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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

amareilmare

Archivi tag: Etna

Luce

30 sabato Apr 2022

Posted by paolina campo in pensieri

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Tag

Catania, Etna, Sicilia

Cerco,

tra le mille luci della città,

la risposta

alle mie paure,

alla mia solitudine.

Cerco,

il motivo delle mie convinzioni,

il perché

certe cose,

ai miei occhi,

sono di una bellezza sconvolgente,

da curare.

Perché

il desiderio di abbracciare con forza

ciò che mi appartiene

è così radicato in me,

tanto da farmi male?

E mi sento piccola,

un puntino

perso in questo angolo di universo

che ho tanto amato

e che tanto amo ancora.

Tifeo

22 martedì Feb 2022

Posted by paolina campo in Etna

≈ 4 commenti

Tag

eruzioni, Etna

Dal cielo arrivarono gli angeli

a placare la rabbia

del gigante imprigionato

nelle viscere del vulcano.

La sua arroganza era stata punita e

dalla sua bocca

altro non potevano uscire che

fuoco, fiamme e dolore.

Mai sarebbe stato un dio

Mai più avrebbe potuto

Innalzare montagne per

Raggiungere il cielo.

Il destino lo volle

Sotterra con l’ unico sollievo

Che arrivava fugace

Dalle nuvole,

Dagli angeli eterei.

Abitudine alla bellezza

18 giovedì Mar 2021

Posted by paolina campo in Etna

≈ 2 commenti

Tag

eruzioni, Etna, vulcano

Chi vive alle pendici del vulcano Etna si abitua alla bellezza, alla grandiosità degli eventi sismici, alla voce potente della Montagna. La Montagna si spacca, tuona, lancia lapilli, si fa sentire. Esiste, si manifesta. La gente l’ammira e coltiva un profondo rispetto per Lei. L’Etna è femmina, madre che scuote le coscienze, dona terra rigogliosa, regala miti e leggende. E’ femmina riugghiusa, tempestosa e ribelle; è il suo modo di essere e la gente lo sa.

I racconti della Montagna(2)

07 giovedì Gen 2021

Posted by paolina campo in Etna, vulcano

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Cerere, Etna, Miti e leggende, Proserpina

L’Etna vista da me. Dietro la cupola bianca i Monti Rossi, due coni piroclastici formati in seguito all’eruzione del 1669

Gli antichi, i nostri avi, tra questi i greci che nella Sicilia orientale fondarono la Magna Grecia, vedevano nel grande vulcano l’immagine dell’antitesi tra morte e vita, per cui l’eccezionale fertilità della terra veniva attribuita alla cenere e alla lava distruttrici. Secondo la tradizione, sulle pendici dell’Etna, Aristeo, figlio di Deucalione, inventò la vigna; Empedocle, per soddisfare la sua curiosità scientifica, volle osservare troppo da vicino il vulcano e fu inghiottito dal cratere che ne restituì solo un sandalo; dentro le sue viscere, i Ciclopi lavoravano nelle fucine ardenti di Efesto. Antiche storie attraversano la Montagna, spesso miti, che si intrecciano con la natura dirompente del vulcano. Si può quindi immaginare di scorgere tra i boschi dell’ Etna una madre, Cerere, che vaga sconvolta tra le campagne pedemontane. Accende una torcia nel cratere del vulcano per meglio illuminare i luoghi dove Proserpina, sua figlia, è stata rapita dal tenebroso Plutone. Il mito racconta che il re degli abissi tornava da una spedizione alla triplice base su cui poggiava la Sicilia. Vide Proserpina intenta a raccogliere dei fiori, se ne innamorò e la rapì. Cerere vagò per tutta la regione etnea alla ricerca della figlia. Mentre procedeva per i prati dell’Etna, si sentì infastidita dal rumore caratteristico delle silique struscianti del lupino, un rumore che aumentava al suo passaggio. Pensò che la pianta si prendesse gioco del suo dolore e la maledisse: “Possa tu provare la mia amarezza!”. Da quel momento il lupino dell’Etna divenne amaro. La dea, tramite l’intercessione di Giove, ottenne di vedere la figlia solo per cinque mesi l’anno. Plutone, infatti, prima di permettere a Proserpina di tornare sulla Terra, le fece mangiare dei chicchi di melograno: tanti chicchi mangiati dall’ignara fanciulla, tanti i mesi da trascorrere accanto al tenebroso marito. Secondo gli antichi, la natura, da allora, partecipa della gioia di Cerere che riabbraccia la figlia, regalando ogni anno la primavera che risveglia la natura e fa fiorire i germogli.

Le acconciature della Montagna

04 lunedì Gen 2021

Posted by paolina campo in Etna, Sicilia

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Etna, racconti, Sicilia

https://amareilmare.wordpress.com/2016/01/24/le-acconciature-della-montagna/

Il nido di Dio

28 lunedì Dic 2020

Posted by paolina campo in Etna, Natale, pensieri, poesia

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Etna, Natale, nido, sogni

Si sentiva forte il vento.

Qualcosa cambiava, doveva cambiare.

Ognuno nel proprio guscio,

accennava un sorriso,

riflesso, strano a dirsi,

di una certa serenita` del cuore.

Non bisognava affannarsi,

tutto era a portata di mano.

Tutto era vicino,

come mai avremmo pensato.

Il vento soffiava forte

e noi lo ascoltavamo.

Parlava,

mentre il sole

dipingeva il mondo

di un nuovo giorno.

E Dio,

che mai s’era scordato di noi,

lancio` un nido pieno di sogni

di cui bisognava

aver cura.

Per sempre.

Un Brucaliffo sull’Etna

29 mercoledì Lug 2020

Posted by paolina campo in Etna

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Brucaliffo, Etna, ricordi invernali

Era dicembre e aveva nevicato copiosamente per due giorni. Zafferana s’era vestita di bianco e la sera si lasciava attraversare da un magico silenzio. L’Etna si svegliava al mattino con il suo candido mantello, puntellato qua e là da macchie scure di roccia vulcanica che facevano capolino per guardare il cielo. Qualche nuvola si adagiava in cima alla Muntagna, lasciandosi attraversare da sporadici sbuffi di fumo grigio che usciva a sorpresa dal cratere centrale. Era, pensava Cettina, come se un Brucaliffo si fosse accomodato sul bordo del cratere invece che su un fungo e, fumando il suo narghilè, lanciasse palle di fumo per invitare incaute visitatrici ad andarsene. Aveva letto il romanzo di Luis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, e tra tutti i personaggi che l’avevano divertita, incuriosita e l’avevano fermata per riflettere su atteggiamenti e situazioni vere, riscontrabili nella vita di ogni giorno, tra il Bianconiglio, il Cappellaio Matto, lo Stregatto e altri, uno le era sembrato proprio particolare, il Brucaliffo, un bruco che si dava tante arie ma che mai sarebbe diventato farfalla. Guardando gli sbuffi grigi dell’Etna, Cettina lo immaginava lì, tra il fuoco e il fumo, ad arrostire la sua vanità.

Fammi strada-Drappeggi invisibili (9)

18 giovedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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capitolo nono, Etna, festa in piazza, Leopardi, Operette Morali, piazza Bonadies

“Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripiglitevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. Giacomo Leopardi, OPERETTE MORALI- CANTICO DEL GALLO SILVESTRE, OscarMondadori, Milano, 1988, pag. 202

DRAPPEGGI INVISIBILI

-Forza Nunzia! Spicciati! Pari ca dommi sta carusa![i]–

Il battesimo della bimba di Rosaria aveva portato tanta allegria tra la gente di piazza Bonadies. Lì tutti si conoscevano e tutti erano stati invitati, anche il prete che aveva celebrato la messa, un uomo alto e di bell’aspetto.

-Padre Iano s’avvicinassi! Brindiamo insieme!-

Padre Iano, Sebastiano, oltre a essere un bell’uomo, era anche simpatico e intelligente e amava stare insieme ai suoi parrocchiani. Il catechismo si trasformava in momento di svago per i bambini: le preghiere, ma anche il gioco del fazzoletto, la pittura e la musica. Le donne erano impegnate in attività manuali, ricamo, uncinetto, per allestire mercatini e, nei periodi di festa, organizzavano sagre di dolci in un tripudio di crispelle, torte, biscotti. Gli uomini pensavano a sistemare le panche ormai vecchie e barcollanti, sostituivano lampadine e montavano palchetti per il coro in occasione di eventi importanti. Era, la comunità parrocchiale di Padre Iano, una comunità coesa, vivace e sempre partecipe. Ma…Padre Iano era un bell’uomo e la sua perpetua, una giovane donna che aveva deciso di dedicare la sua vita alla cura della sacrestia e del parroco, venne presto indicata con l’appellativo de a mugghieri do parrinu[ii]. Lo scandalo di un prete che teneva sfacciatamente una relazione con una donna che viveva in parrocchia, man mano scemò grazie alla simpatia, al lavoro e alla vulcanica organizzazione parrocchiale del giovane prete e della sua perpetua.  Ben presto, Pinuzza do parrinu imparò a vivere come un personaggio delle storie dei cantastorie che a volte animavano la piazza. Di lei si parlava e si sparlava, ma Pinuzza era radiosa e metteva tutta sé stessa nell’organizzazione di catechismo e processioni e le chiacchere rimanevano relegate al teatro dell’immaginario collettivo. Anche lei era stata invitata alla festa per il battesimo e con i capelli in ordine, le unghia smaltate, un vestito elegante e un sorriso rassicurante e carico di gioia, contribuì a rendere più bella quella giornata di sole che si scelse di festeggiare nella piazzetta della fontana, vicino al lavatoio, sotto gli alberi dove le donne stendevano i panni e i bambini correvano liberi tra i vassoi di paste di mandorla e confetti.

-Nunzia amuninni![iii]–

La sorella più piccola di Cettina, all’indomani della festa, doveva partire per Palermo, la zia era venuta a prenderla. Era riuscita a convincere i genitori a lasciare che la ragazzina frequentasse la scuola media nel capoluogo siciliano. La zia e la nonna si sarebbero prese cura di lei.

-Non ti preoccupare, dalle una borsa piccola con le sue cose più importanti.-

La zia sembrava avesse tanta fretta di andare via, di salire sul primo treno per Palermo. Guardò Cettina e la baciò con tenerezza. Avrebbe portato via anche lei, ma la famiglia per lei aveva altri progetti: era una signorina da maritare.

Quando Nunzia partì, Cettina pianse disperatamente, di un pianto intimo, con occhi che rimandavano indietro le lacrime che a nulla servivano. La solitudine e l’impotenza mandano al mittente le lacrime che nessuno vuole asciugare. Le rimandano alla sensibilità del cuore che si inasprisce e svuota quella dose di liquida amarezza, nella parte più buia dell’anima dove ristagnano la rabbia e la delusione. Volevano che sposasse Salvatore? Bene, li avrebbe accontentati. A modo suo. Sarebbe scappata via con lui, presto. Al battesimo era stato invitato anche lui. Anche lui si trovò a bere, scherzare e chiacchierare con la gente raccolta attorno ai giovani genitori sotto i rami degli alberi di piazza Bonadias, dove, quel giorno, non svolazzavano lenzuola ma parole e risa e musica, mentre un giradischi diffondeva le voci e le note di Domenico Modugno: – Volare oh oh…Cantare oh oh oh- e la gente era sostenuta da un’allegria che svolazzava leggera sulle onde di canzoni bellissime:- nel blu, dipinto di blu…-

Tra la confusione e l’allegria le arrivò un messaggio, sussurrato piano.

-Domani, scappiamo via insieme. Fatti trovare dietro l’altare della Madonna del Pane Cotto.-

Quel giorno, all’orario stabilito, Cettina uscì da casa e si diresse al suo appuntamento: attraversò la piazza, sempre gremita di persone, raggiunse un’auto ferma nella traversa dell’ altare della Madonnina e prese posto in macchina, sbattendo lo sportello con atteggiamento di sfida. Un attimo, un soffio di vento e volò via con quell’uomo che non sapeva niente dei suoi sogni, della sua amarezza. Le si aprì improvviso uno spiraglio nella memoria: Palermo, le cupole rosse, le strade odorose di sfincione, il vociare festoso di mercati affollati. La casa della nonna. E poi, alcune “cose” più intime, più chiacchierine che facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza, per poi sparire ancora nel fondo del cassetto profondo cento anni. La nonna, nella sua casa, custodiva gelosamente uno strumento da ricamo avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia monaca dal caratterino vivace. La nonna era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo, e attorno ai tanti fuselli, ricamava la storia della zia. Monaca, non certo per devozione, aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare, come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro, mentre le era toccato di appartenere all’ordine delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove la nonna cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose, tra queste la zia, e delle quali non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. Finito il cunto, la nonna riavvolgeva il tombolo nel lenzuolo di lino e lo riponeva nel cassetto dal fondo profondo cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia. Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi alle porte del cuore. Chiuse gli occhi mentre l’auto divorava la tenerezza di quei ricordi. Forse si addormentò, forse fu rapita da un sogno. Quando riaprì gli occhi, l’auto stava ancora percorrendo una strada tortuosa, lunga, infinita. Quanto durava quel viaggio! Sembrava non finisse mai. Con lo sguardo fisso sulla strada, Cettina e Salvatore sembravano ignorarsi. Non parlavano, non si dicevano niente. Non si guardavano, non si scrutavano, ognuno perso nei propri pensieri. L’auto si fermò finalmente al limitare di una presenza, di una grande testimonianza, di una forza femmina, atavica. Si sentivano boati, come ruggiti di una leonessa, come la voce imponente e maestosa di una dea che libera dal suo ventre un gigante di fuoco. Si erano abbassate le luci del giorno e l’Etna in tutta la sua maestosità, comunicava con il mondo, lanciava fiamme e lapilli, come lunghe braccia che tendevano verso un amore eterno. La luna, intanto, sorgeva dal mare, anche lei rossa di ardore, bella e seducente. Pian piano si alzava alta nel cielo per meglio osservare il suo amore eterno eppure così irraggiungibile. Cettina rimase abbagliata da tanta bellezza, mentre la tristezza e la rassegnazione si aggrappavano alla rabbia che l’aveva portata fin lì, a Zafferana Etnea.


[i] -Forza Nunzia, sbrigati! Sembra che dorme ‘sta ragazzina!-

[ii] Moglie del prete.

[iii] -Nunzia, andiamo!-

Fammi strada-Via da Cibali (2)

08 lunedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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Catania, Etna, il racconto continua, lavatoio, piazza Bonadies

Credevo, cuore mio, che avere cura di ciò che ti è più vicino, che amare i luoghi, l’aria, le acque dove ti è toccato nascere e crescere, credere fortemente nella conservazione dei valori, delle tradizioni della propria terra, potesse contribuire alla bellezza della diversità di ogni territorio, di ogni popolo, di ogni uomo. Potesse, come dire, alimentare la gioia nell’ incontrare l’altro e donare e ricevere per arricchirsi, per essere grati. Forse è così, cuore mio, o forse no. Intanto fammi strada, aiutami a raccontare.

VIA DA CIBALI

Era successo di nuovo. Ancora una volta aveva litigato con suo padre che lo aveva trascinato fuori, nel balcone di casa, gridandogli dietro tutta la sua rabbia.

-Hai bisogno di aria? Ecco qua. Accontentato! Puoi goderti tutta l’aria che vuoi, per tutta la notte.-

Aveva chiuso quindi le imposte con un giro di chiavi, continuando a blaterare e minacciare la moglie di non azzardarsi ad aprire quel balcone. Poi il silenzio.  Ancora una volta la sua intraprendenza, il suo entusiasmo erano stati puniti, ancora una volta doveva subire l’umiliazione di dovere tacere e sopportare l’aggressione di quel padre pazzo, fuori di testa.

-Mimmuzzu, di nuovo là sei?-

-Chi cumminasti?-

Sentiva la gente del quartiere discorrere di quel padre eccessivamente severo e burbero in casa, che però aveva amici con i quali scherzava e beveva al bar. Ascoltava i commenti e avvertiva la commiserazione di chi si accorgeva di lui, costretto a passare la notte con la testa bassa dalla vergogna. Lui non era stato fortunato come il suo amico Peppe u siccu, che quando litigava con il padre si andava a rifugiare nella stalla di don Alfonso, il proprietario della bellissima villa che dominava la borgata di Cibali. Ianu, lo stalliere, quando vedeva il suo piccolo amico in difficoltà, con una scusa qualsiasi lo chiamava e si inventava qualche servizio per il suo figlioccio.  

-Vieni, Pippuzzu! Dormi qua stasera, se no tuo padre ti fa la festa e domani ti svegli tutto rotto.-

Mimmuzzu poteva contare solo sull’ aiuto della Madonnina del Conforto, che, con occhi pietosi, lo guardava dalla sua cappelletta, che si trovava proprio all’angolo della stradina che si allungava dietro casa sua, e sembrava intercedere presso il Padre Eterno per toglierlo presto da quella situazione. Un vecchietto gli aveva detto che era chiamata anche Madonna del pane cotto, chissà perché poi! Forse perché il pane cotto era il conforto della povera gente che pativa la fame, e lui aveva tanta fame!

Faceva caldo e si sentiva l’odore che arrivava da una delle fornaci dove ancora si lavorava l’argilla.

Un gruppo di uomini in un angolo di piazza Bonadies aveva sistemato delle sedie sgangherate per giocare a carte.

-Tira! Vieni tu! Stonato, ma a chi pensi? Gioca!- gridava uno con una canottiera dai bordi logori e gialli di sudore. Lo “stonato”, un vecchietto magro, dai capelli radi, grigi di polvere oltre che di vecchiezza, dimostrava, con un sorriso dimesso, gratitudine a quell’omone che, nonostante la sua “stonataggine”, lo spronava e gli altri giocatori si accorgevano di lui.

-Mastru ‘Iachino, si fattu vecchiu!- e risate accompagnavano pacche sulle spalle che destabilizzavano la figura esile, mentre sul viso si apriva un sorriso menomato di incisivi e molari.  

Le donne stavano davanti le porte delle loro case a godersi l’aria fresca della sera, chiacchierando con le vicine sulla biancheria che avevano lavato quella giornata e di quanti fili avevano legato ai rami degli alberi, per stendere i panni e farli asciugare presto. Spesso la piazza si riempiva di lenzuola, tovaglie, calze e pigiami svolazzanti al vento che dalla Montagna scendeva allegro, animando quei tessuti che, se avessero avuto una voce, avrebbero raccontato di quanto erano stati strapazzati nell’acqua del lavatoio. A Cibali tutte le donne, o quasi, erano lavandaie e la piazza era circondata dalle loro piccole case abitate da sei, sette, dieci familiari: padre, madre, nonno, nonna, bambini che nelle sere d’estate si sparpagliavano lungo il piazzale, spandendo per l’aria afosa forti risate o grida di stizza. C’era stato un funerale quella mattina e le donne avevano un gran parlare. Era morto una specie di mafioso. No di quelli veri. Uno che era nel giro di chi si sporca le mani e l’anima per i boss che impiegano il loro tempo a studiare strategie di morte e potere. Il corteo funebre si era fermato in tutti i posti abituali frequentati in vita dall’estinto. Prima tappa, davanti il cancello del lavatoio dove andava a prendere la madre che lavava i panni di un barone di Ognina. Si fermava poi davanti al panificio, al bar e ogni volta si lanciavano fiori a segnare il passaggio e una voce si levava affannata:

-Ah, il fratello mio! Quanto era rispettato!-

Gli avevano sparato un colpo alla testa il giorno prima. Si diceva che aveva messo gli occhi addosso a una donna maritata e se l’era portata a letto.

Quella notte l’Etna tuonava e tirava lapilli e cenere rossa, segnava col fuoco il cratere maggiore e lingue di lava scendevano lente sui fianchi della Montagna. Mimmuzzu ne aveva sentite tante di storie sul vulcano. La gente raccontava di un’ eruzione così violenta che era arrivata fino a Ognina, fino al porticciolo, e la lava aveva coperto strade e quartieri, anche quello da cui provenivano quelli che poi avevano popolato quel borgo.

-Se non era per il vescovo, morivamo tutti o di fame o bruciati-

La piazza su cui sporgeva il balcone dove il ragazzo scontava la sua punizione, era intitolata al vescovo Michelangelo Bonadies, grande benefattore che i cantastorie ricordavano con i loro cartelloni e con la loro musica.

         -Scinnia ‘nfuocato u ciumi da Muntagna

         E botti e terra niura sputava di li cianchi.[i]

I cantastorie raccontavano di quando, nel 1699, l’apertura dei crateri sui Monti Rossi aveva scatenato una terribile eruzione che aveva colpito Misterbianco, comune alle porte di Catania, coprendo il fiume Amenano che lo attraversava e distruggendo il monastero dei monaci che indossavano il saio bianco. I profughi, aiutati dal sacerdote Giuseppe Leucatia, dal Protomedico Conte Nicolò Tezzano e dal canonico Martino Cilestri, furono ospitati in parte dal vescovo nel palazzo episcopale. Trovarono poi rifugio nella collina di Cìfuli, secondo il detto catanese, dove era facile arrivare e dove l’acqua non mancava e dove il buon vescovo pensò di fare sistemare quella gente a cui il vulcano aveva rubato tutto. Avevano lasciato le case, fuggendo dal fuoco e portando con loro, in processione, il quadro della loro amatissima Patrona, la Madonna delle Grazie che divenne la Patrona della collina di Cìfuli.

A ottobre ci sarebbe stata la festa in onore della Madonna e a Mimmuzzu piaceva andare in giro con gli amici e ascoltare le storie degli anziani. C’era don Saru, il barbiere che si sganasciava dalle risate per le barzellette che sentiva raccontare nel suo salone e che provava una certa soddisfazione a recitare la sera in piazza mentre i suoi compari lo ascoltavano attenti e divertiti; c’era don Bastianu, ‘u stazzunaru, che si vantava della maestria che aveva nel lavorare l’argilla, e che sognava per il figlio un futuro a Santo Stefano di Camastra dove, lui c’era stato, con l’argilla si facevano cose meravigliose: statuette, vasi e canestri colorati, e poi mattonelle di arte fina per le case dei signori. E poi c’era Cicciu ‘u siccu, un ragazzino lungo e secco che con una scatola appesa al collo vendeva bomboloni e cannellini per tutti i gusti.

Quella sera Mimmo era troppo arrabbiato, offeso e pensava che il vulcano gli stesse parlando, gli stesse dicendo di tirare fuori quella rabbia che gli bolliva dentro e finalmente trovare il coraggio di scappare. Aveva fatto tardi, certo. Con un gruppo di amici era stato a Ognina, dove dei pescatori stavano preparando la barca per andare a pescare. Riparavano le reti e intanto guardavano la Montagna

-Oggi non si esce- sentenziava uno di loro- u mari vugghi!-

– Che significa?-

 -Bolle, bolle! Che fa, non capisci il catanese?-

Tutti risero, anche lui, Mimmuzzu, che comunque continuava a non capire.

-Quando l’Etna lancia fuoco e fiamme, il mare di sotto si agita perché arrivano le correnti.-  

Si era fatto tardi, quella sera avrebbe dormito sul pavimento del balcone. Dalla piazza arrivavano le voci delle donne che cominciavano a entrare le sedie in casa e, salutandosi tra loro, chiudevano le imposte e andavano a dormire, insieme ai bambini e agli anziani, in quella camera affollata di letti dove una scorreggia del nonno sviluppava risa o indignazione, ma poi ci si girava di fianco e si dormiva con la pace di tutti.   

Gli uomini ancora resistevano al sonno: alcuni, ubriachi di vino a buon mercato che avevano comprato alla bottega di fronte la fontana, si erano abbandonati al torpore dell’alcol e della notte e, allungatisi sulle panche della piazza, avrebbero trascorso lì tutta la notte. Altri, accompagnavano mastru ‘Iachinu a casa, per poi ritirarsi anche loro. Era calato il silenzio sulla piazza, si sentiva solo il vulcano.

-Mimmo, ho preso le chiavi-

La voce di sua sorella attraversò il buio, lo raggiunse.

 -Sei pazza! Ti ammazzerà di botte!-

  -Zitto, non parlare!-

Cettina aprì il balcone e accompagnò suo fratello alla porta e lo abbracciò.

-Ora vattene! Scappa via da qui! E’ quasi l’alba e fra un po’ nostro padre si sveglia e inizia l’inferno. Tieni, ho preso anche questi soldi. Vai via!-

-Tu sei davvero pazza! Dove vado?-

-Hai tanti amici. Vai verso il mare, vai a Ognina dai tuoi amici pescatori. Scappa!-

Era estate e lei sarebbe partita presto quella mattina per andare a trovare la nonna a Palermo. Lo vide uscire e poi correre giù, per via Cifali. Si mise subito a letto e, dopo qualche ora, la madre chiamò lei e la sorella più piccola per accompagnarle alla stazione ferroviaria.


[i] Scendeva infuocato il fiume della Montagna/e botti e terra nera sputava dai fianchi

Noi siciliani

09 sabato Mag 2020

Posted by paolina campo in libri

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De Rerum Natura, Etna, Lucrezio poeta latino, Sicilia

……e di chi ammette che quattro elementi bastano a produrre tutte le cose: il fuoco, la terra, l’aria, l’acqua. Li guida Empedocle di Agrigento (che dentro le sue spiagge ha visto nascere la Trinacria Sicilia, che i flutti dell’Ionio circondano e frastagliano in vaste insenature, bagnandola con l’acredine delle verdi acque-uno stretto canale, dove precipita l’onda marina, separa questa terra dalla sponda italica: qui sta la divorante Cariddi e i boati dell’Etna che minacciano un nuovo risveglio della sua collera, una nuova eruzione la cui violenza vomiterebbe il fuoco dalle sue bocche portando fino al cielo i bagliori delle fiamme-). Malgrado tutte le meraviglie che rendono questa terra degna di ammirazione del genere umano e della curiosità dei viaggiatori, e l’abbondanza dei suoi beni, e il baluardo che per lei forma la forza d’un popolo numeroso, mai -credo- essa ha posseduto nulla più illustre di quest’uomo, più venerabile, stupefacente, prezioso.

Lucrezio, De Rerum Natura, vv.714-730

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