Socrate – …supponi che nelle nostre anime si trovi una massa di cera, in qualcuno più grande, in qualcuno più piccola, e in qualcuno di cera più pura, in qualcun altro di cera più sporca e indurita e in altri di cera più molle, in altri ancora di consistenza intermedia.
Platone, Teeteto, 191d
Da una galassia lontana arrivò sulla Terra una stella. Cercava tre anime: una che sapesse bene descrivere con le parole la magnificenza dell’universo; una che ne dipingesse i contorni splendenti e ne tracciasse le linee armoniche; una che trascrivesse su uno spartito, le note del suono che avvolgeva gli astri e i pianeti.
Le trovò e consegnò a ciascuna una tavoletta di cera dove segnare i ricordi più cari e partire così senza rimpianti.
Si imbarcarono su una scia luminosa che attraversò il cielo come un lampo che squarcia le tenebre, preludio di un cambiamento in arrivo. Durante il viaggio, il calore del sole sciolse le impronte dei ricordi fissati sulle tavolette e la cera cadde informe e si disperse per l’aere. Indelebili erano rimaste le tracce della loro arte che continuò a viaggiare con loro.
Le anime, ignare del fatto che i loro ricordi non erano più impressi sulle tavolette, non si preoccuparono di avere perso qualcosa di cui avere memoria. Avvertirono solo una strana leggerezza.
Socrate – Diciamo allora che questo è dono di Mnemosine, la madre delle Muse, e che in esso, ponendolo sotto le nostre percezioni e i nostri pensieri, come se vi imprimessimo impronte di sigilli, imprimiamo ciò che vogliamo ricordare fra le cose che vediamo, udiamo o pensiamo. Di ciò che viene impresso abbiamo memoria e scienza, finchè ne permanga l’immagine; ciò che viene cancellato o che non è possibile imprimere, invece, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza.
Platone, Teeteto, 191d
Arrivate al centro di una galassia lontana, la meraviglia li investì di luci, suoni e movimenti mai conosciuti prima. Quanto era immenso quel mondo? Dove finiva quel brillare di stelle?
L’ infinito le accolse e naturale fu per loro dare inizio alla loro missione.
Un pennello si allungò per far risaltare il giallo e l’arancio di stelle vicine; l’ indaco e il blu cobalto definirono i contorni dei pianeti lontani; uno spruzzo di viola e di fuxia si disperse tra il bianco splendente di pulviscolo stellare.
Parole furono appese alle stelle e parole viaggiavano tra la luce per comporre poesie e recitare le rime di un racconto incantato mentre tutto danzava.
Do, re, mi/ mi, sol, fa/si, la, do. L’ anima della musica catturava le note, librandosi su quel grande spartito di aria leggera.
Un messaggio cominciò a fissarsi su ognuna delle tavolette di cera delle anime della galassia lontana:
Ricordate le cose più belle, sono loro a generare stupore, armonia e altra bellezza. Fate in modo che la massa di cera della vostra anima non si debba mai sporcare e mai indurire.
La stella che aveva portato le anime belle nella galassia lontana, tornò indietro e, arrivata su una nuvola che guardava la Terra, lanciò il messaggio come pioggia che cade su un campo di grano dorato.
Non aveva scelto lui di vivere per sempre impigliato tra la rete metallica di una finestra. C’era finito un giorno mentre inseguiva un piccolo moscerino che così come era entrato tra le maglie della rete, così ne era uscito. Lui, invece, correndo veloce all’inseguimento, finì per inciampare e una zampina gli rimase impigliata tra quelle maglie, costringendolo a rimanere in quell’angolo dove non arrivava nessuno se non l’odore dei limoni dell’albero che viveva di fronte alla finestra, il vento rumoroso e vivace, la luce del giorno e il bagliore argenteo della luna. Faceva parte di una famiglia di gechi che abitava tranquilla tra le pareti di un’antica casetta. C’era papà geco, grosso e severo; mamma geco, sempre indaffarata; e tanti gechini che scorrazzavano tra quelle mura dove non mancava certo da mangiare: zanzare, farfalline e moscerini, ottimi in qualsiasi momento della giornata. Bloccato in quella rete, pensò a quanto si era divertito fino ad allora. Ricordò quella volta quando aveva deciso di dare la caccia a un coleottero che si era fermato in prossimità di una luce a neon che brillava ignara di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco sulle pareti della casa dei gechi. Quatto, quatto s’era avvicinato all’ insetto che se ne stava tranquillo a godersi la luce artificiale. Cercando di valutare le possibilità di attacco, aveva osservato a lungo la sua preda. Decise allora di avanzare lentamente, ma il coleottero lo vide e si spostò di qualche centimetro. Era un bell’ esemplare, grosso e robusto, ma al piccolo geco non gli era passato minimamente per la mente che si stava impegnando in un’impresa difficile: era fermamente convinto di potercela fare. Pensò di muoversi sfruttando l’effetto sorpresa: fece un giro largo e gli arrivò quasi vicino, così vicino che aprì la bocca per afferrarlo. Quello però si spostò ancora, dirigendosi verso il cornicione della porta. Missione fallita, bisognava escogitare un nuovo piano di attacco. Sempre lentamente, percorse la parete e si posizionò nei pressi del cornicione. Valutò con calma se attaccare dall’alto o dal basso, mentre il coleottero si godeva la sua tranquillità in quella notte così prodiga di luce: il neon, la luna… Il gechino approfittò di quel momento di estasi e raggiuntolo alle spalle aprì la bocca e lo afferrò. Eh sì, lo afferrò e basta, perché ingoiare quel “mostro” era proprio difficile. Per qualche secondo aveva creduto di avere vinto la sua battaglia, ma dovette accettare ben presto l’idea della sconfitta. Mollata la preda, si allontanò con le mandibole doloranti e il suo orgoglio ferito. Ma quanto era stato geniale, coraggioso, e quanto era stato divertente! Non gli sarebbero più capitate avventure del genere, né di altro tipo. La casa venne distrutta e la sua famiglia dovette trovare un altro posto dove stare. Qualcuno recuperò la finestra con la rete metallica e vide il gechino immobile e ormai rinsecchito. Provò tanta tenerezza e gli disegnò intorno tanta luce e fiori e ricordi e la sua sorte fu quella di non scomparire mai. Avrebbe fatto immaginare ad altri le sue imprese, mentre lui, in silenzio e immobile, avrebbe vissuto ancora, ma in maniera diversa.
Quando ero bambina c’erano tante cose che stuzzicavano la mia meraviglia. Di queste, molte rimanevano lì sempre pronte a sollecitare il mio desiderio di poesia, di magia, di ricerca di un mondo incantatore: il mare, il vento, il vociare festoso di mercati affollati. C’erano però alcune “cose” più intime, più chiacchierine a cui era dato poco tempo per raccontarsi. Apparivano, o meglio, facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza per poi sparire nel fondo dei loro cento anni senza dire più nulla. Avrò visto due o tre volte uno strumento da ricamo che mia madre custodiva gelosamente avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia della mamma, una zia monaca dal caratterino vivace. Mia madre era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo e attorno ai tanti fuselli ricamava la storia della zia, monaca non certo per devozione, e delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove mia madre cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose. Delle donne in clausura votate a Dio non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. La zia era tosta, una specie di monaca di Monza, ma aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro. La mamma ci consegnava, con il suo racconto, un mondo pieno di vita che si muoveva tra il dentro e il fuori dell’antico convento: cannoli profumati di ricotta, ragazze madri disperate, giochi di bambini, strade affollate da mercanti di ogni genere, ricami perfetti avvolti dal silenzio delle mura del convento. Finito il cunto, il tombolo veniva riavvolto nel lenzuolo di lino e riposto nel cassetto dal fondo di cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia.
Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi per sempre alle porte del cuore.
Di tanto in tanto mio padre prendeva una specie di fagotto nascosto su un alto scaffale, e lo apriva. Era un rito che si ripeteva a scadenze indefinite e con un pathos che coinvolgeva tutti noi in attesa di farci stupire dal misterioso involucro. Io ero la figlia maggiore. Questa cosa di essere la figlia maggiore è stata sempre una immane fatica. E’ stato come vivere due vite contemporaneamente: da una parte la bimba che cresceva e dall’altra la consigliera, la mediatrice, quella che riusciva a placare gli animi ogni qual volta scoppiava (nel vero senso della parola) una lite tra i miei genitori. Mia madre diceva spesso che non ero mai stata piccola perché il mio ruolo non me lo permetteva. Una volta dismesse le mie competenze pacificatrici, non ero più la “grande” ( cosa che pensavo mi desse qualche privilegio), dovevo stare attenta a non atteggiarmi a sapientona, pena l’isolamento, da cui neanche mia madre mi poteva salvare.
Ma torniamo al fagotto. Abracadabra…l’oro di famiglia. L’anello di fidanzamento di mamma, quello di papà, orologi, collane, collanine, anellini e poi…qualcosa uscita fuori da una storia antica di migrazione, amore, sofferenza, riscatto: un paio di occhiali da vista dalla montatura dorata, di metallo sottile, essenziale, con lenti rotonde di quelle che indossavano i maestri alteri di certi sceneggiati in bianco e nero. C’era anche una collana di pietre rosse, bigiotteria americana che raccontava di traversate sull’oceano, di una bimba cresciuta a New York e che, tornata al suo paese in Sicilia, si sposava, dava alla luce una nidiata di bambini e moriva qualche giorno prima di tornare in America. Io ero la grande e il mio nome fu il nome di quella nonna sfortunata, per segnare un ricordo, un dolore, una tenerezza negata. Abracadabra…il fagotto si richiudeva lasciandomi a vagare con la mente come una fata tra sogni belli e meno belli che mi avrebbero accompagnata per sempre, per ogni anno della mia vita.
Avevano ragione gli antichi filosofi, pensatori di un mondo fatto di contrari che si scontrano e si sviluppano in un eterno ritorno di rinnovata bellezza.
Una creatura che viveva tra i monti e il mare, si fermò una volta ad ascoltare un tale che diceva di chiamarsi Telestoria. Un tipo davvero particolare: andava in giro a chiedersi il perché e il per come di ogni cosa, scoprendo, qua e là nel mondo, ciò per cui valeva la pena soffermarsi e pensare.
-La vista è più importante tra tutti i sensi- diceva, e per questo aveva il vezzo di spiegare tutto per immagini.
La creatura ascoltava e, più rifletteva su quello che diceva Telestoria, più arricciava il naso. Pensava a quando chiudeva gli occhi davanti al mare in tempesta per meglio sentirne il rumore e assaporarne l’odore salmastro; a come, ascoltando il vento intonare le sue melodie e le sue marcie trionfali, si sentisse leggera e immaginava di volare. E poi, come le batteva forte il cuore quando le sue mani accarezzavano morbide lenzuola, soffici cuscini, tenere guance di bambini!
Telestoria si commosse e, distogliendo l’attenzione dai suoi studi e dai suoi ragionamenti, si rivolse alla creatura, rassicurandola.
-La vista abbraccia tutti i sensi e rende tutti importanti. Vedi una rosa, distingui il suo profumo, accarezzi i petali profumati, ascolti il fruscio delle foglie attraversate dal vento. Tutto ha un solo nome: meraviglia.-
Mediterraneo. Se si dovessero contare gli uomini che nei secoli l’hanno attraversato; le civiltà che si sono succedute nella conquista di sbocchi importanti su questo mare; se si dovessero contare le battaglie, le scorrerie piratesche e le navigazioni a scopo commerciale, bisognerebbe esprimersi attraverso una serie di numeri infiniti. Nella foto e nei versi di Dante il Mediterraneo, il mare non c’è. Eppure, la Basilica citata da Dante custodisce una storia che ha attraversato il Mediterraneo per approdare a Pavia. La storia riguarda un grande filosofo nato a Tagaste, in Algeria, nel 354 d.C. ed eletto vescovo di Ippona, sempre in Algeria, dopo essere stato battezzato da Ambrogio, vescovo di Milano. Sant’ Agostino, attraversò più volte il Mediterraneo. Insegnò retorica prima a Roma e poi a Milano dove seguì le prediche del vescovo Ambrogio che lo battezzò e lo ordinò sacerdote. Tornato a Roma, raggiunse Ostia per imbarcarsi, attraversare il Mediterraneo e raggiungere la sua terra. Divenuto vescovo di Ippona continuò la sua attività letteraria volta a combattere l’eresia manichea, oltre che allo studio del rapporto tra ragione e fede che il filosofo non vide mai in contrasto, ma anzi in perfetta armonia. Il suo capolavoro, le Confessioni, vedono la luce nel 400 e in quest’opera autobiografica, Agostino loda il Signore per averlo condotto verso la luce della Verità. Il vescovo di Ippona morì il 28 agosto del 430, mentre i Vandali di Genserico assediavano la città algerina. Per mettere in salvo le reliquie dall’assalto dei barbari, il corpo di Sant’Agostino fu trasportato fino a Cagliari, in Sardegna. Il Mediterraneo avrebbe ancora visto le spoglie del filosofo viaggiare sulle sue acque. Circa tre secoli più tardi, il pio re longobardo Liutprando prese a cuore le sorti delle sante reliquie e nel 722 offrì un’ingente somma di denaro per riscattare il corpo del Santo Padre Agostino che ancora una volta attraversa il mare da Cagliari a Genova. Liutprando, con il suo esercito, raggiunse le sacre reliquie a Savignone e, percorrendo la via del sale, le trasportò fino a Pavia, capitale del suo regno. Il Corpo di Sant’Agostino fu deposto nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove già riposavano i resti di un altro grande filosofo, Severino Boezio. Pavia continuò ad onorare il santo filosofo e nel XIV secolo si pensò di costruire, all’interno della Basilica, una magnifica Arca a Sant’ Agostino. Il pericolo non erano più i barbari, ma l’umidità: l’Arca avrebbe degnamente custodito le spoglie del Santo racchiudendole e proteggendole sontuosamente. La nuova “casa” del filosofo fu costruita in marmo di Carrara e su ogni lato furono scolpite scene della vita del Santo.
“-Il mare siamo noi…siamo noi…- e intanto il vento accompagnava la leggerezza di quel volo simile a quello dei petali di un bouganville che maestoso ornava case bianche e luminosi terrazzi.
La voce incalzava, voleva sapere.
-Dove andate? Che gioco è questo?-
-Ci aspetta…Ci aspetta la casetta dagli occhi di cielo!-
Quando arrivava la sera, la casa accoglieva le dodici lettere e le combinava in varia maniera perché formassero parole che descrivessero la vita, la gioia, il dolore. Così cominciava
Rosaria si era sposata e continuava a vivere con la sua famiglia a casa di suo padre. Una casa dove trovarono posto una lavatrice Candy, un televisore e una radio di ultima generazione per potere ascoltare buona musica. In un angolo riservato, dove a parlare era la scrittura, Rosaria custodiva la sua macchina da scrivere, una Lettera 22, un modello tra i meglio riusciti della Olivetti, fabbrica all’avanguardia nella messa a punto di macchine da scrivere. Lettera 22 divenne presto la confidente, l’amica a cui consegnare parole, pensieri, sentimenti, emozioni. Il ticchettio dei tasti battuti con la sicurezza di chi ha tante cose da raccontare, di chi in quei tasti consegna il battito dei cuori che non si rassegnano al silenzio, quel ticchettio rassicurava il sonno di Franco. Nulla sarebbe andato perduto, fino a quando avrebbe sentito arrivare dalla stanza accanto il suono della macchina da scrivere. Il tempo non aspetta nessuno e di tempo ne era trascorso tanto. Solo la scrittura avrebbe potuto fermarlo e fissarlo in pagine come foto, immagini che avevano il potere di far scorrere i giorni in senso contrario.
Rosaria aveva l’abitudine di uscire presto la mattina, per fare la spesa. Da qualche tempo i suoi orari erano cambiati. Il padre, ormai tanto avanti con l’età, aveva bisogno di essere accudito con più attenzione. Da qualche tempo respirava a fatica anche se continuava a raccontarle delle storie. Sembrava avere fretta.
-Papà, vado a comprare qualcosa e torno.-
Gli aveva dato un bacio sulla fronte ed era uscita. Quella mattina era uscita più tardi e sbrigò presto le sue commissioni. Non aveva tanto tempo di accorgersi della gente che circolava per le strade. In un attimo si sentì come destata dal suo impegno quotidiano. Si fermò a guardare qualcuno. Aveva avuto l’impressione di avere visto nei pressi della fontana una donna ed era sicura che si trattava di Nunzia, la bimba che era andata a studiare a Palermo. Voleva avvicinarsi, parlarle. La donna si era voltata, aveva ignorato il suo sguardo come per allontanare da sé ogni traccia di passato. Rosaria aveva capito, aveva rispettato quel comportamento e non provò a chiamarla. Ricominciò il suo giro e si affrettò a tornare a casa con le sue buste della spesa. Aveva poggiato tutto per terra, come era solita fare. Si era tolta la giacca, si era lavata le mani ed era entrata nella camera di suo padre.
-Papà sono tornata.-
L’uomo non rispose. Aveva le spalle ben coperte dalle lenzuola e giaceva appoggiato sul braccio sinistro. Giaceva, senza voce e senza respiro. Rosaria si avvicinò, gli prese una mano e intanto lo guardava. Non riusciva a pensare a niente, per qualche minuto rimase immobile davanti a quel corpo inerme. Poi chiamò suo marito, prese il telefono e informò suo fratello. Si ritirò nella stanza di Lettera 22, raccolse gli appunti e le fotografie e preparò il suo lavoro.
Tic, tic. Uno dopo l’altro…
Quando una stella muore, muore per implosione e libera luce. Quando un uomo muore, si spegne la luce della vita e si accende quella del ricordo.
Ringrazio Luisa Zambrotta per avermi invitata a partecipare al DECENNIO DI AVVICINAMENTO DELLE CULTURE- Esposizione internazionale virtuale. Pubblicherò dieci poesie, una al giorno, per dieci giorni.
4° giorno
Un’antica filastrocca
C’è qualcosa nella mente
che mi frulla stamattina.
E’ un’antica filastrocca
strampalata,
certo sì,
ma gioiosa e contagiosa
e che fa proprio così:
Pizzica pizzica maestrina
la paletta e la regina
la regina e la spagnola
tirituppete e nesci fora (esce fuori)
fora quaranta
tuttu lu munnu canta
canta lu iaddu (gallo)
affacciatu alla finestra
cu tri palummi ‘n testa (con tre colombe in testa).
Quante conchiglie possiamo contare sulla battigia di una spiaggia assolata? Cento, mille, un milione, infinite. Per contarle non bastano certo le dita delle mani, primo strumento di misurazione discreta per cui ad ogni numero è possibile associare una realtà specifica. Se poi volessimo essere così cervellotici da chiederci quanti granelli di sabbia abitano il nostro lembo di riva, ci imbatteremmo nel dilemma più grande che ha interessato le più eccelse menti matematiche di tutti i tempi.
Ci sono alcuni, o Gerone, che ritengono i granelli di sabbia essere una moltitudine infinita…
Archimede, L’ARENARIO
Per i matematici antichi l’infinito era un concetto difficile da spiegare, anzi era un concetto che descriveva qualcosa di incompleto, addirittura associato al male. Archimede ( Siracusa, 287 a. C.-Siracusa 212 a. C. ), grande matematico dell’antichità, pensò che l’infinitamente grande, opposto all’infinitamente piccolo, potesse essere contato usando, come unità di misura, la MIRIADE. Nell’ Arenario, trattato che Archimede dedicò a Gerone, tiranno di Siracusa, il pensatore siracusano, valutando la grandezza di un granello di sabbia, immaginò che 10.000 granelli di sabbia potessero essere contenuti in una sfera della grandezza di un seme di papavero. Partendo da questo seme e proseguendo nel considerare volumi e sfere sempre più grandi, arrivò a considerare la sfera del cosmo (cioè la sfera avente per raggio la distanza Terra-Sole, secondo i calcoli di allora) e la sfera delle stelle fisse. Dopo aver fatto tutti i calcoli, Archimede provò che il numero dei granelli di sabbia contenuti nel cosmo erano una miriade di miriade della miriade-miriadesima riga della miriade-miriadesima colonna di una gigantesca tabella. Archimede si cimentava, per la prima volta nella storia della matematica, nel calcolo di misure infinitamente grandi.
Ma quanto è grande l’infinito? Sicuro grande più del mare. E’ l’immensità dove annega il pensiero; è la porta attraverso cui passano tutte le intelligenze possibili; è lo spazio dove si liberano i sogni; è il mondo, la casa di ogni mente che guarda sempre oltre una siepe.
Oggi mio padre avrebbe compiuto 90 anni e ne sarebbe stato orgoglioso: la vita per lui era una bellissima avventura, tutta da sperimentare, giorno dopo giorno, momento per momento, nonostante le difficoltà, gli acciacchi dell’età, le amarezze e le delusioni. Era sempre lì, pronto a combattere per guardare sempre al futuro, per progettare una vita che duri per sempre. Per realizzare questo progetto raccontava storie perché nulla mai fosse dimenticato. Sapeva che la memoria era il porto a cui approdare per poter vivere a lungo. Ripropongo oggi uno dei racconti che scrissi poco dopo la sua scomparsa: c’era un progetto nel suo paese natale, quello di ricordare le persone che si erano distinti per intelligenza e tenacia. Mi consegnò tante foto e ricordi, ma non fece in tempo a leggere quello che avevo scritto per lui.
ARRIVO’ A LUCI!
In Sicilia, nei pressi della rotabile da cui si dividono le strade per Geraci, Isnello e Castelbuono, vicino il santuario di San Guglielmo, operava una vetreria di proprietà dei Ventimiglia che, nel ‘300, erano principi di un vasto territorio che dalle montagne delle Madonie si estendeva fino alle verdi valli che si affacciavano al mare di Cefalù. Qui, alberi di frassini, corteggiati dal vento e, secondo una leggenda contadina, amanti della musica, offrivano cannoli di manna, linfa dolce, bianca e consistente come stalattite di ghiaccio. Dell’antica vitrera, rimane ben poco: una ciminiera e parte dei muri perimetrali, quanto basta per indicare come quartiere vitrera o largo vitrera la zona dove i resti dell’ antica fabbrica raccontano ancora la loro storia.
Prima della seconda guerra mondiale, nel quartiere Vitrera il Comune di Castelbuono fece costruire una centrale elettrica. In paese arrivò quindi un grosso motore Graz[1]a tre cilindri con un volano enorme, tanto grande che fu necessario scavare il pavimento dell’edificio che avrebbe ospitato la nuova centrale elettrica. Dentro la buca fu inserito il volano[2], fornito di grosse cinghie. Il motore, dotato di altrettanti grossi pistoni e bielle, veniva azionato facendo girare le cinghie a mano mentre delle bombole caricate di aria da un compressore, soffiavano forte per avviarlo. Per sollevare i pistoni e le bielle era necessario un parangolo a catena e bisognava lubrificare spesso le cinghie per rendere più agevole l’avviamento del motore che, a quel tempo, serviva a illuminare le case solo dopo il tramonto e per poche ore. A vicinedda di mastru Iachinu u scarparu, lavorava presso un piccolo ufficio postale dove i paesani pagavano il servizio elettrico, vero miracolo per la gente che poteva usufruire ancora di un po’ di luce, artificiale, per completare le loro faccende domestiche.
Arrivò la guerra e fu vietato accendere le luci la sera, anzi bisognava barricarsi dentro le case al buio perché il paese non venisse intercettato dai ricognitori nemici. Castelbuono venne presto occupato dai tedeschi e quando, nell’estate del 1943, gli americani sbarcarono in Sicilia, i soldati germanici costrinsero quelli italiani a scavare trincee e montare mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello del paese madonita. Il 22 luglio di quell’anno si diffuse la notizia che un aereo tedesco era caduto nelle campagne e che da Isnello si avvicinava una colonna americana di carrarmati, percorrendo la stradale di ponente. I tedeschi fecero saltare allora dei ponti tra cui quello della Nucidda e quello della Fiumara. Proprio qui, all’indomani della fine della guerra, il signor Giovanni Mancuso, responsabile della centrale elettrica del paese, decise di recuperare un carrarmato abbandonato sotto quel ponte. La guerra aveva impoverito le casse comunali e non si potevano chiedere soldi per potenziare il motore della centrale con la costruzione di nuovi gruppi elettrici. Il motore di quel carrarmato poteva essere la soluzione alla necessità di rafforzare il motore già esistente. Un mezzo funesto, che aveva suscitato timore tra la gente, diventava la soluzione per creare un vantaggio grazie alla genialità di un uomo. Un po’ come Perseo che uccide la Medusa, mostro terribile, e porta con sé la testa che produrrà bellezza.
Trasportato a Vitrera, venne costruito un casotto, un alloggio per ospitare il mezzo armato che non aveva motore di avviamento. Si decise di collegare un alternatore al motore del carrarmato in parallelo con il motore Graz, già esistente. L’alternatore girava, avviava i motori e, quando si arrivava alla tensione elettrica giusta, arrivava la luce in paese!
-Vinni a luci! C’è a luci!-
Gli operai facevano turni giorno e notte, a due a due, e altri si mantenevano in stato di reperibilità nel caso ci fossero stati dei problemi. La luce doveva arrivare e i paesani l’aspettavano come un vicineddu che dalla campagna bussava alla porta la sera.
Il paese poté godere quindi della luce e si poterono intensificare le luminarie durante i festeggiamenti dedicati alla madre Sant’Anna.
-Ma dove sono Natalino e gli altri? Era il loro turno in centrale oggi?-
In occasione della festa in onore della patrona, culminante nei giorni 25-26-27 luglio, i turni in centrale si intensificavano: le luminarie, le chiese avevano bisogno di tanta luce e per più tempo. Il sindaco, allora, non vedendo gli operai tra la folla, faceva preparare un fagotto con biscotti e bibite per i ragazzi della centrale elettrica di Castelbuono.
-E’ festa anche per noi che siamo qua!- e i motori continuavano a girare più forte per Madre Sant’Anna.
C’era un altro appuntamento importante che il capocentrale e i suoi operai volevano seguire, nonostante i turni di lavoro.
-Natalino, vai a Palermo. Servono dei pezzi per completare le radioline a transistor. Altrimenti come facciamo a sapere cosa succede alla Targa Florio?-
Il signor Mancuso era un appassionato della corsa automobilistica che percorreva le strade strette e tortuose delle Madonie, attraversando i comuni di Cerda, Caltavuturo, Petralia, Geraci, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice in un circuito che vedeva frecciare le migliori auto da corsa dell’epoca. Decise quindi di montare delle radioline a transistor, lì in centrale, insieme ai suoi operai, durante le pause lavorative, per ascoltare tutti insieme i momenti più emozionanti di quella gara automobilistica che infiammava i cuori e che solo la guerra aveva fermato.
Intanto, il Comune di Castelbuono, provato dalla guerra, ebbe difficoltà a sostenere le spese per l’erogazione della luce elettrica. L’incarico della gestione della centrale fu affidato ad un ingegnere, coadiuvato da Mastru Ciccio Gliommaro e i suoi operai, tra cui il giovane Natalino, Campo Natale, mio padre. La centrale passò quindi alla SIMA, Società Idroelettrica delle Madonie, nome, come mi diceva papà, sbagliato perché la centrale di Castelbuono non era una centrale idroelettrica, ma, probabilmente, la società abbracciava un progetto di una centrale idroelettrica a Petralia Sottana. L’ingegnere lasciò presto la gestione della centrale e, verso la metà degli anni ’50, a bordo di una FIAT 1100 ESCORT, arrivava a Castelbuono un omone: alto, fiero e deciso, uno di quelli che sapeva il fatto suo. Era l’ingegnere Campagna, della Società Elettrica della Sicilia o Ente Siciliano di Elettricità, che impiantò in centrale un motore FIAT 4 cilindri con un grosso alternatore Bivona. Il nuovo motore dava tanti problemi, non riusciva a coprire le esigenze del paese e quando c’era un sovraccarico di tensione, le marmitte e il tubo di scarico si surriscaldavano a tal punto che prendevano a fuoco. Il capotecnico, pensando che questo problema poteva essere risolto con un uso ridotto della corrente elettrica, andava casa per casa a controllarne il consumo domestico. Apriti cielo! La zia Rosa, come anche altri, si infastidirono parecchio di questa nuova invasione.
-A casa mia! Mi dici quantu luci a’ cunsumari!-
(-A casa mia! Mi dice quanta luce devo consumare!-)
Fatto sta che, tra lo scontento della gente e il cattivo funzionamento del nuovo motore, l’ingegnere Campagna fece arrivare un nuovo motore più potente, un Ansaldo a 7 cilindri, della sezione Grandi Motori FIAT, e due gruppi elettrici posti fuori dall’edificio della centrale che facevano un gran rumore e scaricavano fumi fastidiosi e maleodoranti. Neanche questa sembrava la soluzione giusta.
-Pari ca c’è a guerra a centrali!-
(-Sembra che c’è la guerra in centrale-)
La gente si lamentava tanto. Si pensò quindi all’alta tensione con un trasformatore collegato a barre di rame. I motori furono spenti e quando era necessario incrementare la distribuzione di energia elettrica, si azionava un motore a gas con alternatore che si trovava presso la fabbrica della mannite[3] in via Geraci. Questa soluzione alla distribuzione della luce elettrica a Castelbuono non dovette soddisfare né la gente, né gli ingegneri impegnati nell’installazione di motori, gruppi elettrici e cavi.
Nel 1959 la centrale elettrica del quartiere Vitrera, fu chiusa e divenne cabina elettrica con trasformatore a corrente alternata.
Fu in quell’anno che l’operaio specializzato Natalino Campo accettò di imbarcarsi per un’altra avventura: l’ingegnere Campagna gli propose l’installazione di una centrale elettrica a Salina, nelle isole Eolie, dove il suo estro, la sua passione per la “luce” continuò a distinguersi.[4]
[1] Motore Graz- motore austriaco. Il Politecnico di Graz, accademia specializzata nel settore tecnologico-scientifico e fondata nel 1811 dall’arciduca Giovanni d’Austria, dal 1879 al 1880 ebbe come suo studente Nikola Tesla, inventore del motore a corrente alternata.
[2] Volano- organo meccanico che serve a regolare il moto rotatorio dell’albero motore.
[3] Mannite- zucchero, monosaccaride derivato dalla lavorazione della manna.