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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Archivi tag: Leopardi

Tutte le conchiglie del mondo

20 martedì Apr 2021

Posted by paolina campo in filosofia, poesia

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Archimede, Arenario, calcolo infinito, infinito, Leopardi

Quante conchiglie possiamo contare sulla battigia di una spiaggia assolata? Cento, mille, un milione, infinite. Per contarle non bastano certo le dita delle mani, primo strumento di misurazione discreta per cui ad ogni numero è possibile associare una realtà specifica. Se poi volessimo essere così cervellotici da chiederci quanti granelli di sabbia abitano il nostro lembo di riva, ci imbatteremmo nel dilemma più grande che ha interessato le più eccelse menti matematiche di tutti i tempi.

Ci sono alcuni, o Gerone, che ritengono i granelli di sabbia essere una moltitudine infinita…

Archimede, L’ARENARIO

Per i matematici antichi l’infinito era un concetto difficile da spiegare, anzi era un concetto che descriveva qualcosa di incompleto, addirittura associato al male. Archimede ( Siracusa, 287 a. C.-Siracusa 212 a. C. ), grande matematico dell’antichità, pensò che l’infinitamente grande, opposto all’infinitamente piccolo, potesse essere contato usando, come unità di misura, la MIRIADE. Nell’ Arenario, trattato che Archimede dedicò a Gerone, tiranno di Siracusa, il pensatore siracusano, valutando la grandezza di un granello di sabbia, immaginò che 10.000 granelli di sabbia potessero essere contenuti in una sfera della grandezza di un seme di papavero. Partendo da questo seme e proseguendo nel considerare volumi e sfere sempre più grandi, arrivò a considerare la sfera del cosmo (cioè la sfera avente per raggio la distanza Terra-Sole, secondo i calcoli di allora) e la sfera delle stelle fisse. Dopo aver fatto tutti i calcoli, Archimede provò che il numero dei granelli di sabbia contenuti nel cosmo erano una miriade di miriade della miriade-miriadesima riga della miriade-miriadesima colonna di una gigantesca tabella. Archimede si cimentava, per la prima volta nella storia della matematica, nel calcolo di misure infinitamente grandi.

Ma quanto è grande l’infinito? Sicuro grande più del mare. E’ l’immensità dove annega il pensiero; è la porta attraverso cui passano tutte le intelligenze possibili; è lo spazio dove si liberano i sogni; è il mondo, la casa di ogni mente che guarda sempre oltre una siepe.

Buon anno

02 sabato Gen 2021

Posted by paolina campo in pensieri

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Leopardi, meraviglia, nuovo anno, venditore di almanacchi

PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatto io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

VENDITORE. Lo credo codesto.

PASSEGGERE. Nè anche voi tornereste indietro con questo fatto, non potendo in altro modo?

VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.

PASSEGGERE.Oh che vita vorreste voi dunque?

VENDITORE. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

VENDITORE. Appunto.

Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.

Buon anno a tutti, che ci si possa sempre stupire davanti al sole che sorge al mattino senza scendere a patti con il cielo, le nuvole e il vento, per regalarci un giorno nuovo, e poi un altro, e poi un altro ancora. Che la meraviglia ci colga, sempre e ” a caso”.

Fammi strada-Drappeggi invisibili (9)

18 giovedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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capitolo nono, Etna, festa in piazza, Leopardi, Operette Morali, piazza Bonadies

“Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripiglitevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. Giacomo Leopardi, OPERETTE MORALI- CANTICO DEL GALLO SILVESTRE, OscarMondadori, Milano, 1988, pag. 202

DRAPPEGGI INVISIBILI

-Forza Nunzia! Spicciati! Pari ca dommi sta carusa![i]–

Il battesimo della bimba di Rosaria aveva portato tanta allegria tra la gente di piazza Bonadies. Lì tutti si conoscevano e tutti erano stati invitati, anche il prete che aveva celebrato la messa, un uomo alto e di bell’aspetto.

-Padre Iano s’avvicinassi! Brindiamo insieme!-

Padre Iano, Sebastiano, oltre a essere un bell’uomo, era anche simpatico e intelligente e amava stare insieme ai suoi parrocchiani. Il catechismo si trasformava in momento di svago per i bambini: le preghiere, ma anche il gioco del fazzoletto, la pittura e la musica. Le donne erano impegnate in attività manuali, ricamo, uncinetto, per allestire mercatini e, nei periodi di festa, organizzavano sagre di dolci in un tripudio di crispelle, torte, biscotti. Gli uomini pensavano a sistemare le panche ormai vecchie e barcollanti, sostituivano lampadine e montavano palchetti per il coro in occasione di eventi importanti. Era, la comunità parrocchiale di Padre Iano, una comunità coesa, vivace e sempre partecipe. Ma…Padre Iano era un bell’uomo e la sua perpetua, una giovane donna che aveva deciso di dedicare la sua vita alla cura della sacrestia e del parroco, venne presto indicata con l’appellativo de a mugghieri do parrinu[ii]. Lo scandalo di un prete che teneva sfacciatamente una relazione con una donna che viveva in parrocchia, man mano scemò grazie alla simpatia, al lavoro e alla vulcanica organizzazione parrocchiale del giovane prete e della sua perpetua.  Ben presto, Pinuzza do parrinu imparò a vivere come un personaggio delle storie dei cantastorie che a volte animavano la piazza. Di lei si parlava e si sparlava, ma Pinuzza era radiosa e metteva tutta sé stessa nell’organizzazione di catechismo e processioni e le chiacchere rimanevano relegate al teatro dell’immaginario collettivo. Anche lei era stata invitata alla festa per il battesimo e con i capelli in ordine, le unghia smaltate, un vestito elegante e un sorriso rassicurante e carico di gioia, contribuì a rendere più bella quella giornata di sole che si scelse di festeggiare nella piazzetta della fontana, vicino al lavatoio, sotto gli alberi dove le donne stendevano i panni e i bambini correvano liberi tra i vassoi di paste di mandorla e confetti.

-Nunzia amuninni![iii]–

La sorella più piccola di Cettina, all’indomani della festa, doveva partire per Palermo, la zia era venuta a prenderla. Era riuscita a convincere i genitori a lasciare che la ragazzina frequentasse la scuola media nel capoluogo siciliano. La zia e la nonna si sarebbero prese cura di lei.

-Non ti preoccupare, dalle una borsa piccola con le sue cose più importanti.-

La zia sembrava avesse tanta fretta di andare via, di salire sul primo treno per Palermo. Guardò Cettina e la baciò con tenerezza. Avrebbe portato via anche lei, ma la famiglia per lei aveva altri progetti: era una signorina da maritare.

Quando Nunzia partì, Cettina pianse disperatamente, di un pianto intimo, con occhi che rimandavano indietro le lacrime che a nulla servivano. La solitudine e l’impotenza mandano al mittente le lacrime che nessuno vuole asciugare. Le rimandano alla sensibilità del cuore che si inasprisce e svuota quella dose di liquida amarezza, nella parte più buia dell’anima dove ristagnano la rabbia e la delusione. Volevano che sposasse Salvatore? Bene, li avrebbe accontentati. A modo suo. Sarebbe scappata via con lui, presto. Al battesimo era stato invitato anche lui. Anche lui si trovò a bere, scherzare e chiacchierare con la gente raccolta attorno ai giovani genitori sotto i rami degli alberi di piazza Bonadias, dove, quel giorno, non svolazzavano lenzuola ma parole e risa e musica, mentre un giradischi diffondeva le voci e le note di Domenico Modugno: – Volare oh oh…Cantare oh oh oh- e la gente era sostenuta da un’allegria che svolazzava leggera sulle onde di canzoni bellissime:- nel blu, dipinto di blu…-

Tra la confusione e l’allegria le arrivò un messaggio, sussurrato piano.

-Domani, scappiamo via insieme. Fatti trovare dietro l’altare della Madonna del Pane Cotto.-

Quel giorno, all’orario stabilito, Cettina uscì da casa e si diresse al suo appuntamento: attraversò la piazza, sempre gremita di persone, raggiunse un’auto ferma nella traversa dell’ altare della Madonnina e prese posto in macchina, sbattendo lo sportello con atteggiamento di sfida. Un attimo, un soffio di vento e volò via con quell’uomo che non sapeva niente dei suoi sogni, della sua amarezza. Le si aprì improvviso uno spiraglio nella memoria: Palermo, le cupole rosse, le strade odorose di sfincione, il vociare festoso di mercati affollati. La casa della nonna. E poi, alcune “cose” più intime, più chiacchierine che facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza, per poi sparire ancora nel fondo del cassetto profondo cento anni. La nonna, nella sua casa, custodiva gelosamente uno strumento da ricamo avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia monaca dal caratterino vivace. La nonna era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo, e attorno ai tanti fuselli, ricamava la storia della zia. Monaca, non certo per devozione, aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare, come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro, mentre le era toccato di appartenere all’ordine delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove la nonna cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose, tra queste la zia, e delle quali non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. Finito il cunto, la nonna riavvolgeva il tombolo nel lenzuolo di lino e lo riponeva nel cassetto dal fondo profondo cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia. Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi alle porte del cuore. Chiuse gli occhi mentre l’auto divorava la tenerezza di quei ricordi. Forse si addormentò, forse fu rapita da un sogno. Quando riaprì gli occhi, l’auto stava ancora percorrendo una strada tortuosa, lunga, infinita. Quanto durava quel viaggio! Sembrava non finisse mai. Con lo sguardo fisso sulla strada, Cettina e Salvatore sembravano ignorarsi. Non parlavano, non si dicevano niente. Non si guardavano, non si scrutavano, ognuno perso nei propri pensieri. L’auto si fermò finalmente al limitare di una presenza, di una grande testimonianza, di una forza femmina, atavica. Si sentivano boati, come ruggiti di una leonessa, come la voce imponente e maestosa di una dea che libera dal suo ventre un gigante di fuoco. Si erano abbassate le luci del giorno e l’Etna in tutta la sua maestosità, comunicava con il mondo, lanciava fiamme e lapilli, come lunghe braccia che tendevano verso un amore eterno. La luna, intanto, sorgeva dal mare, anche lei rossa di ardore, bella e seducente. Pian piano si alzava alta nel cielo per meglio osservare il suo amore eterno eppure così irraggiungibile. Cettina rimase abbagliata da tanta bellezza, mentre la tristezza e la rassegnazione si aggrappavano alla rabbia che l’aveva portata fin lì, a Zafferana Etnea.


[i] -Forza Nunzia, sbrigati! Sembra che dorme ‘sta ragazzina!-

[ii] Moglie del prete.

[iii] -Nunzia, andiamo!-

Drappeggi invisibili

02 mercoledì Mag 2018

Posted by paolina campo in pensieri, ricordi, Sicilia, storia

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anno nuovo, Leopardi, sole che sorge

 

 

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-Ehi, ci sei? Sei tornata?-

-Si, sono qui…non so per quanto tempo ancora…-

-Raccontaci ancora qualcosa.-

-La mia mente è stanca, è confusa. Tante cose vulissi cuntari, ma a nuddu vogghiu fari mali*.-

-Dai, comincia.-

-Comincio da qui, da questo corridoio che segna la mia vita ogni mattina: dal balcone che si affaccia a nord, al balcone che si affaccia a sud. No, non è lunghissimo questo passaggio che ogni mattina offre alle mie gambe stanche la meraviglia del bagliore del sole che sorge e dipinge di rosa e arancione il mare a sud e la Montagna a nord. Avanti e indietro, da nord a sud assorbendo i colori del mondo, nutrendomi dello stupore di quegli attimi di pura bellezza avvolti in un silenzio magico e rispettoso. Poi basta, poi comincia il rumore del giorno: i colori seducenti svaniscono e inizia la solitudine del cuore.

Quando ero bambina c’erano tante cose che stuzzicavano la mia meraviglia. Di queste, molte  rimanevano lì sempre pronte a sollecitare il mio desiderio di poesia, di magia, di cuore di un mondo incantatore: il mare, il vento, il vociare festoso di mercati affollati. C’erano però alcune “cose” più intime, più chiacchierine a cui era dato poco tempo per raccontarsi. Apparivano, o meglio, facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza per poi sparire nel fondo dei loro cento anni senza dire più nulla. Avrò visto due o tre volte uno strumento da ricamo che mia madre custodiva gelosamente avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia della mamma, una zia monaca dal caratterino vivace. Mia madre era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo e attorno ai tanti fuselli ricamava la storia della zia, monaca non certo per devozione, e delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove mia madre cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose, tra queste la zia, e delle quali non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. La zia era tosta, una specie di monaca di Monza, ma aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro. Finito il cunto, il tombolo veniva riavvolto nel lenzuolo di lino e riposto nel cassetto dal fondo di cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia.

Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi alle porte del cuore.

Di tanto in tanto mio padre prendeva una specie di fagotto nascosto su un alto scaffale, e lo apriva. Era un rito che si ripeteva a scadenze indefinite e con un pathos che coinvolgeva tutti noi in attesa di farci stupire dal misterioso fagotto. Io ero la figlia maggiore. Questa cosa di essere la figlia maggiore è stata sempre una immane fatica. E’ stato come vivere due vite contemporaneamente: da una parte la bimba che cresceva e dall’altra la consigliera, la mediatrice, quella che riusciva a placare gli animi ogni qual volta scoppiava (nel vero senso della parola) una lite tra i miei genitori. Mia madre diceva spesso che non ero mai stata piccola perché il mio ruolo non me lo permetteva. Una volta dismesse le mie competenze pacificatrici, non ero più la “grande” ( cosa che pensavo mi desse qualche privilegio), dovevo stare attenta a non atteggiarmi a sapientona, pena l’isolamento, da cui neanche mia madre mi poteva salvare.

Ma torniamo al fagotto. Abracadabra…l’oro di famiglia. L’anello di fidanzamento di mamma, quello di papà, orologi, collane, collanine, anellini e poi…qualcosa uscita fuori da una storia antica di migrazione, amore, sofferenza, riscatto: un paio di occhiali da vista dalla montatura dorata, di metallo sottile, essenziale, con lenti rotonde di quelle che indossavano i maestri alteri di certi sceneggiati in bianco e nero. C’era anche una collana di pietre rosse, bigiotteria americana che raccontava di traversate sull’oceano, di una bimba cresciuta a New York e che, tornata al suo paese in Sicilia, si sposava, dava alla luce una nidiata di bambini e moriva qualche giorno prima di tornare in America. Io ero la grande e il mio nome fu il nome di quella nonna sfortunata, per segnare un ricordo, un dolore, una tenerezza negata. Abracadabra…il fagotto si richiudeva lasciandomi a vagare con la mente come una fata tra sogni belli e meno belli, per sempre, per ogni anno della mia vita.

 

PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatto io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

VENDITORE. Lo credo codesto.

PASSEGGERE. Nè anche voi tornereste indietro con questo fatto, non potendo in altro modo?

VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.

PASSEGGERE.Oh che vita vorreste voi dunque?

VENDITORE. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

VENDITORE. Appunto.

Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.

 

Buon anno a tutti, al sole che sorge al mattino senza far patti con il cielo, le nuvole e il vento, che incontra e basta e insieme a loro ci regala un giorno nuovo, e poi un altro, e poi un altro ancora.

∗Tante cose vorrei raccontare,ma a nessuno voglio fare male.

Space Oddity-Stranezza spaziale

18 martedì Lug 2017

Posted by paolina campo in pensieri

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Chris Hadfield, David Bowie, Il piccolo principe, Leopardi, musica, spazio infinito, video

When David Bowie wrote and recorded Space Oddity in 1969, I wonder if he ever imagined it being played in orbit?

http://www.chrishadfield.ca/space-oddity

Nel 1968 Stanley Kubrick (1928-1999) consegna alle sale cinematografiche un grande film di fantascienza: 2001: Odissea nello spazio, un’intensa riflessione sulla natura umana, sulla sua evoluzione, la sua intelligenza messa a confronto con l’intelligenza artificiale, con il progresso.

L’anno dopo, a una settimana dalla missione spaziale  Apollo 11 che porta per la prima volta l’uomo sulla Luna, David Bowie effettua anche lui un lancio, discografico, con Space Oddity, “Stranezza Spaziale” e il maggiore Tom, che Bowie immagina fluttuante e perso nello spazio,

…catturo’ lo spirito del tempo dei voli spaziali…

Piergiorgio Odifreddi, IL SENSO DI DAVID BOWIE PER LA SCIENZA DELLE STELLE, su La Repubblica sabato 9 luglio 2016

Nel 2013, Chris Hadfield, astronauta canadese, imbraccia  la sua chitarra e realizza un video superbo dalla Stazione Spaziale Internazionale, laboratorio scientifico in orbita attorno alla Terra di cui è  comandante fino a quello stesso anno, sulle note di Space  Oddity.

Un brano semplice eppure così evocativo. Sembra che la mente voli su quei quarantatre tramonti che il piccolo principe di De Saint-Exupéry riusciva ad ammirare in un giorno spostando di un pochino la sua sedia e, investito da così tanta bellezza, sentire una profonda tristezza. Strano. Sembra di poter navigare in un involucro trasparente oltre quella siepe che

…da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Giacomo Leopardi, L’INFINITO.

e immaginare di andare sempre oltre, sempre più lontano fino a sentire di potere annegare in un infinito difficile da abbracciare eppure così vicino dato che dobbiamo solo immaginarlo. Strano.

Chissà se David Bowie quando scriveva Space Oddity poteva immaginare che il suo pezzo un giorno poteva essere cantato e suonato in orbita?

Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia…

Antoine De Saint-Exupéry, IL PICCOLO PRINCIPE, Tascabili Bompiani, Milano, 2003, pag. 120

 


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