

Terra- tradire- temere-tenero

Era-Ermete

Remo-ramo-rete

…..”

Paolina Campo, ‘Nto Scurari

Sera

19 mercoledì Mag 2021

Posted by paolina campo in poesia, Salina, storia

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pace, riflessioni, tramonto

Bellezza che ferisce

trafigge il cuore

E poi svanisce.

Si accendono le luci

di gusci che tutelano

le gioie e i dolori

di una vita

ferita da più parti

da raggi di sole

troppo intensi

e che tanto hanno promesso.

Con gli ultimi bagliori,

si rasserenanno le menti

si allontanano gli affanni

si pensa a un raggio verde

da percorrere fino alla Luna

dove abbandonare

follie e sbandamenti

timori e ripensamenti.

Uomini di cervello

24 domenica Mag 2020

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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cultura, Giovanni Falcone, mafia, Sicilia

Durante gli anni del liceo vivevo a Palermo in un antico quartiere vicino al mercato storico di Ballaro`. Il balcone della mia stanza, dove dormivo, studiavo e passavo la maggior parte delle mie giornate tipiche di un’ adolescente, si affacciava su una strada che correva fino al Policlinico, all’ Ospedale Civico e al cimitero monumentale di Sant’ Orsola. Quella strada era quindi attraversata da ambulanze in corsa verso quelle destinazioni, ultimo porto a cui approdavano, troppo spesso in quegli anni, le vittime di mafia. Sul finire degli anni settanta e agli inizi degli anni ottanta, le sirene tuonavano forte e senza tregua. Erano gli anni in cui i giornali e i telegiornali rendevano conto del susseguirsi di morti eccellenti per mano di un’ organizzazione che sembrava avere ingaggiato una guerra per un potere che doveva essere incontrollato, il potere degli uomini “d’ onore”. A Palermo si usava definire qualcuno di cui ci si poteva fidare masculu di panza o fimmina di panza, non nell’ accezione di persone di grossa taglia, ma di gente che teneva nello stomaco verità inconfessabili, e quindi persone che non avrebbero mai parlato di cose che era meglio tenere nel limbo delle verità pericolose. Un uomo d’ onore era un masculu di panza, addestrato ad essere silenzioso e crudele. A lui era dovuto rispetto, assenso e sottomissione, facendo leva su chi aveva più paura della miseria che dell’ annullamento di sé stesso, del coraggio di rivendicare i propri diritti, perché la mafia “da’ pane e morte” come si leggeva negli articoli del giornale L’ Ora, fiore all’ occhiello di una Sicilia colta e coraggiosa. Vittorio Nistico`, mitico direttore del quotidiano palermitano dal 1954 al 1975, non si stancava di scrivere nei suoi editoriali che era proprio nella stretta dell’ omertà, dell’ ignoranza, della miseria che i poteri mafiosi intrecciano i loro affari. Quando ci fu l’ attentato al magistrato Giovanni Falcone, non ero a Palermo, non sentii le sirene delle ambulanze che gridavano di costernazione, quelle stesse che anni prima avevano annunciato la morte di Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa, per citarne alcuni, che erano uomini di cervello, di libertà culturale. Mi ero trasferita da poco a Catania e la notizia dell’ attentato mi arrivò come una scossa, un terremoto: hanno vinto loro? Certo che no. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e quelli che prima di loro hanno dato la vita per sciogliere le catene del malaffare, ci hanno insegnato che l’ ignoranza va combattuta, che l’ entusiasmo premia, che la paura va guardata in faccia perché ci dica qualcosa e poi ci hanno lasciato un grande messaggio: dobbiamo amare di più la nostra terra e non dobbiamo permettere a nessuno di offenderla.

La festa delle donne

25 lunedì Nov 2019

Posted by paolina campo in libri, storia

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Aristofane, donne, poeta greco

Suvvia, con piede leggero, formiamo un cerchio e teniamoci per mano; tutte insieme seguendo il ritmo della danza. Su, su, con passi veloci. E il coro si disponga in modo da volgere l’occhio tutt’intorno da ogni parte.

E insieme tutte cantiamo, e onoriamo nella danza scatenata la stirpe degli dei Olimpi.

E se qualcuno si aspetta che in questo tempio, perché siamo donne, parliamo male degli uomini, si sbaglia.

Ma bisogna innanzitutto, nella danza in tondo, trovare subito un passo armonioso.

Avanti dunque, e celebriamo il dio dalla splendida lira e la vergine regina, la cacciatrice Artemide. Salute, dio che saetti di lontano, concedici vittoria. E poi com’è giusto celebriamo Era, protettrice dei matrimoni, che gode di tutte le danze, e custodisce le chiavi delle nozze.

Aristofane, LA FESTA DELLE DONNE, 411 a.C.

E’ arrivata la luce!

08 mercoledì Mag 2019

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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carrarmato, Castelbuono, centrale elettrica, Madonie, seconda guerra mondiale

 

castelbuono
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chiesa

 

In Sicilia, nei pressi della rotabile da cui si dividono le strade per Geraci, Isnello e Castelbuono, vicino il santuario di San Guglielmo, operava una vetreria di proprietà dei Ventimiglia che, nel ‘300, erano principi  di un vasto territorio che dalle montagne delle Madonie si estendeva fino alle verdi valli che si affacciavano al mare di Cefalù, dove alberi di frassini, corteggiati dal vento e, secondo una leggenda contadina, amanti della musica, offrivano cannoli di manna, linfa dolce, bianca e consistente come stalattite di ghiaccio. Dell’antica vitrera, rimane ben poco: una ciminiera e parte dei muri perimetrali, quanto basta per indicare come quartiere vitrera o largo vitrera la zona dove i resti dell’ antica fabbrica raccontano ancora la loro storia.

Prima della seconda guerra mondiale, nel quartiere vitrera il Comune di Castelbuono fece costruire una centrale elettrica. In paese arrivò quindi un grosso motore Graz[1] a tre cilindri con un volano enorme, tanto grande che fu necessario scavare il pavimento dell’edificio che avrebbe ospitato la nuova centrale elettrica. Dentro la buca fu inserito il volano[2], fornito di grosse cinghie. Il motore, dotato di altrettanti grossi pistoni e bielle, veniva azionato facendo girare le cinghie a mano mentre delle bombole, caricate di aria da un compressore, soffiavano forte per avviarlo. Per sollevare i pistoni e le bielle era necessario un parangolo a catena e bisognava lubrificare spesso le cinghie per rendere più agevole l’avviamento del motore che, a quel tempo, serviva a illuminare le case solo dopo il tramonto e per poche ore. A vicinedda di mastru Iachinu u scarparu, la vicina di casa di mastro Gioacchino il calzolaio, lavorava presso un piccolo ufficio postale dove i paesani pagavano il servizio elettrico, vero miracolo per la gente che poteva usufruire ancora di un po’ di luce, artificiale, per completare le loro faccende domestiche.

Arrivò la guerra e fu vietato accendere le luci la sera, anzi bisognava barricarsi dentro le case al buio perché il paese non venisse intercettato dai ricognitori nemici. Castelbuono venne presto occupato dai tedeschi e quando, nell’estate del 1943, gli americani sbarcarono in Sicilia, i soldati germanici costrinsero quelli italiani a scavare trincee e montare mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello del paese madonita. Il 22 luglio di quell’anno si diffuse la notizia che un aereo tedesco era caduto nelle campagne e che da Isnello si avvicinava una colonna americana di carrarmati, percorrendo la stradale di ponente. I tedeschi fecero saltare allora dei ponti tra cui quello della Nucidda e quello della Fiumara. Proprio qui, all’ indomani della fine della guerra, il signor Giovanni Mancuso, responsabile della centrale elettrica del paese, decise di recuperare un carrarmato abbandonato sotto quel ponte. La guerra aveva impoverito le casse comunali e non si potevano chiedere soldi per potenziare il motore della centrale con la costruzione di nuovi gruppi elettrici. Il motore del carrarmato poteva essere la soluzione alla necessità di rafforzare quello già esistente. Un mezzo funesto, che aveva suscitato timore tra la gente, diventava la soluzione per creare un vantaggio grazie alla genialità di un uomo. Un po’ come Perseo che uccide la Medusa, mostro terribile, e porta con sé la testa che produrrà bellezza.

Trasportato a Vitrera, venne costruito un casotto, un alloggio per ospitare il mezzo armato che non aveva motore di avviamento. Si decise di collegare un alternatore al motore del carrarmato in parallelo con il Graz, già esistente. L’alternatore girava, avviava i motori e, quando si arrivava alla tensione elettrica giusta, arrivava la luce in paese!

-Vinni a luci! C’è a luci!-

Gli operai facevano turni giorno e notte, a due a due, e altri si mantenevano in stato di reperibilità nel caso ci fossero stati dei problemi. La luce doveva arrivare e i paesani l’aspettavano come un vicineddu che dalla campagna bussava alla porta la sera.

Il paese poté godere quindi della luce e si poterono intensificare le luminarie durante i festeggiamenti dedicati alla madre Sant’Anna.

-Ma dove sono Natalino e gli altri? Era il loro turno in centrale oggi?-

In occasione della festa in onore della patrona, culminante nei giorni 25-26-27 luglio, i turni in centrale si intensificavano: le luminarie, le chiese avevano bisogno di tanta luce e per più tempo. Il sindaco, allora, non vedendo gli operai tra la folla, faceva preparare un fagotto con biscotti e bibite per i ragazzi della centrale elettrica di Castelbuono.

-E’ festa anche per noi che siamo qua!- e i motori continuavano a girare più forte per Madre Sant’Anna.

C’era un altro appuntamento importante che il capocentrale e i suoi operai volevano seguire, nonostante i turni di lavoro.

-Natalino, vai a Palermo. Servono dei pezzi per completare le radioline a transistor. Altrimenti come facciamo a sapere cosa succede alla Targa Florio?-

Il signor Mancuso era un appassionato della corsa automobilistica che percorreva le strade strette e tortuose delle Madonie, attraversando i  comuni di Cerda, Caltavuturo, Petralia, Geraci, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice in un circuito che vedeva frecciare le migliori auto da corsa dell’epoca. Decise quindi di montare delle radioline a transistor, lì in centrale, insieme ai suoi operai, durante le pause lavorative, per ascoltare tutti insieme i momenti più emozionanti di quella gara automobilistica che infiammava i cuori e che solo la guerra aveva fermato.

Intanto, il Comune di Castelbuono, provato dalla guerra, ebbe difficoltà a sostenere le spese per l’erogazione della luce elettrica. L’incarico della gestione della centrale fu affidato ad un ingegnere, coadiuvato da Mastru Ciccio Gliommaro e i suoi operai, tra cui il giovane Natalino, Campo Natale, mio padre. La centrale passò quindi alla SIMA, Società Idroelettrica delle Madonie, nome, come mi diceva papà, sbagliato perché la centrale di Castelbuono non era una centrale idroelettrica, ma, probabilmente, la società abbracciava un progetto nato a Petralia Sottana. L’ingegnere lasciò presto la gestione della centrale e, verso la metà degli anni ’50, a bordo di una FIAT 1100 ESCORT, arrivava a Castelbuono un omone: alto, fiero e deciso, uno di quelli che sapeva il fatto suo. Era l’ingegnere Campagna, della Società Elettrica della Sicilia o Ente Siciliano di Elettricità, che impiantò in centrale un motore FIAT 4 cilindri con un grosso alternatore Bivona. Il nuovo motore dava tanti problemi, non riusciva a coprire le esigenze del paese e quando c’era un sovraccarico di tensione, le marmitte e il tubo di scarico si surriscaldavano a tal punto che prendevano a fuoco. Il capotecnico, pensando che questo problema poteva essere risolto con un uso ridotto della corrente elettrica, andava casa per casa a controllarne il consumo domestico. Apriti cielo! La zia Rosa, come anche altri, si infastidirono parecchio di questa nuova invasione.

-A casa mia! Mi dici quantu luci a’ cunsumari!-

(-A casa mia! Mi dice quanta luce devo consumare!-)

Fatto sta che, tra lo scontento della gente e il cattivo funzionamento del nuovo motore, l’ingegnere Campagna fece arrivare un nuovo motore più potente, un Ansaldo a 7 cilindri, della sezione Grandi Motori FIAT, e due gruppi elettrici posti fuori dall’edificio della centrale che facevano un gran rumore e scaricavano fumi fastidiosi e maleodoranti. Neanche questa sembrava la soluzione giusta.

-Pari ca c’è a guerra a centrali!-

(-Sembra che c’è la guerra in centrale-)

La gente si lamentava tanto. Si pensò quindi all’alta tensione con un trasformatore collegato a barre di rame. I motori furono spenti e quando era necessario incrementare la distribuzione di energia elettrica, si azionava un motore a gas con alternatore che si trovava presso la fabbrica della mannite[3] in via Geraci. Questa soluzione alla distribuzione della luce elettrica a Castelbuono non dovette soddisfare né la gente, né gli ingegneri impegnati nell’ installazione di motori, gruppi elettrici e cavi.

Nel 1959 la centrale elettrica del quartiere vitrera, fu chiusa e divenne cabina elettrica con trasformatore a corrente alternata.

Fu in quell’anno che l’operaio specializzato Natalino  Campo accettò di imbarcarsi per un’altra avventura: l’ingegnere Campagna gli propose l’installazione di una centrale elettrica a Salina, nelle isole Eolie, dove il suo estro, la sua passione per la “luce”  continuò a distinguersi.[4]

[1] Motore Graz- motore austriaco. Il Politecnico di Graz, accademia specializzata nel settore tecnologico-scientifico e fondata nel 1811 dall’arciduca Giovanni d’Austria, dal 1879 al 1880 ebbe come suo studente Nikola Tesla, inventore del motore a corrente alternata.
[2] Volano- organo meccanico che serve a regolare il moto rotatorio dell’albero motore.
[3] Mannite- zucchero, monosaccaride derivato dalla lavorazione della manna.
[4] Per saperne di più:
www.castelbuonolive.com
www.salvarepalermo.it/per/archivio/per-n-33/…/323-lanticavetreria-di-castelbuono
www.scuderiatargaflorio.it/stotia-targa-florio.php
Salvatore Farinella, I VANTIMIGLIA-Castelli e dimore di Sicilia, fotografie di Gaetano Gambino, Editori del Sole, 2007.

Murìu, murù, mossi-dinamismo tra parole

11 lunedì Feb 2019

Posted by paolina campo in filosofia, Sicilia, storia

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langue, parole, Saussure, storia

 

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-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

         -Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

         -Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

         -Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!

-Oggi si va al mercato! E poi al mare!- disse la zia

Attraversarono via Maqueda e si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva come un venticello allegro un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?-

Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’ idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

La dinamica tra LANGUE e PAROLE ipotizzata da Saussure è complessa e stratificata e la mediazione fra fatto sociale e individuale si può configurare nella capacità della mente umana di contemplare associazioni mentali individuali, accanto ad associazioni mentali ratificate dal consenso sociale.

AA.VV., La mente, a cura di Stefano Gensini e Antonio Rainone, Carocci editore, Roma, 2009, pag.197

Drappeggi invisibili

02 mercoledì Mag 2018

Posted by paolina campo in pensieri, ricordi, Sicilia, storia

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anno nuovo, Leopardi, sole che sorge

 

 

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-Ehi, ci sei? Sei tornata?-

-Si, sono qui…non so per quanto tempo ancora…-

-Raccontaci ancora qualcosa.-

-La mia mente è stanca, è confusa. Tante cose vulissi cuntari, ma a nuddu vogghiu fari mali*.-

-Dai, comincia.-

-Comincio da qui, da questo corridoio che segna la mia vita ogni mattina: dal balcone che si affaccia a nord, al balcone che si affaccia a sud. No, non è lunghissimo questo passaggio che ogni mattina offre alle mie gambe stanche la meraviglia del bagliore del sole che sorge e dipinge di rosa e arancione il mare a sud e la Montagna a nord. Avanti e indietro, da nord a sud assorbendo i colori del mondo, nutrendomi dello stupore di quegli attimi di pura bellezza avvolti in un silenzio magico e rispettoso. Poi basta, poi comincia il rumore del giorno: i colori seducenti svaniscono e inizia la solitudine del cuore.

Quando ero bambina c’erano tante cose che stuzzicavano la mia meraviglia. Di queste, molte  rimanevano lì sempre pronte a sollecitare il mio desiderio di poesia, di magia, di cuore di un mondo incantatore: il mare, il vento, il vociare festoso di mercati affollati. C’erano però alcune “cose” più intime, più chiacchierine a cui era dato poco tempo per raccontarsi. Apparivano, o meglio, facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza per poi sparire nel fondo dei loro cento anni senza dire più nulla. Avrò visto due o tre volte uno strumento da ricamo che mia madre custodiva gelosamente avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia della mamma, una zia monaca dal caratterino vivace. Mia madre era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo e attorno ai tanti fuselli ricamava la storia della zia, monaca non certo per devozione, e delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove mia madre cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose, tra queste la zia, e delle quali non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. La zia era tosta, una specie di monaca di Monza, ma aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro. Finito il cunto, il tombolo veniva riavvolto nel lenzuolo di lino e riposto nel cassetto dal fondo di cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia.

Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi alle porte del cuore.

Di tanto in tanto mio padre prendeva una specie di fagotto nascosto su un alto scaffale, e lo apriva. Era un rito che si ripeteva a scadenze indefinite e con un pathos che coinvolgeva tutti noi in attesa di farci stupire dal misterioso fagotto. Io ero la figlia maggiore. Questa cosa di essere la figlia maggiore è stata sempre una immane fatica. E’ stato come vivere due vite contemporaneamente: da una parte la bimba che cresceva e dall’altra la consigliera, la mediatrice, quella che riusciva a placare gli animi ogni qual volta scoppiava (nel vero senso della parola) una lite tra i miei genitori. Mia madre diceva spesso che non ero mai stata piccola perché il mio ruolo non me lo permetteva. Una volta dismesse le mie competenze pacificatrici, non ero più la “grande” ( cosa che pensavo mi desse qualche privilegio), dovevo stare attenta a non atteggiarmi a sapientona, pena l’isolamento, da cui neanche mia madre mi poteva salvare.

Ma torniamo al fagotto. Abracadabra…l’oro di famiglia. L’anello di fidanzamento di mamma, quello di papà, orologi, collane, collanine, anellini e poi…qualcosa uscita fuori da una storia antica di migrazione, amore, sofferenza, riscatto: un paio di occhiali da vista dalla montatura dorata, di metallo sottile, essenziale, con lenti rotonde di quelle che indossavano i maestri alteri di certi sceneggiati in bianco e nero. C’era anche una collana di pietre rosse, bigiotteria americana che raccontava di traversate sull’oceano, di una bimba cresciuta a New York e che, tornata al suo paese in Sicilia, si sposava, dava alla luce una nidiata di bambini e moriva qualche giorno prima di tornare in America. Io ero la grande e il mio nome fu il nome di quella nonna sfortunata, per segnare un ricordo, un dolore, una tenerezza negata. Abracadabra…il fagotto si richiudeva lasciandomi a vagare con la mente come una fata tra sogni belli e meno belli, per sempre, per ogni anno della mia vita.

 

PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatto io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

VENDITORE. Lo credo codesto.

PASSEGGERE. Nè anche voi tornereste indietro con questo fatto, non potendo in altro modo?

VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.

PASSEGGERE.Oh che vita vorreste voi dunque?

VENDITORE. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

VENDITORE. Appunto.

Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.

 

Buon anno a tutti, al sole che sorge al mattino senza far patti con il cielo, le nuvole e il vento, che incontra e basta e insieme a loro ci regala un giorno nuovo, e poi un altro, e poi un altro ancora.

∗Tante cose vorrei raccontare,ma a nessuno voglio fare male.

La strage del pane

23 lunedì Ott 2017

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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microstoria spesso dimenticata, seconda guerra mondiale, Sicilia, storia della gente, storia nei libri

 

Ottobre 1944: i grandi del tempo tessevano ancora la trama fitta della guerra, mentre i piccoli del tempo morivano o cercavano di avere una voce. La strage del pane fu l’umiliazione di gente provata non solo dalla fame, dalla povertà, dalla distruzione. Fu l’umiliazione di non potere avere la possibilità di esprimere la rabbia, la stanchezza, il dolore stratificati nella mente e nel cuore, nelle ossa e nello stomaco. Perché si ha bisogno del pane ma la dignità di un uomo si costruisce anche, si innalza anche sul diritto ad avere una voce.

La strage del pane

Se volessi raccontare Palermo e la Sicilia

le botti di sangue che bagnano pietre piccole e grandi

che come fiume correrebbe e forte scorrerebbe violento

il fiume Oreto scomparirebbe e cambierebbe colore

pure il mare…se la storia provasse 

ad andare a scuola, fare di conto, sommare croci

di morti senza nome né peccato…

Dovrebbe mettersi rannicchiata

come se contasse i peli dell’aglio

le stelle in cielo, le onde del mare

che numero, peso, misura non hanno…

come mai nei secoli…peso e misura ha mai

dato la storia, la giustizia, a tutte le stragi

rubando memoria al tempo, alla gente!

Quella che ora vi racconto è una di tante…

Era il 19 d’ottobre del millenovecento

quarantaquattro, io avevo otto mesi.

Mia madre, domestica, non poté andare

a scioperare, a gridare, insieme

ai tanti morti di fame, che la miseria

teneva legati, come  asini alla catena!

A mia nonna però, femmina senza scuola,

bastava un bicchiere di vino per sciogliere

lingua e pensieri…filosofa diventava:

“Mi sembra come fosse stato ieri, quei maledetti,

hanno avuto il coraggio di sparare a gente

come me: otto figli, il marito disperso

in guerra e la fame che usciva dalle orecchie.”

Raccontava mia nonna, di uomini, donne

ragazzi e bambini che correvano

impazziti, con gli occhi di fuori per la paura

dimenticando anche la fame, tra sangue

bombe e morti ammazzati, squartati

come agnelli pasquali…solo perché

chiedevano pane, lavoro, libertà!

Ora la storia la sappiamo tutti, non tutti

però sanno che sono venuti i pompieri

per lavare il sangue incrostato in via Maqueda,

sangue che ancora bolle, grida, sangue di madri,

di anime innocenti che hanno ancora fame,

ma solo di giustizia, leggi volate in aria

hanno lasciato macigni dentro il petto…

Macigni che pesano dentro il cuore di chi sa

infami menzogne…di chi dopo tre anni

nel giro di due giorni, per ordine di chi non si sa 

hanno chiuso il processo dicendo:-Bastardi 

assassini qua non ce n’é… E’ stato eccesso di zelo…

Soldati armati, che dovevano difendersi

dalle solite teste calde dei siciliani…”Sobillatori!”-

“Sobillatori!”, ricomincia amara mia nonna

finendo il bicchiere di vino che ha davanti…

“Sobillatori!”…donne, bambini e ragazzi

che avevano tutti meno di vent’anni!

Michela Rinaudo (Lina La Mattina), poetessa siciliana.

«Da via Maqueda -citiamo da Fortuna e Uboldi- il corteo degli scioperanti muove verso il Comune, che è retto da un commissario prefettizio, il barone Enrico Merlo: in seguito, travolti i cordoni di polizia, si dirige verso la Prefettura dove in assenza del prefetto il suo vice, dottor Pampilonia, chiede aiuto al comando del Corpo d’armata di Palermo. La richiesta è pressante: il comando del Corpo d’armata invia un contingente di militari della divisione Sabauda, che è comandata dal generale Castellano, l’uomo dell’armistizio di Cassibile. Giunti alla Prefettura, i soldati ritengono di trovarsi di fronte a una sommossa, fanno uso delle armi. Vengono uccisi novanta dimostranti; un centinaio di feriti.»

Indro Montanelli, STORIA D’ITALIA, Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano, 2004, vol. 9, pag. 160-161

 

 

 

 

 

 

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