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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Archivi tag: storia

Harry

02 mercoledì Nov 2022

Posted by paolina campo in Eolie, storia

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'Nto scurari, eruzione, fantasia, inglesi, storia, vecchio post, vulcano

Tutto può accadere nei sogni, anche di vedere un albero in mezzo al mare che ha radici negli abissi e rami persi tra le nuvole. Con foglie larghe come quelle di un banano, ma non è un banano. E foglie piccole come quelle di un ulivo, ma non è un ulivo.

Un albero. In mezzo al mare.

– Era meglio che rimanevo al mio paese e marcire in carcere invece di seguire quel pazzo di Mr. Stevenson!

Harry parlava, si arrabbiava e remava. Sbuffava e se la prendeva con i pesci che nuotavano liberi e seguivano la sua barca.

– Cosa avete da guardare? Cosa ne sapete voi della fame? E’ per colpa sua che sono qua ora!- e intanto gli rimbombavano nella mente e nel cuore i boati di Vulcano e il frastuono della sua vita.

Conosceva bene la solitudine, in tutte le sue forme, anche quella che si sceglie per difendersi, per continuare a sentire che respiri ancora. I suoi genitori l’avevano abbandonato per strada e questa era diventata la sua casa. Aveva conosciuto ladri, ubriaconi, approfittatori. Imparò l’arte di arrangiarsi. Imparò che doveva bastare a se stesso, che guardarsi intorno era l’unico modo per sopravvivere sia quando i crampi allo stomaco lo spingevano a rubare o elemosinare qualcosa, sia quando il sonno arrivava inesorabile a chiudergli gli occhi,  a spingerlo a piegarsi in un angolo di marciapiede per trovare un fugace rifugio.

Un giorno la polizia lo prese, dopo una corsa tra le vie più impervie di quella città dove neanche la nebbia, quella volta, lo aveva protetto e nascosto.

Finì in carcere e pensò che almeno per un po’ avrebbe avuto un tetto sulla testa. I giorni cominciarono a susseguirsi stanchi, lenti, scanditi dalle voci di malfattori e assassini che trascorrevano il tempo tra imprecazioni e racconti che impregnavano l’aria di sangue e vendetta. Harry ne aveva sentite di storie strane di fattucchiere, streghe, scope volanti e maghi e folletti che apparivano e sparivano tra il buio e la nebbia dei vicoli della sua città. Di notte la città di Glasgow era popolata da ubriaconi, donne grasse dagli occhi terribili e poveracci che si rannicchiavano sotto le panchine per ripararsi dal gelo. Di giorno, su quelle stesse strade sfilavano superbi ricconi e bellissime dame. Harry li guardava, li osservava e non capiva se per quella gente provava invidia, rabbia o ammirazione. Proprio uno di loro lo aveva reclutato, insieme ad altri galeotti, per formare l’equipaggio di una nave a vapore che avrebbe solcato l’oceano e superato lo stretto che separava Europa e Africa, per raggiungere il Mediterraneo. Qualcuno gli aveva detto che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso, ma sarebbero arrivati in un posto dove il mare abbracciava isole che profumavano di vino ambrato, dolce e inebriante; dove le donne lavorano nei campi e conoscevano i pesci, il vento e il mare, e alcune di loro la notte si spalmavano di oli e volavano verso terre lontane per tornare all’alba nei loro letti, a scaldare i loro uomini. Harry non sapeva nulla delle mire egemoniche inglesi descritte su articoli dei  giornali, ma quel viaggio soddisfaceva la sua curiosità di gran sognatore.

 Mr James Stevenson, ricco imprenditore inglese, aveva fiutato un buon affare proprio in mezzo al Mediterraneo dove spagnoli, francesi e inglesi si contendevano terre, sbocchi sul mare e traffici proficui come quello dello zolfo e dell’allume.  Il ricco imprenditore scozzese aveva comprato l’isola di Vulcano, nell’arcipelago delle isole Eolie, da un generale dell’esercito borbonico, dopo la caduta del Regno delle due Sicilie. Partì quindi con tutta la sua famiglia, per ingozzarsi di potere e di denaro. Era il 1885 e Harry si imbarcò su una nave a vapore per lavorare come fuochista, insieme ad altri galeotti che insieme a lui furono chiusi in grandi cabine dove il rumore dei motori era assordante e il calore toglieva loro il respiro. Si lavorava a gruppi e una volta, stremato dalla fatica, crollò per terra prima di raggiungere un giaciglio dove potersi distendere.

Si addormentò poi, seduto in un angolo e sognò uno strano albero: era grande, grandissimo, e sorgeva tra le onde del mare. Aveva radici che si allungavano nelle profondità degli abissi e i rami si allungavano fino a perdersi tra le nuvole. Foglie larghe, foglie strette, a forma di cuore o tonde e smerlate componevano una chioma irregolare e strana. Ogni tanto una delle foglie cadeva in acqua e sembrava portasse impresso un messaggio. Allora arrivava un’onda, raccoglieva la foglia e la portava con sé. Dove la chioma si diradava appena, piccoli gnomi scrivevano e sembrava avessero tanto da fare: sulle foglie larghe scrivevano storie; su quelle medie messaggi, aforismi; su quelle piccole, le parole che mai devono essere dimenticate. Harry si vide trasportato da una nuvola fino a raggiungere uno degli infaticabili scrivani che appena lo vide, gli sorrise e gli spiegò che stava scrivendo proprio la sua storia. Ma che storia era la sua? La storia di un povero disgraziato che non sapeva neanche dove era finito.

Fu svegliato da un vocione che gli intimava di tornare al lavoro. Harry aveva sempre creduto ai sogni e sicuramente tra le onde del mare delle donne volanti, doveva esistere un albero che nasceva dal mare e non dalla terra.

L’isola di Vulcano apparve come un’immensa miniera d’oro agli occhi di Stevenson, e una meravigliosa, magica apparizione agli occhi dei fuochisti sporchi di carbone: il blu del mare, il verde di piante selvatiche che a chiazze prendeva il posto del giallo dello zolfo che spargeva nell’aria un pesante odore di uova andate a male. E poi il bianco dei vapori che qua e là si aprivano un varco tra la roccia e che sembrava manifestare l’esistenza di giganti fuochisti dentro la montagna che lavoravano incessantemente per dare vita a quel posto.

Sbarcati sull’isola, si pensò subito ad avviare la fabbrica per l’estrazione dello zolfo e Harry e i suoi compagni furono alloggiati in grandi cameroni attigui alla fabbrica. Stevenson si fece costruire un elegante dimora e visse tra gli agi, fino a che i diavoli del vulcano non uscirono dai crateri e lanciarono grosse  pietre che distrussero la fabbrica. Un masso a crosta di pane si conficcò proprio sul tetto della bella casa dei ricchi scozzesi che corsero in cerca di una barca per fuggire da quell’isola infernale. Scapparono via mentre i diavoli di Vulcano se la godevano sguazzando tra i bollori dell’acqua sulfurea.

L’imprenditore non tornò più sull’isola. Harry, preso da una grande paura, era sceso anche lui in riva al mare e sulla battigia aveva preso un gozzo e aveva cominciato a remare, affannandosi e imprecando. Era il 3 agosto del 1888, un giorno che non avrebbe mai più dimenticato. Si trovò al largo, stanco e confuso. Frenò la sua ira e non remò più e, disteso a poppa del gozzo, si fece trasportare dalle onde. L’aria era limpida e l’odore del mare lo raggiungeva come una carezza. Chissà come è stato: all’improvviso una grande foglia gli si posò sul viso. La prese tra le mani e lesse la sua storia. In lontananza, tra la folta chioma di un grande albero, uno gnomo scrivano lo salutava. Harry pensò che aveva ragione: ai sogni bisognava credere e quell’albero ne era la prova.

Continuò quindi a dormire, lasciando che le onde si occupassero di lui e segnassero il suo destino.

∗http://www.ct.ingv.it

∗http://www.giornaledilipari.it/lalbum-dei-ricordi-leruzione-del-1888-a-vulcano/

∗http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3211

∗Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia, trad. e note Carlo Ruta, Edi.bi.si., Palermo, 2004, pag.61

∗Gastone Vuillier, La Sicilia-impressioni del presente e del passato, nota intr. di Francesco Brancato, Edizioni Grifo, Palermo, 1995, pag. 401 

Il grande albero

30 giovedì Dic 2021

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, meraviglia, piazza Asmundo, storia, via della Mecca

Un grande albero osserva me mentre io osservo il dispiegarsi della storia. Ne ascolto il battito, il respiro, immaginando di leggere tra le pieghe del paesaggio, osservando ogni pietra, ogni elemento da cui evaporano parole e immagini. Una colata di asfalto raggiunge antichi basolati in pietra. Corde tese scorrono attraverso carrucole, in un andare e venire di bucato che profuma di pulito e di futuro: vestiti stesi al sole, rigeneratore di vita, raccontano di bambini che popoleranno la piazza nel pomeriggio, quando saranno liberi dai loro impegni scolastici. Non è grande questo scrigno circondato di storia che si perde nei secoli. In queste ore del mattino, il palazzo Asmundo, che da’ il nome alla piazza ed è uno splendido esempio del barocco catanese, resta all’ombra come una vecchia signora che ha paura di esporsi alla luce del sole: guarda con orgoglio la via Crociferi che le sta di fronte ( tra vecchie e nobili signore ci si intende) e si fa espressione di quella rinascita cittadina avvenuta dopo il terribile terremoto del 1693. Da un lontanissimo passato sento lo scalpitio rumoroso e cadenzato dei cavalli del conte Ruggero, al cui seguito la famiglia Asmundo aveva raggiunto la Sicilia. Originari di Pisa, ricoprirono importanti ruoli nella storia politica e culturale dell’isola. 1434: Adamo Asmundo, insieme a Battista Platamone, membro di un’altra famiglia prestigiosa nel ‘400, fondava l’Università degli studi di Catania, una delle più antiche d’Italia e del mondo.

Cosa nasconde l’ albero che continua a guardarmi, che continua a stuzzicare la mia curiosità? Un edificio, grande, maestoso e severo alle sue spalle odora di rigore e sapienza: un antico monastero dei gesuiti ormai dismesso, dimenticato. Le imponenti finestre si affacciano su via della Mecca e consegnano all’ albero le voci sapienti dei monaci che nel ‘700 popolavano il convento. Via della Mecca. No, non è un riferimento ad antiche religioni orientali, ma al grande sogno di un uomo che agli inizi del ‘900, aveva pensato a una casa cinematografica, l’ Etna Film, che nell’ idea di don Alfredo Alonzo doveva essere guardata come un miraggio, come un grande esempio per tutto il mondo.

Tra i rami del grande albero maturano storie e leggende e come frutti ormai troppo maturi, aspettano che qualcuno le raccolga e ne apprezzi il sapore.

Devo andare.

Ammausari

17 martedì Nov 2020

Posted by paolina campo in pensieri

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parole, storia

Un ominide lancia un osso in aria, segnando l’inizio dell’evoluzione dell’uomo (Stanley Kubrik, 2001-Odissea nello spazio). Il linguaggio e la capacità di numerare saranno gli strumenti essenziali per muoversi e progredire. Attraverso il linguaggio l’uomo ha potuto trasmettere emozioni, desideri, segnalare un pericolo, discutere della validità o falsità di un’ipotesi (funzione argomentativa di cui parla Popper).

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.

Genesi, 11,1

Secondo la Genesi, gli uomini, agli albori della loro civiltà, usavano tutti le stesse parole, si esprimevano tutti con lo stesso linguaggio. Fino a quando non iniziarono a costruire una Torre, con la quale avrebbero voluto toccare il cielo. Il Signore punì la loro presunzione, disperdendoli su tutta la terra e confondendo la loro lingua.

Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra

Genesi,11,1

Questa premessa mi apre alla possibilità di parlare della ricchezza delle parole e della diversità dei modi di dire nel percorso triangolare Palermo-Salina-Catania, percorso a me molto familiare.

Io – Iò – Iù, pronome personale soggetto, prima persona singolare, nell’ordine: a Palermo, a Salina, a Catania

Est, verbo essere, terza persona singolare, usata nell’antica Roma ma anche oggi a Salina.

Muriu-murù-mossi, tre parole per dire “è morto” a Palermo, a Salina, A Catania.

Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme, in Sicilia come in tutte le parti del mondo. Come non pensare alle colonizzazioni, all’America, all’Australia dove i nostri emigranti hanno adattato i loro dialetti, costruendo altre parole. Apri una parola e ci trovi gli spagnoli, i francesi, i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi, i sicani, i latini, gli etruschi. E’ importante riflettere sulle parole? Credo proprio di sì. Credo sia importante per riuscire a guardarsi dentro e scoprire che oltre quello che ascoltiamo, vediamo, oltre quello che i nostri sensi ci offrono c’è un mare di storie, volti, paesaggi tutti da interpretare.

Ammausari, vinnigna, cuofani, valliri: un dipinto di parole che descrivono campi, filari di viti, pampini, uva, uomini e donne che lavorano alacremente tutto l’anno. Siamo a Salina.

Ammausari è un termine che indica la tecnica di legare i tralci buoni delle viti che, dopo la potatura, sono stati lasciati appositamente nella pianta perché questa si rigeneri. Volendo azzardare un’etimologia della parola ammausari, potremmo pensare proprio al significato di usare le mani per legare i tralci buoni, lavoro spesso affidato alle donne.

Vinnigna, vendemmia, dal latino vindemia, parola formata da vinus-vino e demia, forma del verbo demere, cioè levare via, togliere. Prendendo il vino, si segna il passaggio dall’estate all’autunno e si fa festa per dire arrivederci al caldo sole estivo. L’uva, sistemata nei cuofani, grandi ceste di canne intrecciate, viene portata nei palmenti per essere pigiata e trasformata in mosto. Tutta l’uva, tranne quella dorata, l’uva malvasia che, una volta raccolta, viene stesa con cura sui cannizzi, letti di canne intrecciate, che permettono agli acini un’ottima aerazione durante l’esposizione al sole.

Ni viremu, bonasira, salutamu.

A presto!

Murìu, murù, mossi-dinamismo tra parole

11 lunedì Feb 2019

Posted by paolina campo in filosofia, Sicilia, storia

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langue, parole, Saussure, storia

 

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-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

         -Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

         -Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

         -Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!

-Oggi si va al mercato! E poi al mare!- disse la zia

Attraversarono via Maqueda e si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva come un venticello allegro un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?-

Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’ idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

La dinamica tra LANGUE e PAROLE ipotizzata da Saussure è complessa e stratificata e la mediazione fra fatto sociale e individuale si può configurare nella capacità della mente umana di contemplare associazioni mentali individuali, accanto ad associazioni mentali ratificate dal consenso sociale.

AA.VV., La mente, a cura di Stefano Gensini e Antonio Rainone, Carocci editore, Roma, 2009, pag.197

Il respiro di un luogo

13 mercoledì Dic 2017

Posted by paolina campo in Salina

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articolo, riveduto e corretto, Salina, storia, tradizioni

Di un luogo se ne può sempre sentire il respiro, anche se si è lontani, soprattutto se quel respiro ti è entrato dentro e circola costantemente e per sempre nei tuoi pensieri. Di un luogo puoi ascoltare tante voci quante ne sei capace di trovare, aprendo le porte della sua storia.

Si apre una porta. Ci sono dei bambini, giocano a iadduzzu, a galletto.

Spinni tu e spinnu iò

E’ già Natale e la magia di cristalli di zucchero attaccati ai grappoli di uva passa, fa scintillare gli occhi dei bambini. A settembre gli uomini avevano provveduto al lavaggio con acqua di mare di cannizzi, cuofini e botti. Avevano portato tutto giù al molo e alzando su le maniche delle camicie e i gambali dei pantaloni, erano entrati anche loro in acqua. C’era stata la vendemmia e poi la pigiatura dell’uva da vino, e la paziente operazione di essiccamento dell’uva malvasia stesa al sole sui cannizzi. Una volta raccolta tutta l’uva, la signora Elena aveva riempito d’acqua una grande quadara, un grande pentolone di alluminio, per preparare la liscia, una sorta di sciroppo dove al posto dello zucchero si faceva sciogliere nell’acqua la cenere di tralci di uva che la signora era solita fare bollire per 36 ore. Trascorso quel lungo bollore, si era munita di una grossa schiumarola dal manico lungo e, sistemati nell’utensile i grappoli di minnilottina, uva prelibata, li aveva immersi nella liscia bollente. Quando i chicchi dell’uva cominciavano ad aprirsi, comare Elena aveva tirato fuori i grappoli che con delicatezza dovevano essere sistemati sui cannizzi. Bisognava rigirali tante volte nel corso dei giorni che servivano perché tutti i chicchi fossero raggiunti dal sole e diventassero scuri. Poi erano pronti per essere conservati in un panno di cotone bianco come la neve e riposti nella credenza fino a Natale. Questo periodo di incubazione avrebbe creato la magia degli zuccherini.

Spinni tu e spinnu iò

e chi spenna l’ultimo chicco di uva brillante di zucchero, paga il pegno.

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Lì, un faro sta di sentinella a un laghetto dove si produceva il sale che un tempo portò tanta ricchezza ai mercanti dell’isola di Salina. Si apre ancora una porta. C’é festa, la gente è allegra e sventola una bandiera. E’ il primo di maggio del 1918. Autorità civili e militari insieme ai cittadini della piccola ma popolata frazione di Lingua, inaugurano l’Ufficio Postale, voluto dal Cav. Giovanni A. Giuffre’. Rosina Lo Schiavo sarà la direttrice e le succederà Ersilia Grazia Dydime, figlia del notaio Domenico Giuffre’, primo sindaco di Santa Marina. Dydime, gemella. Didyme, altro nome di Salina che mostra due monti gemelli come il seno prosperoso di una donna che guarda la sorella Filicudi che, distesa su un letto azzurro, dialoga con il sole che alla sera le si avvicina sfolgorante di luce e colori.  Gli racconta la storia infinita di una madre in attesa del figlio che dentro di lei forgia la sua vita.  E poi, Lipari, come una vecchia signora, una nonna di un tempo, una zia come quelle che una volta esistevano, guarda tutte le sorelle che indaffarate si prendono cura del tempo di quello splendido specchio di acqua.

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A Salina c’è festa. Lo zio Bartuluzzo, quel signore con la bandiera in mano, è vedovo da tre anni e ha quattro bambini accuditi dalla zia Rosina, che fa da mamma a tutti. Quel bimbo vestito di nero è Nino, Nino Lo Schiavo, che da grande sarà direttore del periodico Avvenire Eoliano, dal 1927 al 1929, e più tardi riavvierà il commercio della malvasia, dopo il disastro della fillossera. Dietro di lui, Ersilia Grazia Dydime Giuffre’, fiera, come Dydime, come Salina.

 

 

 

Ringrazio Antonio Alizzi e il professore Angelo Cervellera per la loro disponibiltà.

Una Y in mezzo al mare

13 domenica Nov 2016

Posted by paolina campo in Salina

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capperi, mare, mediterraneo, passione, Sapori eoliani, storia, uva

I turisti lo sanno bene: le isole Eolie sono straordinarie. Una testimonianza eccezionale di quanto l’energia vulcanica possa creare catastrofe e bellezza maestosa e suggestiva,nello stesso tempo. Sette isole a forma di Y.¹

Y, come il cratere di un vulcano che lancia lapilli, cenere, magma, vapore, fuoco per generare bellezza all’infinito. Un Y tra le acque del Mediterraneo che già solo il nome evoca parole come terra, madre, remi, Dio, note, eterno e… meditare, remare, tremare, mirare. Parole su parole come onde che lambiscono la Y.

Salina è al centro della Y.²

Di un luogo se ne può sempre sentire il respiro, anche se si è lontani, specie se quel respiro ti è entrato dentro e circola costantemente e per sempre nei tuoi pensieri. Di un luogo puoi ascoltare tante voci quante ne sei capace di trovare, aprendo le porte della sua storia.

 

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Si apre una porta, lì proprio al centro di quell’incognita ( perché non ne sapremo mai abbastanza!): ci sono dei bambini, giocano a iadduzzu, a galletto.

Spinni tu e spinnu iò

E’ già Natale e la magia di cristalli di zucchero attaccati ai grappoli di uva passa, fa scintillare gli occhi dei bambini. A settembre gli uomini avevano provveduto al lavaggio di cannizzi, cuofini e botti con acqua di mare. Avevano portato tutto giù al molo e alzando su le maniche delle camicie e i gambali dei pantaloni, erano entrati anche loro in acqua. C’era stata la vendemmia e poi la pigiatura dell’uva da vino, e la paziente operazione di essiccamento dell’uva malvasia stesa al sole sui cannizzi. Una volta raccolta tutta l’uva, la signora Elena aveva riempito d’acqua una grande quadara, un grande pentolone di alluminio, per preparare la liscia, una sorta di sciroppo dove al posto dello zucchero si faceva sciogliere nell’acqua la cenere di tralci di uva che la signora era solita fare bollire per 36 ore. Trascorso quel lungo bollore, si era munita di una grossa schiumarola dal manico lungo e, sistemati nell’utensile i grappoli di minnilottina, uva prelibata, li aveva immersi nella liscia bollente. Quando i chicchi dell’uva cominciavano ad aprirsi, comare Elena aveva tirato fuori i grappoli che con delicatezza dovevano essere sistemati sui cannizzi. Bisognava rigirali tante volte nel corso dei giorni che servivano perché tutti i chicchi fossero raggiunti dal sole e diventassero scuri. Poi erano pronti per essere conservati in un panno di cotone bianco come la neve e riposti nella credenza fino a Natale. Questo periodo di incubazione avrebbe creato la magia degli zuccherini.

Spinni tu e spinnu iò

e chi spenna l’ultimo chicco di uva brillante di zucchero, paga il pegno.

Lì, dove un faro sta di sentinella a un laghetto dove si produceva il sale che un tempo portò tanta ricchezza ai mercanti dell’isola di Salina, si apre ancora una porta. C’é festa, la gente è allegra e sventola una bandiera. E’ l’1 maggio del 1918. Autorità civili e militari insieme ai cittadini della piccola ma popolata frazione di Lingua, inaugurano l’Ufficio Postale, voluto dal Cav. Giovanni A. Giuffre’. Rosina Lo Schiavo sarà la direttrice e le succederà Ersilia Grazia Dydime, figlia del notaio Domenico Giuffre’, primo sindaco di Santa Marina.

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Lo zio Bartuluzzo, con la bandiera in mano, è vedovo da tre anni e ha quattro bambini accuditi dalla zia Rosina, che fa da mamma a tutti. Quel bimbo vestito di nero è Nino, Nino Lo Schiavo, che da grande sarà direttore del periodico Avvenire Eoliano, dal 1927 al 1929, e più tardi riavvierà il commercio della malvasia, dopo il disastro della fillossera. Dietro di lui, Ersilia Grazia Dydime Giuffre’. Storia.

Posso ancora aprire un’altra porta, sì, quella che si apre dove il sole al tramonto ti strappa il cuore e spesso il vento parla e narra: c’era una volta…. Dietro questa porta soffia un delicato vento di passione e rispetto, giovane e affascinato, con occhi di cielo volati lontano perché anche gli angeli possano godere dei sapori e dei profumi eoliani.

 

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Su tutte le porte che si possono aprire, si schiude la speranza di potere abbracciare per sempre tanta bellezza, che diventi contagiosa, irresistibile per tutti, non solo per tanti. Per custodire un paradiso dove “non dovrebbero esserci più poveri”³.

¹www.partecipare.net/Paolo Basurto, PARADISI DA NON PERDERE-LE ISOLE EOLIE

²Ibid.

³Ibid., Antonio Brundu

I vulcani dei sapori

20 lunedì Lug 2015

Posted by paolina campo in Sicilia

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arancina, arancino, cucina, Etna, sapori, storia, Stromboli

 

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L’ arancina palermitana su una nave viaggiava e sul ponte di comando osservava il mare calmo. Ad un tratto, un odore familiare la distrasse dalla brezza di quel mare e vicina si trovò un turista particolare. Era lui, l’arancino catanese che, con fare confidenziale, iniziò così a parlare:

-Sei ben tonda cara amica! Così tonda da non stare ferma in piedi- disse serio il siciliano orientale.

-Sono tonda e me ne vanto! Sono quello che la storia ha voluto raccontare in mille anni e forse più. Delle cupole rotonde ho la forma maestosa e racchiudo nel mio ventre tante spezie profumate e piccanti e saporite, in un misto di colori quanti furono quei popoli che lasciarono l’impronta di culture prestigiose.

Ma tu dimmi, a cosa devi quei tuoi fianchi tanto larghi? E quella punta sommitale tanto stretta e appuntita?-chiese infine la siciliana occidentale.

-Hai presente quel vulcano che la gente tanto stima e ne segue il murmuriu che scatena fuoco e fiamme? La Muntagna è assai importante! Custodisce antiche storie e leggende millenarie. Nel mio cuore è custodito il furore del vulcano: sugo rosso come il fuoco, carne tenera a pezzetti come lava appena spenta dove spicca del formaggio come neve sulla vetta di quel magico vulcano.-

-Sai, ho visto il tuo vulcano!- lo interruppe l’arancina arabeggiante- Una sera vespertina, allungava la sua vista a rapire con lo sguardo quelle cupole rotonde, rosse come il suo furore.-

-C’è un fuoco che come fiume attraversa questo mare e con forza si rivela nella fiamma spumeggiante. Guarda, amica cara! Giunti siamo a quelle sponde dove il fuoco ha generato lidi splendidi e montagne e la gente laboriosa ne ha esaltato la bellezza.-

-Guarda è Iddu, che risponde alla Muntagna con un tuono sconvolgente!-

-Fitta e densa è quella lava che fluisce nei fondali e conosce la grandezza della storia millenaria che in cucina si racconta con la forma e i sapori di arancine e arancini, di nacatuli e spicchitedda che conoscono le donne di una terra generosa.-

I miei libri

era
vi racconto
l'uomo di
A fine giornata
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