Credevo, cuore mio, che avere cura di ciò che ti è più vicino, che amare i luoghi, l’aria, le acque dove ti è toccato nascere e crescere, credere fortemente nella conservazione dei valori, delle tradizioni della propria terra, potesse contribuire alla bellezza della diversità di ogni territorio, di ogni popolo, di ogni uomo. Potesse, come dire, alimentare la gioia nell’ incontrare l’altro e donare e ricevere per arricchirsi, per essere grati. Forse è così, cuore mio, o forse no. Intanto fammi strada, aiutami a raccontare.
VIA DA CIBALI
Era successo di nuovo. Ancora una volta aveva litigato con suo padre che lo aveva trascinato fuori, nel balcone di casa, gridandogli dietro tutta la sua rabbia.
-Hai bisogno di aria? Ecco qua. Accontentato! Puoi goderti tutta l’aria che vuoi, per tutta la notte.-
Aveva chiuso quindi le imposte con un giro di chiavi, continuando a blaterare e minacciare la moglie di non azzardarsi ad aprire quel balcone. Poi il silenzio. Ancora una volta la sua intraprendenza, il suo entusiasmo erano stati puniti, ancora una volta doveva subire l’umiliazione di dovere tacere e sopportare l’aggressione di quel padre pazzo, fuori di testa.
-Mimmuzzu, di nuovo là sei?-
-Chi cumminasti?-
Sentiva la gente del quartiere discorrere di quel padre eccessivamente severo e burbero in casa, che però aveva amici con i quali scherzava e beveva al bar. Ascoltava i commenti e avvertiva la commiserazione di chi si accorgeva di lui, costretto a passare la notte con la testa bassa dalla vergogna. Lui non era stato fortunato come il suo amico Peppe u siccu, che quando litigava con il padre si andava a rifugiare nella stalla di don Alfonso, il proprietario della bellissima villa che dominava la borgata di Cibali. Ianu, lo stalliere, quando vedeva il suo piccolo amico in difficoltà, con una scusa qualsiasi lo chiamava e si inventava qualche servizio per il suo figlioccio.
-Vieni, Pippuzzu! Dormi qua stasera, se no tuo padre ti fa la festa e domani ti svegli tutto rotto.-
Mimmuzzu poteva contare solo sull’ aiuto della Madonnina del Conforto, che, con occhi pietosi, lo guardava dalla sua cappelletta, che si trovava proprio all’angolo della stradina che si allungava dietro casa sua, e sembrava intercedere presso il Padre Eterno per toglierlo presto da quella situazione. Un vecchietto gli aveva detto che era chiamata anche Madonna del pane cotto, chissà perché poi! Forse perché il pane cotto era il conforto della povera gente che pativa la fame, e lui aveva tanta fame!
Faceva caldo e si sentiva l’odore che arrivava da una delle fornaci dove ancora si lavorava l’argilla.
Un gruppo di uomini in un angolo di piazza Bonadies aveva sistemato delle sedie sgangherate per giocare a carte.
-Tira! Vieni tu! Stonato, ma a chi pensi? Gioca!- gridava uno con una canottiera dai bordi logori e gialli di sudore. Lo “stonato”, un vecchietto magro, dai capelli radi, grigi di polvere oltre che di vecchiezza, dimostrava, con un sorriso dimesso, gratitudine a quell’omone che, nonostante la sua “stonataggine”, lo spronava e gli altri giocatori si accorgevano di lui.
-Mastru ‘Iachino, si fattu vecchiu!- e risate accompagnavano pacche sulle spalle che destabilizzavano la figura esile, mentre sul viso si apriva un sorriso menomato di incisivi e molari.
Le donne stavano davanti le porte delle loro case a godersi l’aria fresca della sera, chiacchierando con le vicine sulla biancheria che avevano lavato quella giornata e di quanti fili avevano legato ai rami degli alberi, per stendere i panni e farli asciugare presto. Spesso la piazza si riempiva di lenzuola, tovaglie, calze e pigiami svolazzanti al vento che dalla Montagna scendeva allegro, animando quei tessuti che, se avessero avuto una voce, avrebbero raccontato di quanto erano stati strapazzati nell’acqua del lavatoio. A Cibali tutte le donne, o quasi, erano lavandaie e la piazza era circondata dalle loro piccole case abitate da sei, sette, dieci familiari: padre, madre, nonno, nonna, bambini che nelle sere d’estate si sparpagliavano lungo il piazzale, spandendo per l’aria afosa forti risate o grida di stizza. C’era stato un funerale quella mattina e le donne avevano un gran parlare. Era morto una specie di mafioso. No di quelli veri. Uno che era nel giro di chi si sporca le mani e l’anima per i boss che impiegano il loro tempo a studiare strategie di morte e potere. Il corteo funebre si era fermato in tutti i posti abituali frequentati in vita dall’estinto. Prima tappa, davanti il cancello del lavatoio dove andava a prendere la madre che lavava i panni di un barone di Ognina. Si fermava poi davanti al panificio, al bar e ogni volta si lanciavano fiori a segnare il passaggio e una voce si levava affannata:
-Ah, il fratello mio! Quanto era rispettato!-
Gli avevano sparato un colpo alla testa il giorno prima. Si diceva che aveva messo gli occhi addosso a una donna maritata e se l’era portata a letto.
Quella notte l’Etna tuonava e tirava lapilli e cenere rossa, segnava col fuoco il cratere maggiore e lingue di lava scendevano lente sui fianchi della Montagna. Mimmuzzu ne aveva sentite tante di storie sul vulcano. La gente raccontava di un’ eruzione così violenta che era arrivata fino a Ognina, fino al porticciolo, e la lava aveva coperto strade e quartieri, anche quello da cui provenivano quelli che poi avevano popolato quel borgo.
-Se non era per il vescovo, morivamo tutti o di fame o bruciati-
La piazza su cui sporgeva il balcone dove il ragazzo scontava la sua punizione, era intitolata al vescovo Michelangelo Bonadies, grande benefattore che i cantastorie ricordavano con i loro cartelloni e con la loro musica.
-Scinnia ‘nfuocato u ciumi da Muntagna
E botti e terra niura sputava di li cianchi.[i]
I cantastorie raccontavano di quando, nel 1699, l’apertura dei crateri sui Monti Rossi aveva scatenato una terribile eruzione che aveva colpito Misterbianco, comune alle porte di Catania, coprendo il fiume Amenano che lo attraversava e distruggendo il monastero dei monaci che indossavano il saio bianco. I profughi, aiutati dal sacerdote Giuseppe Leucatia, dal Protomedico Conte Nicolò Tezzano e dal canonico Martino Cilestri, furono ospitati in parte dal vescovo nel palazzo episcopale. Trovarono poi rifugio nella collina di Cìfuli, secondo il detto catanese, dove era facile arrivare e dove l’acqua non mancava e dove il buon vescovo pensò di fare sistemare quella gente a cui il vulcano aveva rubato tutto. Avevano lasciato le case, fuggendo dal fuoco e portando con loro, in processione, il quadro della loro amatissima Patrona, la Madonna delle Grazie che divenne la Patrona della collina di Cìfuli.
A ottobre ci sarebbe stata la festa in onore della Madonna e a Mimmuzzu piaceva andare in giro con gli amici e ascoltare le storie degli anziani. C’era don Saru, il barbiere che si sganasciava dalle risate per le barzellette che sentiva raccontare nel suo salone e che provava una certa soddisfazione a recitare la sera in piazza mentre i suoi compari lo ascoltavano attenti e divertiti; c’era don Bastianu, ‘u stazzunaru, che si vantava della maestria che aveva nel lavorare l’argilla, e che sognava per il figlio un futuro a Santo Stefano di Camastra dove, lui c’era stato, con l’argilla si facevano cose meravigliose: statuette, vasi e canestri colorati, e poi mattonelle di arte fina per le case dei signori. E poi c’era Cicciu ‘u siccu, un ragazzino lungo e secco che con una scatola appesa al collo vendeva bomboloni e cannellini per tutti i gusti.
Quella sera Mimmo era troppo arrabbiato, offeso e pensava che il vulcano gli stesse parlando, gli stesse dicendo di tirare fuori quella rabbia che gli bolliva dentro e finalmente trovare il coraggio di scappare. Aveva fatto tardi, certo. Con un gruppo di amici era stato a Ognina, dove dei pescatori stavano preparando la barca per andare a pescare. Riparavano le reti e intanto guardavano la Montagna
-Oggi non si esce- sentenziava uno di loro- u mari vugghi!-
– Che significa?-
-Bolle, bolle! Che fa, non capisci il catanese?-
Tutti risero, anche lui, Mimmuzzu, che comunque continuava a non capire.
-Quando l’Etna lancia fuoco e fiamme, il mare di sotto si agita perché arrivano le correnti.-
Si era fatto tardi, quella sera avrebbe dormito sul pavimento del balcone. Dalla piazza arrivavano le voci delle donne che cominciavano a entrare le sedie in casa e, salutandosi tra loro, chiudevano le imposte e andavano a dormire, insieme ai bambini e agli anziani, in quella camera affollata di letti dove una scorreggia del nonno sviluppava risa o indignazione, ma poi ci si girava di fianco e si dormiva con la pace di tutti.
Gli uomini ancora resistevano al sonno: alcuni, ubriachi di vino a buon mercato che avevano comprato alla bottega di fronte la fontana, si erano abbandonati al torpore dell’alcol e della notte e, allungatisi sulle panche della piazza, avrebbero trascorso lì tutta la notte. Altri, accompagnavano mastru ‘Iachinu a casa, per poi ritirarsi anche loro. Era calato il silenzio sulla piazza, si sentiva solo il vulcano.
-Mimmo, ho preso le chiavi-
La voce di sua sorella attraversò il buio, lo raggiunse.
-Sei pazza! Ti ammazzerà di botte!-
-Zitto, non parlare!-
Cettina aprì il balcone e accompagnò suo fratello alla porta e lo abbracciò.
-Ora vattene! Scappa via da qui! E’ quasi l’alba e fra un po’ nostro padre si sveglia e inizia l’inferno. Tieni, ho preso anche questi soldi. Vai via!-
-Tu sei davvero pazza! Dove vado?-
-Hai tanti amici. Vai verso il mare, vai a Ognina dai tuoi amici pescatori. Scappa!-
Era estate e lei sarebbe partita presto quella mattina per andare a trovare la nonna a Palermo. Lo vide uscire e poi correre giù, per via Cifali. Si mise subito a letto e, dopo qualche ora, la madre chiamò lei e la sorella più piccola per accompagnarle alla stazione ferroviaria.
[i] Scendeva infuocato il fiume della Montagna/e botti e terra nera sputava dai fianchi