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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Harry

02 mercoledì Nov 2022

Posted by paolina campo in Eolie, storia

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'Nto scurari, eruzione, fantasia, inglesi, storia, vecchio post, vulcano

Tutto può accadere nei sogni, anche di vedere un albero in mezzo al mare che ha radici negli abissi e rami persi tra le nuvole. Con foglie larghe come quelle di un banano, ma non è un banano. E foglie piccole come quelle di un ulivo, ma non è un ulivo.

Un albero. In mezzo al mare.

– Era meglio che rimanevo al mio paese e marcire in carcere invece di seguire quel pazzo di Mr. Stevenson!

Harry parlava, si arrabbiava e remava. Sbuffava e se la prendeva con i pesci che nuotavano liberi e seguivano la sua barca.

– Cosa avete da guardare? Cosa ne sapete voi della fame? E’ per colpa sua che sono qua ora!- e intanto gli rimbombavano nella mente e nel cuore i boati di Vulcano e il frastuono della sua vita.

Conosceva bene la solitudine, in tutte le sue forme, anche quella che si sceglie per difendersi, per continuare a sentire che respiri ancora. I suoi genitori l’avevano abbandonato per strada e questa era diventata la sua casa. Aveva conosciuto ladri, ubriaconi, approfittatori. Imparò l’arte di arrangiarsi. Imparò che doveva bastare a se stesso, che guardarsi intorno era l’unico modo per sopravvivere sia quando i crampi allo stomaco lo spingevano a rubare o elemosinare qualcosa, sia quando il sonno arrivava inesorabile a chiudergli gli occhi,  a spingerlo a piegarsi in un angolo di marciapiede per trovare un fugace rifugio.

Un giorno la polizia lo prese, dopo una corsa tra le vie più impervie di quella città dove neanche la nebbia, quella volta, lo aveva protetto e nascosto.

Finì in carcere e pensò che almeno per un po’ avrebbe avuto un tetto sulla testa. I giorni cominciarono a susseguirsi stanchi, lenti, scanditi dalle voci di malfattori e assassini che trascorrevano il tempo tra imprecazioni e racconti che impregnavano l’aria di sangue e vendetta. Harry ne aveva sentite di storie strane di fattucchiere, streghe, scope volanti e maghi e folletti che apparivano e sparivano tra il buio e la nebbia dei vicoli della sua città. Di notte la città di Glasgow era popolata da ubriaconi, donne grasse dagli occhi terribili e poveracci che si rannicchiavano sotto le panchine per ripararsi dal gelo. Di giorno, su quelle stesse strade sfilavano superbi ricconi e bellissime dame. Harry li guardava, li osservava e non capiva se per quella gente provava invidia, rabbia o ammirazione. Proprio uno di loro lo aveva reclutato, insieme ad altri galeotti, per formare l’equipaggio di una nave a vapore che avrebbe solcato l’oceano e superato lo stretto che separava Europa e Africa, per raggiungere il Mediterraneo. Qualcuno gli aveva detto che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso, ma sarebbero arrivati in un posto dove il mare abbracciava isole che profumavano di vino ambrato, dolce e inebriante; dove le donne lavorano nei campi e conoscevano i pesci, il vento e il mare, e alcune di loro la notte si spalmavano di oli e volavano verso terre lontane per tornare all’alba nei loro letti, a scaldare i loro uomini. Harry non sapeva nulla delle mire egemoniche inglesi descritte su articoli dei  giornali, ma quel viaggio soddisfaceva la sua curiosità di gran sognatore.

 Mr James Stevenson, ricco imprenditore inglese, aveva fiutato un buon affare proprio in mezzo al Mediterraneo dove spagnoli, francesi e inglesi si contendevano terre, sbocchi sul mare e traffici proficui come quello dello zolfo e dell’allume.  Il ricco imprenditore scozzese aveva comprato l’isola di Vulcano, nell’arcipelago delle isole Eolie, da un generale dell’esercito borbonico, dopo la caduta del Regno delle due Sicilie. Partì quindi con tutta la sua famiglia, per ingozzarsi di potere e di denaro. Era il 1885 e Harry si imbarcò su una nave a vapore per lavorare come fuochista, insieme ad altri galeotti che insieme a lui furono chiusi in grandi cabine dove il rumore dei motori era assordante e il calore toglieva loro il respiro. Si lavorava a gruppi e una volta, stremato dalla fatica, crollò per terra prima di raggiungere un giaciglio dove potersi distendere.

Si addormentò poi, seduto in un angolo e sognò uno strano albero: era grande, grandissimo, e sorgeva tra le onde del mare. Aveva radici che si allungavano nelle profondità degli abissi e i rami si allungavano fino a perdersi tra le nuvole. Foglie larghe, foglie strette, a forma di cuore o tonde e smerlate componevano una chioma irregolare e strana. Ogni tanto una delle foglie cadeva in acqua e sembrava portasse impresso un messaggio. Allora arrivava un’onda, raccoglieva la foglia e la portava con sé. Dove la chioma si diradava appena, piccoli gnomi scrivevano e sembrava avessero tanto da fare: sulle foglie larghe scrivevano storie; su quelle medie messaggi, aforismi; su quelle piccole, le parole che mai devono essere dimenticate. Harry si vide trasportato da una nuvola fino a raggiungere uno degli infaticabili scrivani che appena lo vide, gli sorrise e gli spiegò che stava scrivendo proprio la sua storia. Ma che storia era la sua? La storia di un povero disgraziato che non sapeva neanche dove era finito.

Fu svegliato da un vocione che gli intimava di tornare al lavoro. Harry aveva sempre creduto ai sogni e sicuramente tra le onde del mare delle donne volanti, doveva esistere un albero che nasceva dal mare e non dalla terra.

L’isola di Vulcano apparve come un’immensa miniera d’oro agli occhi di Stevenson, e una meravigliosa, magica apparizione agli occhi dei fuochisti sporchi di carbone: il blu del mare, il verde di piante selvatiche che a chiazze prendeva il posto del giallo dello zolfo che spargeva nell’aria un pesante odore di uova andate a male. E poi il bianco dei vapori che qua e là si aprivano un varco tra la roccia e che sembrava manifestare l’esistenza di giganti fuochisti dentro la montagna che lavoravano incessantemente per dare vita a quel posto.

Sbarcati sull’isola, si pensò subito ad avviare la fabbrica per l’estrazione dello zolfo e Harry e i suoi compagni furono alloggiati in grandi cameroni attigui alla fabbrica. Stevenson si fece costruire un elegante dimora e visse tra gli agi, fino a che i diavoli del vulcano non uscirono dai crateri e lanciarono grosse  pietre che distrussero la fabbrica. Un masso a crosta di pane si conficcò proprio sul tetto della bella casa dei ricchi scozzesi che corsero in cerca di una barca per fuggire da quell’isola infernale. Scapparono via mentre i diavoli di Vulcano se la godevano sguazzando tra i bollori dell’acqua sulfurea.

L’imprenditore non tornò più sull’isola. Harry, preso da una grande paura, era sceso anche lui in riva al mare e sulla battigia aveva preso un gozzo e aveva cominciato a remare, affannandosi e imprecando. Era il 3 agosto del 1888, un giorno che non avrebbe mai più dimenticato. Si trovò al largo, stanco e confuso. Frenò la sua ira e non remò più e, disteso a poppa del gozzo, si fece trasportare dalle onde. L’aria era limpida e l’odore del mare lo raggiungeva come una carezza. Chissà come è stato: all’improvviso una grande foglia gli si posò sul viso. La prese tra le mani e lesse la sua storia. In lontananza, tra la folta chioma di un grande albero, uno gnomo scrivano lo salutava. Harry pensò che aveva ragione: ai sogni bisognava credere e quell’albero ne era la prova.

Continuò quindi a dormire, lasciando che le onde si occupassero di lui e segnassero il suo destino.

∗http://www.ct.ingv.it

∗http://www.giornaledilipari.it/lalbum-dei-ricordi-leruzione-del-1888-a-vulcano/

∗http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

∗Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia, trad. e note Carlo Ruta, Edi.bi.si., Palermo, 2004, pag.61

∗Gastone Vuillier, La Sicilia-impressioni del presente e del passato, nota intr. di Francesco Brancato, Edizioni Grifo, Palermo, 1995, pag. 401 

Cusciuta, cusciulera, cusciuliari

28 venerdì Ott 2022

Posted by paolina campo in pensieri

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ali ai piedi, arcobaleno, Iris, Omero, parole, vecchio post

Cusciuta, era cusciuta!

Cusciulera, vo diri?

Cusciuta o cusciulera, sempre a cusciuliari era!¹

Camminava, correva. Andava al mare e poi in montagna. Distribuiva sorrisi e afferrava esperienze. Tornava a casa quando era sazia di sguardi, di parole nuove da usare, di pensieri gioiosi da sognare. Cusciuta, era cusciuta. Sì, una volta. Le piaceva cusciuliari, imbarcarsi sulle sue cosce e andare in giro ad ascoltare voci che avevano sempre tanto da raccontare.

-Irù, portaci u pani o zu Vanni- e lei partiva e portava una pagnotta a un vecchio cieco che viveva in una stanza che si affacciava su una grande terrazza che dominava tutto il paese; che era attraversata sempre dall’odore del mare; che ascoltava la voce imponente del vento che arrivava alla pelle e alla mente di quel malandato vecchio che di nulla aveva bisogno, se non di un pezzo di pane e un bicchiere di vino, dove ammorbidire il profumo del grano, e sentire l’ odore che lo portava tra i filari delle viti con pampini enormi e le cantine odorose di mosto.

-Zu Vanni, qua c’è il pane.-

Lui sorrideva e Irù raccoglieva quel sorriso sdentato e se lo portava a cusciuliari. Poi tornava a casa e su dei fogli scriveva parole su parole, descrivendo storie e sensazioni, segnando ricordi e emozioni. Giorno dopo giorno.

Cusciuta, era cusciuta! Sì, una volta. Poi, chissà come fu, quei fogli si trasformarono in un corpo mostruoso che vegliava notte e giorno su di lei e tenevano la sua mente stretta dentro un guscio terribile come una caverna dove non c’erano sorrisi, ma sguardi arrabbiati; e non c’erano parole, ma grida intrecciate e confuse; e non c’erano strade dove andare a cusciuliari. Tutto era buio. In quel buio, arrivava di tanto in tanto un soffio di vento che le attraversava i piedi. E lei camminava. Con il vento ai piedi, arrivava lì dove erbe selvatiche crescevano libere al limitare di una falesia, facendo da cornice alla bellezza infinita del mare.

Succedeva allora che sentiva il cuore gonfiarsi di malinconia, di grande nostalgia per quel mare a cui desiderava consegnare la sua vita. Cosa ne era stato di quella vita? Cosa ne era stato di quel suo cusciuliare in lungo e in largo, credendo che era gioia per sé e per gli altri incontrarsi? In cosa aveva creduto se non esisteva più niente di quello di ciò che era stata e voleva essere?

Girò piano lo sguardo, come per vedere se il mare avesse qualcosa da dirle. Vide onde che guizzavano allegre e nuvole bianche che vagavano lente aspettando che il vento dirigesse sicuro la musica del mondo.

Girò ancora lo sguardo e vide un velo di pioggia bianchissima come neve che faceva da tenda a un variopinto arcobaleno, che emergeva da un cerchio salato per poi nascondersi dietro il sipario di acqua di cielo.

…e Ares le dette i cavalli dai frontali d’oro:

lei montò sopra il cocchio, disperata in cuor suo,

accanto le saliva Iris e prendeva in mano le briglie,

frustò alla corsa e quelli, non contro voglia, presero il volo.

Subito poi raggiunsero la sede degli dei, l’Olimpo scosceso;

qui fermò i cavalli Iris veloce, che ha nei piedi il vento,

li sciolse dal carro e a loro gettò foraggio immortale;

intanto la divina Afrodite s’abbandonava in grembo a Dione,

sua madre; e lei strinse tra le braccia la figlia sua,

l’accarezzò con la mano, articolò la voce e disse:

«Chi ti ha fatto una cosa così, figlia mia, tra i Celesti,

senza ragione, quasi avessi fatto del male sotto i suoi occhi?»

Le rispondeva allora Afrodite che ama il sorriso:

«Il figlio di Tideo m’ha ferito, il tracotante Diomede,

perché io il figlio mio volevo sottrarre alla guerra,

Enea, che fra tutti mi è di molto il più caro.

Ormai la battaglia crudele non è più tra Troiani ed Achei,

ma anche agli immortali adesso i Danai fanno la guerra»².

Iris, che ha nei piedi il vento, percorse tutti i colori dell’arcobaleno e sparì dietro la tenda di acqua di cielo dove le nuvole, cusciute, seguivano il vento.

 ¹Cusciuta, nel dialetto palermitano indica chi va spesso in giro per le strade. Cusciulera è il termine usato nell’agrigentino per dire la stessa cosa. Cusciuliari ne è il verbo.

² Omero, Iliade, libro V, 363-380

Vespe, api e malvasia

25 martedì Ott 2022

Posted by paolina campo in Salina

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Tag

api, vecchio post, vendemmia, vespe

Se ami la terra, questa ti da soddisfazione

Così mi aveva detto una volta un contadino, mentre con orgoglio mi mostrava un campo di rigogliose piante di ortaggi, viti e alberi da frutto. Quell’uomo dalle mani forti e rugose, mi spiegava che  amare la terra significa innanzitutto rispettare l’avvicendarsi delle stagioni che scandiscono le feste comandate e  il lavoro  nei campi: c’è un tempo per zappare, uno per concimare e uno per seminare.

 A Malfa, piccolo comune dell’isola di Salina, nell’arcipelago delle Eolie, con forti e ricche tradizioni contadine, dopo Natale si potano le viti e si ammausa.  Ammausare  nel gergo eoliano significa legare i tralci buoni delle viti che, dopo la potatura, sono stati lasciati appositamente nella pianta perché questa si rigeneri.

L’arte di ammausare, che volendo azzardare un’etimologia della parola potrebbe proprio significare usare le mani, è affidata alle donne. Tra gennaio e febbraio, uomini e donne vanno insieme nella vigna: gli uomini avanti per potare e dietro le donne per ammausare. Con l’arrivo della primavera, i tralci si moltiplicano, sostenendo i primi racimoli d’uva vestiti di grossi pampini.  Il sole d’agosto completa il periodo di colorazione dell’uva che ora si mostra nera, bianca o dorata e il contadino ha un altro appuntamento: trascorso il tempo di festa per il santo patrono di Malfa, San Lorenzo, il 10 di agosto, si torna alla vigna per spogliare i grappoli ormai consistenti e mostrarli finalmente a quel sole che li farà completamente maturare. Arriva quindi il tempo della vendemmia, dal latino vindemia, parola formata da vinus, vino e demia, forma del verbo demere, levare via, prendere. Prendendo il vino, si segna il passaggio dall’estate all’autunno e si fa festa per dire arrivederci al caldo sole estivo. L’uva, sistemata nei cuofani, grandi ceste di canne intrecciate, viene portata nei palmenti per essere pigiata e trasformata in mosto.

Tutta l’uva è destinata al palmento, tranne quella dorata, l’uva malvasia, arrivata a Salina nel XVI secolo insieme al culto di Santa Marina. Questa, una volta raccolta, viene stesa con cura sui cannizzi, letti di canne intrecciate che permettono agli acini un’ottima aerazione durante l’esposizione al sole.

Arriveranno le vespe e poi le api. Dopo, l’uva stesa al sole è pronta.

Altra nota di saggezza contadina, appresa mentre mi fermavo davanti a una delle case storiche di Malfa, colpita dalla bellezza delle rose che circondavano il giardino. I romani piantavano rose in fondo alla vigna per attirare gli insetti, perché avevano capito che erano proprio loro a migliorare il vino. Vespe e api sono molto simili tra loro ma hanno delle caratteristiche fondamentali che le distinguono. La differenza che qui interessa, a proposito dell’uva è che le vespe sono onnivore, e quindi dotate di forti mandibole, mentre le api succhiano sostanze dolci.

Uno studio condotto presso l’istituto di microbiologia dell’Università di Firenze¹, ha dimostrato che i lieviti di fermentazione del vino non sono presenti nelle cantine, ma vengono trasportati da vespe e calabroni nei loro intestini e depositati sugli acini. Le vespe bucano l’acino e rilasciano lieviti di fermentazione. Intanto le api iniziano i loro voli di perlustrazione e quando le loro cugine hanno finito il lavoro di bucare tutti gli acini, tornano all’alveare e segnalano alle compagne il luogo dove trovare abbondante cibo. Un giro a destra e poi a sinistra; testa in giù, testa in su; movimento svelto dell’addome e poi ancora un giro, e le api ballerine indicano la sorgente del cibo, considerata la distanza dall’alveare e la posizione del sole. Già il grande filosofo greco, Aristotele, aveva scoperto la danza delle api ma non ne aveva capito il motivo.

La danza delle api è un ingegnoso scambio di segnali che lo scienziato Karl von Frisch studiò a fondo, tanto che le sue ricerche gli valsero il premio Nobel nel 1973 proprio per gli studi condotti sul comportamento dei pesci e delle api. Ma torniamo sui nostri cannizzi, dove arrivano sciami di api che trovano l’acino rotto e succhiano la soluzione zuccherina permettendo all’acino di rinsecchire invece di marcire. La Natura sa quello che fa. Il contadino può quindi ritirare i cannizzi e quell’uva dorata è pronta per diventare il nettare tanto apprezzato, la Malvasia,  che sa di sole, di mare e di terra vulcanica.

Dopo la vendemmia, si torna tra i filari e si svecchia, si libera la vite dai tralci vecchi per ricominciare un altro ciclo dell’uva, di vespe e di api. Ma solo dopo Natale.

Evanescente

17 domenica Gen 2016

Posted by paolina campo in pensieri

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Tag

evanescenza, fluente, flussione, immagini, Newton, stupore infinito, vecchio post

foto (3)

 

albe

Cosa è evanescente? Un ricordo che si perde negli abissi più profondi del mare? Un desiderio che si spinge sempre più in alto fino a volere toccare le stelle?

Capitò, come capita a molti, di dovere decidere l’argomento della mia tesi di laurea. Cominciai, quindi, a pensare a quello che più mi aveva colpito nel corso dei miei studi e cosa avrei voluto meglio approfondire, anche cercando di capire quali potevano essere i miei limiti. Nella mente mi frullava l’idea di discutere di un film che mi sembrò un serbatoio inesauribile di argomenti: 2001, ODISSEA NELLO SPAZIO. Tempo, spazio, evoluzione, intelligenza artificiale, filosofia che “nasce con un prodigio“(A.N. Whithead). Ma poi c’era anche la musica così determinante nella descrizione delle scene del film, volte a sottolineare la poesia della storia del pensiero dell’uomo e la tensione verso qualcosa che era sempre oltre il monolito che segnava il limite della conoscenza umana per cui dopo c’è sempre qualcosa, come quell’infinito oltre la siepe dove Leopardi dolcemente immaginò di naufragare.

Infinito, illimitato, απειρον a cui gli antichi matematici greci pensarono come a un’idea negativa associata al male, contrapposta al finito, limitato, vicino al bene.

Ecco di cosa mi sarei voluta occupare: l’infinito nella storia della matematica. Con i numeri ho sempre avuto un buon rapporto e confrontarmi con divisioni di segmenti in media ed estrema ragione, lunule, quadrature del cerchio e quella terribile scoperta dell’incommensurabile √2 che portò Ippaso, discepolo apostata di Pitagora, alla morte per annegamento in mare (nel mare dell’infinito?), mi entusiasmò.

In viaggio con numeri razionali e irrazionali, con misurazioni discrete e continue arrivai in Inghilterra dove le fluenti e le flussioni di Newton mi parvero come onde sulle quali navigare per perdersi in qualcosa di immenso. Ma di cosa sto parlando? Newton definì fluente la quantità generata da un moto continuo; flussione la velocità con cui si genera la fluente. Partendo da O (nelle foto, il mare), due punti A e B ( io, ad esempio, e quello che in quel momento stavo guardando) viaggeranno con velocità diverse mantenendo costante il rapporto, per cui ogni istante si arricchirà del momento in cui ho fatto la foto e dei momenti, ogni volta diversi, in cui mi troverò a osservare quel paesaggio.

Ma fino a quando continuerà il viaggio dei due punti? Fino a quando, diceva Newton, i rapporti tra i loro incrementi sarebbero diventati evanescenti. A me piacque molto questa parola e, superando le obiezioni matematiche che portarono Newton a parlare di evanescenza dato che, come scriverà B. Russell, “Newton ignorava completamente, com’è naturale, che i suoi lemmi dipendessero dalla moderna teoria della continuità” (B. Russell, I principi della matematica, Newton Compton editori, Roma, 2009, pag.353), la riempii  di quell’alchimia di emozioni che vedevo specchiati e scritti nell’esplosione di colori e immagini di cui ero assolutamente partecipe. Ecco che per quantità evanescente, decrescente verso O, avrei inteso la possibilità di perdersi tra le storie fantastiche delle Nereidi; e per quantità nascente, crescente da O, la tensione verso quel mondo che si incontra nei sogni, nella capacità di stupirsi. Quanto può essere grande la capacità di stupirsi?  Quanto è possibile desiderare? Fino a quando possiamo viaggiare con la fantasia? All’infinito. O almeno, fino a che saremo capaci di ascoltare, guardare, emozionarci, commuoverci saremo anche capaci di navigare nel mondo del desiderio e dello stupore e conservare il cuore di un “ragazzo che gioca sulla riva del mare, divertendosi di quando in quando nel trovare un ciottolo più liscio o una conchiglia più bella del solito, mentre il grande oceano della verità giaceva interamente sconosciuto davanti a me” (E. Turner, Collectiones for the History […] of Grantham, London 1806, pag. 173).                                                                                                                                                                                                                                         foto (16)

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