-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-
La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.
-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-
-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-
E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.
-Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-
-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.
A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!
-Oggi si va al mercato! E poi al mare!- disse la zia
Attraversarono via Maqueda e si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva come un venticello allegro un forte e invitante odore di sfincione.
-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.
-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-
-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-
Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.
-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?-
Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-
Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.
-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’ idea di realizzare una giornata fantastica.
E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.
La dinamica tra LANGUE e PAROLE ipotizzata da Saussure è complessa e stratificata e la mediazione fra fatto sociale e individuale si può configurare nella capacità della mente umana di contemplare associazioni mentali individuali, accanto ad associazioni mentali ratificate dal consenso sociale.
AA.VV., La mente, a cura di Stefano Gensini e Antonio Rainone, Carocci editore, Roma, 2009, pag.197