Föhn, vento caldo e asciutto, si era fatto strada tra le vie, le case, i boschi e le valli della Sassonia. Soffiava a raffiche da giorni e il mese di marzo aveva aperto tutte le porte attraverso cui poter correre indisturbato. Molti abitanti della zona battuta dal vento, continuavano pazientemente a condurre la propria vita, certi che presto quel soffio caldo si sarebbe allontanato. Alcuni invece, si sentivano destabilizzati da quella forza prepotente che aveva invaso non solo la loro area geografica, ma anche la mente, i sensi e il respiro.
A Friedrich Nietzsche Föhn aveva intensificato il malessere fisico e mentale.
– Devo partire, devo fuggire da questo vento maledetto!
Su un treno veloce, attraversò la Germania e si diresse in Italia, di cui tanto bene parlava Goethe, spingendosi fino a una terra alla “fine del mondo”, in Sicilia.
A Genova Nietzsche si imbarcò, come unico passeggero, su un veliero alla volta di Messina. Un vento forte (Föhn?), agitava le acque del Tirreno e le onde sbattevano contro l’imbarcazione con violenza.
Era il 31 marzo del 1882 quando il veliero approdò al porto siciliano, con a bordo quell’unico passeggero così provato dalla difficile navigazione che sbarcò in barella.
La città dello stretto lo accolse e se ne prese cura, tanto che al filosofo sembrava che la città fosse stata preparata e istruita proprio per rendergli il soggiorno gradevole. Anche il sole, splendente già dalle prime luci dell’alba, partecipava alla migliore riuscita dell’accoglienza, illuminando le facciate dei palazzetti in stile liberty di via Cesare Battisti, mentre arrivavano confortanti i rintocchi delle campane del duomo. Il mare poi era fantastico.
Il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto»
Nietzsche, La Gaia Scienza, 1882, Idilli di Messina
I balconi delle stanze dell’appartamento dove soggiornava il filosofo, si trovavano al primo piano di una palazzina sita appunto in via Cesare Battisti, dove un’antica pasticceria diffondeva dolci e aromatici profumi e dove trattorie eleganti imbandivano tavoli colorati baciati da un caldo sole primaverile.
– Credo che rimarrò qui per un po’. C’è aria buona, gente amabile, odori gradevoli.
Le premesse per un soggiorno lungo e tranquillo, ideale per scrivere, c’erano tutte e, nella città dello stretto, Nietzsche scrisse gli Idilli di Messina come prefazione a La Gaia Scienza.
Da quando fui stanco di cercare,
imparai a trovare.
Da quando un vento mi fu avverso,
navigo con tutti i venti.
Ibid.
Le albe e i tramonti; il mare e la brava gente. Cosa avrebbe potuto volere di più.
Poi, dopo appena venti giorni dal suo idilliaco soggiorno messinese, iniziò a diffondersi nell’aria un sibilo, un rumore, un soffio caldo come di vento molesto. Chi era ora che minacciava la sua tranquillità? Possibile che Föhn era andato a cercarlo fino “alla fine del mondo”? Come si permetteva di turbare il suo lavoro, la sua pace così amabilmente conquistata a Messina?
Soffiava da sud-est un forte vento. Non era Föhn, ma un suo lontano parente che sembrava avere la stessa tecnica, lo stesso stile: caldo, impetuoso. Fastidioso.
La nave è partita in perfetto orario. È Gennaio e il fatto che sia partita è già un miracolo. La gente, poca, si sistema nei salottini preposti all’accoglienza dei passeggeri e il personale di bordo percorre con zelo le sale e i corridoi. Prendo posto anch’io in una delle poltrone da cui posso osservare il porto illuminato farsi sempre più lontano e le luci della notte sempre più evanescenti. Sono le nove della sera e l’arrivo è previsto per la mezzanotte. Qualche bambino piange, degli uomini parlano a voce alta, qualcuno mangia qualcosa e i motori della nave rombano mentre fuori il mare e il cielo diventano sempre più scuri. I miei occhi perlustrano la sala, forse c’è qualcuno che conosco, ho fatto mille volte questo viaggio. In ognuno riconosco il dialetto, i tratti tipici della gente che vive in quei luoghi dove il mare forgia il carattere e l’animo e ne diventa padrone, ma sono ormai lontani da me. Chiudo gli occhi e la porta del mio presente. Comincio a dipingere con la mente un mondo che profuma di terra bagnata, di aria salmastra, di gioia, di promesse semplici mantenute per sempre. Anche questo mondo è ormai lontano da me. Dietro lo specchio di quelle immagini vedo un mare tenebroso da cui emergono le risa sarcastiche di mostri marini che lanciano frecce, azzannano il cuore e succhiano il sangue di chi si affatica a raccogliere i cenci di trame tessute e inutilmente distese.
La nave continua a solcare quel mare buio che mette paura a gente inesperta. Riapro gli occhi. Forse mi sono addormentata. Qualcuno si è disteso lungo poltrone allineate, i bambini dormono e le madri trascorrono il tempo scorrendo le immagini di un cellulare. Chiedo dov’è la toilette: c’è un grande specchio, alcuni rubinetti e degli erogatori di sapone liquido per lavarsi le mani. Una voce annuncia che siamo arrivati a destinazione. Guardo fuori dal finestrino. Luci gialle, case bianche e volti. Sono di nuovo qui, sono ancora qui. È una promessa.
Si parte per lavoro, per piacere, per raggiungere familiari lontani, per riappropriarsi di affetti di cui non si vuole fare a meno. C’è chi in aeroporto arriva contento, chi stanco, chi smarrito. Lui aveva lo sguardo malinconico, incorniciato da capelli sottili e bianchi che svolazzavano ribelli. Sembrava concentrato sulla ricerca di prendersi cura di se stesso, ora che non c’era più nessuno che lo faceva per lui.
Indossava un paio di jeans larghi, o meglio, comodi e lunghi con delle pieghe alle caviglie da cui sbucavano delle scarpe nere, lucide, pulite, nuove. Portava poi una giacca e sotto una camicia, e sotto ancora una maglietta bianca sulla quale risaltava una collanina di quelle che si trovano in certe località di preghiera: un laccio e una crocetta di legno. Era arrivato tirandosi dietro un trolley. Ma quante cose portava con sé, oltre la sua malinconia! Aveva un borsello a tracolla, di quelli a più scomparti, uno zainetto sulle spalle e una busta rossa che pendeva dal collo come una collana per poi poggiarsi sul petto. Sopra quel rosso acceso, risaltava una frase scritta con grosse lettere a stampatello di colore bianco: “ abbiamo a cuore i vostri progetti”.
Seguì la fila per arrivare al gate. Ad un certo punto si fermò: sembrò che un consiglio, una cura antica lo avesse raggiunto.
Tolse lo zainetto dalle spalle e lo poggiò sul trolley. Sfilò dal collo la busta rossa e tirò fuori un giubbino che piegò ancora per poterlo sistemare in una delle tasche dello zaino. Piegò anche la busta che trovò posto in un altro scomparto dello zaino.
Così va bene?
Si guardò intorno, muovendo gli occhi ora da una parte, ora dall’altra. Serio, continuò a seguire la fila con qualcuno accanto che nessuno vedeva.
Al di là delle tende sottili le finestre si sono fatte d’improvviso luminose, sono i lampioni della strada. Già così tardi. Questo giorno è finito, ciò che ne resta si libra lontano sul mare e sta fuggendo, soltanto poche ore fa Ricardo Reis navigava su quelle acque, adesso l’orizzonte è qui dove arriva il suo braccio, pareti, mobili che riflettono la luce come uno specchio nero, e invece del pulsare profondo delle macchine del vapore, lui sente il sussurro, il mormorio della città, seicentomila persone che sospirano.
“E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, palpiti, graffi indecifrabili. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio”. Vincenzo Consolo, NOTTETEMPO, CASA PER CASA, Mondadori editore, Milano, 1992, pag. 71
A PICCIRIDDA
Il treno era partito in orario da Palermo e il viaggio non fu interrotto da nessuna mucca dondolosa e pacioccona. Le stazioni si susseguivano una dopo l’altra, come una sfida: Bagheria, Altavilla, Trabia, e poi Termini Imerese, Buonfornello, Campo Felice di Roccella, ultime tappe dove la linea ferroviaria lambiva la costa e il mare era lì a manifestare la sua libertà infinita. Poi all’improvviso quella libertà veniva interrotta con uno stacco netto: all’improvviso era tutto giallo, secco, arso dal sole che non vedeva il mare. Il treno aveva continuato il suo percorso per attraversare prima le coltivazioni di carciofi della piana di Cerza, poi le colline aspre e desolate che da Scillato avrebbero disegnato il paesaggio fino a Enna, dove l’Etna già si mostrava in tutta la sua magnificenza. Il tempo di quel viaggio si avvolse in un attimo. Troppo presto erano arrivati a Catania. L’ansia del suo ritorno a casa aveva raccolto la matassa delle ore trascorse in treno e la depositò proprio in mezzo al petto.
-A picciridda, arrivò a picciridda!-
Erano tutti stranamente accoglienti. Suo padre sedeva su una poltrona e ascoltava la radio. Sua madre si affrettò a farla entrare e preparò da mangiare. Era domenica e a pranzo era venuto anche Salvatore, un ragazzo del quartiere. Mostrava una certa confidenza con suo padre: parlavano, scherzavano e entrambi le posavano gli occhi addosso come a suggellare sulla sua figura uno strano patto, come se proprio su di lei avevano costruito un inconfessato progetto. Di Mimmo non parlava nessuno e lei non aveva il coraggio di chiedere. Rischiava di accendere una miccia su una storia a cui lei stessa aveva dato l’avvio. Forse durante la sua assenza tutto si era risolto. Ma come? Dimenticarsi di un figlio è impossibile, almeno a una madre. Sembrava tutto così strano.
Da quando era tornata, ogni domenica Salvatore pranzava da loro e tutte le sere della settimana andava a trovarli e portava qualcosa, un dolce o un giocattolo per la sorella più piccola, e lei, Cettina, doveva farsi trovare sempre in ordine. Non capiva più niente. Anche la mamma sembrava complice di una trappola. Ma cosa stava succedendo? Era come se stessero tramando di legarle mani e piedi a una sedia con il volto rivolto verso una realtà che non le apparteneva. Suo padre, la sua mamma, Salvatore! Si muovevano come delle ombre di una vita che le veniva imposta senza spiegazioni, senza che mai, quelle ombre, la guardassero negli occhi. Fuori, in piazza Buonadies, c’era un brulicare di gente: c’erano le sue amiche, le fantasie appena bisbigliate di giovani ragazze che portavano in giro i loro sorrisi maliziosi e complici.
Presto ci sarebbe stata la festa della Madonna e il quartiere cominciava a vestirsi di luminarie e bancarelle di noccioline, crispelle e zucchero filato. In giro, tra le viuzze antiche di quel borgo che scivolava verso il mare, ondeggiavano storie di una Catania ricca e intraprendente. Tutti nel quartiere ricordavano il cavaliere Alfredo Alonzo, ricco imprenditore catanese che, travolto dalla fama do cinematografu, aveva trasformato il borgo in una grande “città cinematografica”. Voleva, il cavaliere, portare agli onori della cronaca nazionale, e perché no, mondiale, il cinema catanese e fondare una casa cinematografica che fosse stata capace di arrivare a quel successo a cui era arrivata la Itala Film di Torino. Quest’ultima aveva trionfato con il film CABIRIA, le cui scene esterne erano state girate proprio a Catania. Era il 1913 quando attori, registi, comparse e costumisti occuparono la città per raccontare la storia di una bimba catanese rapita, approfittando della confusione che un’eruzione vulcanica dell’Etna aveva generato tra la popolazione. Il film ebbe un successo strepitoso, anche in America.
-Ti ricordi? Quanto abbiamo lavorato per il cavaliere! Bisognava fare presto e bene!-
La meraviglia era stata tanta! Il 31 dicembre del 1913 il cavaliere aveva inaugurato la casa cinematografica ETNA FILM che, nelle intenzioni del suo fondatore, doveva essere la più grande d’Italia.
-In piazza Stesicoro non si poteva passare quando all’Olympia proiettavano un film do cavaleri-
-Ricco, era ricco don Alonzo. Però, forse fici un passu troppu longu!-
-Eh sì! Poi c’è stata pure la guerra…-
-Sì, sì…pure suo figlio è partito per la guerra! Mah!-
Il successo iniziale dell’ENTA FILM aveva incoraggiato il cavaliere a cimentarsi in un kolossal, trasformando la villa di Feudo Coniglio in una reggia, impegnando attori famosi e più di trecento comparse, facendo costruire una galea seguendo un antico e prestigioso modello.
-Come si intitolava quel film dove abbiamo fatto la comparsa pure noi?-
-Ma come? Non ti ricordi? Christus, ma non c’entrava niente con Nostro Signore. Era n’autra cosa…-
-Ricordo il giorno che ci ha fatto fare pure gli attori! A noi, che manco sapevamo come muoverci in quei vestiti!-
-Però è stato bello! C’era un sacco di gente importante al porto di Ognina e la Montagna taliava tutti cosi!-
Il Kolossal che aveva impegnato notevolmente le casse della casa cinematografica di Cibali, narrava dell’amore impossibile della corrotta governatrice di Siracusa di nome Xenia per il giovane Christus che invece amava la dolce Myriam.
-Ho sentito che però non ha avuto tanto successo questo film e il cavaliere ha avuto poi un sacco di problemi, anche se ha prodotto altri film.-
-E certo! Sennò perché doveva chiudere? Peccato! Stringe un po’ il cuore a vedere tutto chiuso e abbandonato!-
Anche Cettina, una volta, con le sue amiche era andata a curiosare. Avevano potuto vedere poco anche se, dalla strada si potevano ammirare gli alberi e le piante maestose dei giardini, la grande villa con balconi e finestre che testimoniavano una ricchezza d’altri tempi.
-Io sarò una principessa e vivrò in un palazzo con cuochi e camerieri e poi…-
-E poi finiscila che dobbiamo tornare a casa, altrimenti sono guai, altro che principessa!-
Già, altro che principessa! Suo padre era tra quelli che avevano lavorato per il cavaliere, ma era rimasto un bifolco, non aveva cambiato per niente la sua natura. E anche lei voleva fuggire da quella casa, quella caverna dove si muovevano ombre che pretendevano di essere protagoniste della sua vita.
Sarebbero cominciati presto i festeggiamenti per la festa rionale, e avrebbe chiesto a suo padre di potere rimanere più tempo in piazza con le amiche; oppure avrebbe partecipato alla processione per poi dileguarsi in una delle vie che portavano alla stazione; oppure avrebbe chiesto a un’amica della mamma, che veniva per la festa della Madonna di Cibali ma viveva a Misterbianco, di ospitarla a casa sua; oppure…E mentre sommava questi “oppure”, si addormentò, distesa sul suo letto, e si trovò nei giardini del cavaliere.
Scena tratta dal film AL DI Là DEI SOGNI del 1998, interpretato da Robin Williams
Si viaggia in nave, in treno, in aereo. Si viaggia per lavoro, per piacere, per raggiungere luoghi della speranza. Ci sono poi viaggi immaginari dove ci si vorrebbe catapultare chiudendo semplicemente gli occhi e trovarsi su un atollo sperduto nell’oceano; o tra sequoie secolari accolti da gnomi festosi; oppure in città lontane dove, secondo antiche tradizioni, offrono, a viaggiatori sperduti, fantastici pranzi e antichi giacigli. Ma quando il sonno diventa padrone del corpo che si abbandona alle lusinghe di Morfeo, inizia uno dei viaggi più difficoltosi, attraverso le immagini registrate dalla mente in tutti i giorni della vita, diventando, spesso, spettatori di sé stessi.
-Allora, vediamo…di quali colori ti sei macchiato? Ecco! Trovato! Stanotte sei verde e blu!-
-Sì. Vediamo anche quali parole hanno inciso nel tuo cuore le persone che hai incontrato nei giorni della tua vita-
-Ma guarda quanta gente! Quanti volti!-
Neuroni elettrizzati e frenetici cominciano a rovistare tra i lobi della mente e, raccogli qua e togli là, cominciano a costruire storie che corrono lungo pellicole più o meno brevi, più o meno rassicuranti. Immagini, suoni, volti, parole si susseguono, si incontrano e poi si sciolgono, si appiattiscono come onde sulla battigia. Al risveglio, sembra di essere su una spiaggia, da soli, a cercare di recuperare ciò che durante il sonno ci ha fatti spettatori di noi stessi, alle prese con situazioni irreali o verosimili.
Poi ci sono i viaggi più tristi, quelli della nostalgia, degli abbracci perduti, dei sorrisi che hanno colorato la vita di gioia. Ci si imbarca sulla nave della memoria e si attraversano le nuvole del ricordo, in silenzio, per andare oltre i sogni, per superare l’immaginazione e sentire attraverso l’aria che si respira un mondo che esiste ancora, scolpito nel cuore.
Era una sera d’estate, di quelle che ti fanno sentire addosso la fatica di un caldo appena mitigato da un timido venticello. Il sole si era sbizzarrito, spruzzando colori alla rinfusa, scivolando pian piano all’orizzonte.
Etta godeva di quell’attimo magico, sdraiata su una delle poltrone disposte ordinatamente su quel loggione rivolto verso il sipario sempre aperto dello spettacolo del cielo. A farle compagnia dei grandi boccioli che aspettavano di consegnarsi alla luce bianca della luna. Anche quella sera, come spesso ormai le accadeva, si sorprendeva a fare discorsi che immaginava potessero trasmettersi da cuore a cuore, come se potesse esistere una comunicazione che viaggiasse silenziosa e arrivasse lì dove doveva arrivare. Prese un foglio e cominciò a disegnare qualcosa: una casa, il mare, i pesci. Il suo tempo era diventato così, come quel foglio: disponibile. Ci si potevano scrivere delle parole. Qualcuno tentava di scriverne troppe e fare un enorme scarabocchio. Ne fece una barchetta e su un fianco scrisse lei qualcosa
Sii libera di ascoltare il tuo cuore
e avrai vinto
Il sole scivolava dietro l’orizzonte e quei fiori sul balcone seguivano il susseguirsi dei momenti, dei colori, della storia di ogni vita che ogni giorno si rinnova. Petali, come raggi dipinti del colore caldo del sole, illuminavano altri petali bianchi, candidi come la luna brillante tra le stelle e tra essi stami e pistilli frementi d’amore.
Etta si imbarcò sul sogno della sua barchetta, sollevandosi lentamente, attraversando nuvole e spruzzi di vento fino a raggiungere la luna. Navigò fino a un mare in tempesta dove alta si alzava la polvere della sua tristezza. Resistette alle intemperie, mentre la barchetta faceva un pieno di tenerezza, per portarla nel punto della luna dove qualcuno aveva nascosto la pace del suo cuore. Passavano lente le ore della notte e intanto osservava i suoi fiori che si erano aperti, offrendosi alla luce lunare per poi piegarsi e desiderare di morire. Anche un petalo bianco era partito per raggiungere la luna e chiedere di raccogliere un granello di roccia lunare per salvare e dare vita perenne al sogno di un fiore. Ma non c’ era più tempo: il sole tornò a riprendersi il cielo e la luna nascose per sempre i sogni del tempo passato.
Il giorno sorprese Etta riversa sul foglio, bianco come un astro brillante. Accanto giaceva un fiore appassito che aveva concluso la sua storia d’ amore con la luna splendente.
¹Quando il sole e la luna, figli di Latona, / essendo uno nel segno dell’Ariete, l’altra in quello della Libra /si trovano sulla linea dell’orizzonte in due punti opposti del cielo/ e si trovano in perfetto equilibrio rispetto allo zenit( ‘l cenìt i’nlibra),/ si sciolgono da quella cintura/ cambiando emisfero, l’uno tramontando e l’altra sorgendo. Dante, Divina Commedia, Paradiso, cantoXXIX, versi 1-6