Al tramonto gli uomini si erano raccolti in cantina e, come al solito, avevano discusso e bevuto, bevuto e discusso.
-Fammi conoscere tua moglie…la prendo io!
-Che hai capito?!?! Per raccogliere i capperi!!!
E giù vino e risate.
-Fedicei, ma che cavolo di nome hai?
A fine serata non avrebbero capito più nulla, né dei loro discorsi e neanche quale uscita imboccare per tornare alle loro case: qualcuno si perdeva tra l’erba dell’orto dove trovavano spazio gli alloggi per conigli e galline; qualcun altro seguiva incerto la strada che portava alle viti; altri si addormentavano in cantina, prigionieri di un’ebbrezza dionisiaca. Fedicei aveva i capelli bianchi e beveva appena un bicchierino di malvasia. Quella cantina era la sua vita, ci aveva lavorato tanto. Guardava con attenzione le botti che dovevano essere portate al molo di scalo Galera: l’acqua salata del mare le avrebbe pulite e sterilizzate. Era un lavoro che andava fatto, per ogni botte, almeno ogni cinque o sei anni e quelle che si trovavano subito a destra dell’entrata alla cantina avevano bisogno di essere pulite. Decise di andare a letto e lasciare i suoi compari ai loro bicchieri profumati di allegria. Avrebbe aspettato il giorno dopo per parlare delle botti.
Fedicei era arrivato a Salina perché qualcuno aveva raccontato a suo padre che su quell’isola si stava bene. Avrebbe trovato terreni fertili e aria buona e non avrebbe conosciuto più la miseria se solo avesse lavorato sodo. Si decise quindi a partire da Barcellona Pozzo di Gotto alla volta di quell’isola felice.
-Fedicei, dove sei?
Il suo nome sembrava una specie di riassunto di quello che era la sua vita: una spinta continua verso la felicità che si trovava sempre in posti diversi da dov’era lui. I genitori avevano deciso di chiamarlo Felice, come il nonno paterno. Ma proprio quando stava per nascere, arrivò la notizia che un fratello di suo padre era morto al fronte. Si chiamava Cielo per un vezzo un po’ particolare del nonno che andava in giro per le strade del paese a recitare:
S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo; s’i fosse vento, lo tempestarei; s’i fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo; s’i fosse papa, allor serei giocondo, ché tutti cristiani imbrigarei; s’i fosse ‘mperator, ben lo farei; a tutti tagliarei lo capo a tondo. S’i fossi…..
-Ma che racconti?- gli gridava dietro la gente.
-Cielo, cielo!- rispondeva lui.
Mischiando le sillabe di Felice e Cielo, e adattando un po’ il senso, era venuto fuori Fedicei, un nome strano ma che sapeva di sogni lontani, di stelle antiche e stanche. La famiglia di Fedicei si stabilì a Capo, nei pressi della chiesetta di Sant’Anna, e lì iniziarono la loro attività di contadini. Coltivarono la vite e il loro orgoglio più grande era la produzione della Malvasia. Avevano saputo della fillossera, di come le piante erano state attaccate e distrutte. Tanta gente era stata costretta a lasciare quell’isola verde. Ma bisognava ricominciare, era necessario lavorare in quei campi e farli tornare al loro splendore. Chi va via non torna più e ciò che si è lasciato va recuperato, tutelato e salvato da chi di un luogo riesce a sentirne il respiro, e la famiglia di Fedicei si riempì i polmoni dell’aria di quell’isola che aveva bisogno di cure. Seguendo il trascorrere delle stagioni, si zappava, si potava e si portavano le botti a mare. Legate sulla schiena come fossero grossi zaini, i contadini percorrevano a piedi la contrada di Capo Faro e Capo Gramignazzi fino ad arrivare a Malfa. Qui raggiungevano la lunga scala che portava al molo e giù, piano piano, facendo attenzione a non perdere l’equilibrio, fino al mare che avrebbe aiutato quegli uomini forti spingendo le onde fin dentro le pance capienti delle botti di legno. Fedicei aveva sempre seguito il padre e andare al mare gli piaceva tantissimo: la frescura, l’odore e il gioco delle onde gli davano tanta allegria. Una volta lavate, le botti si asciugavano al sole e gli uomini si concedevano un po’ di riposo mentre i ragazzi facevano il bagno. Arrivava la sera e bisognava portare i barili in cantina. Il ritorno sarebbe stato più faticoso: le botti umide erano più pesanti e la scala era tutta in salita!
L’uomo dal nome strano era vecchio ormai e, disteso sul letto, pensava a come riusciva a fare quel lavoraccio e dove trovava la forza, lui che non era neanche un grande uomo: piccolo e magro, andava e tornava. Era la spinta dell’entusiasmo, era la gioia di fare con gli altri era… era che era giovane e forte, nel fisico e nell’animo.
Quel giorno di primavera si decise di andare alla Praiola. Nonostante avessi vissuto tanti anni sull’isola, pensavo che avremmo raggiunto un campo dove crescevano spontanei rigogliosi papaveri e profumato finocchietto selvatico, come in tanti appezzamenti di terra coltivati a ortaggi o capperi. Per questa mia convinzione non mi impegnai mai a saperne di più, né, tra i miei amici o conoscenti, qualcuno mi aveva mai invitata a fare una passeggiata da quelle parti. Così, quando ricevetti l’invito, accettai volentieri, pensando sempre che sarei arrivata in un campo pieno di papaveri. Partimmo presto quel pomeriggio e iniziammo a seguire uno stretto sentiero, un percorso che si faceva largo tra antichi terrazzamenti abitati da secolari alberi di ulivo, severi nella loro arcaica maestosità, e allegre ginestre odorose la cui chioma ramificata sembrava volere accarezzare i visi di chi in quel momento popolava quella parte di montagna. La terra arida, le pietre disseminate lungo il cammino e l’idea di incontrare serpi che avrebbero sfidato l’audacia di qualunque visitatore, imponeva una certa attenzione. Quindi era necessario fermarsi di tanto in tanto se si voleva guardare il mare che ai piedi della montagna si mostrava così trasparente da mostrare gli scogli sott’acqua, per poi, man mano, abbandonare il verde riflesso alla riva, per diventare più blu e poi sbiadire fino a quando sembrava congiungersi con il cielo. Dopo un breve intervallo di abbandono poetico, bisognava tornare sui propri passi e godere dell’odore delle erbe selvatiche e del brivido improvviso che attraversava la schiena quando si avvertiva un fruscio: avevamo infastidito un serpente? Arrivammo a Valle Spina e fu tutta una sorpresa. Non c’erano papaveri, ma un grande spazio aperto, una fetta di mondo, specchio di tutto ciò che la circondava, capace di generare una catena di emozioni che si espandeva come galassia che pulsava di vita. E la Praiola? Un tratto di costa, alla fine di una scarpata dove la roccia si tuffava, dove la sera si poteva osservare la magia di un amore negato: dopo un rapido sguardo, il sole e la luna si dicevano addio mentre l’uno spariva sul suo cavallo dorato e l’altra sorgeva, illuminando la costa di luce argentata.
Oggi mio padre avrebbe compiuto 90 anni e ne sarebbe stato orgoglioso: la vita per lui era una bellissima avventura, tutta da sperimentare, giorno dopo giorno, momento per momento, nonostante le difficoltà, gli acciacchi dell’età, le amarezze e le delusioni. Era sempre lì, pronto a combattere per guardare sempre al futuro, per progettare una vita che duri per sempre. Per realizzare questo progetto raccontava storie perché nulla mai fosse dimenticato. Sapeva che la memoria era il porto a cui approdare per poter vivere a lungo. Ripropongo oggi uno dei racconti che scrissi poco dopo la sua scomparsa: c’era un progetto nel suo paese natale, quello di ricordare le persone che si erano distinti per intelligenza e tenacia. Mi consegnò tante foto e ricordi, ma non fece in tempo a leggere quello che avevo scritto per lui.
ARRIVO’ A LUCI!
In Sicilia, nei pressi della rotabile da cui si dividono le strade per Geraci, Isnello e Castelbuono, vicino il santuario di San Guglielmo, operava una vetreria di proprietà dei Ventimiglia che, nel ‘300, erano principi di un vasto territorio che dalle montagne delle Madonie si estendeva fino alle verdi valli che si affacciavano al mare di Cefalù. Qui, alberi di frassini, corteggiati dal vento e, secondo una leggenda contadina, amanti della musica, offrivano cannoli di manna, linfa dolce, bianca e consistente come stalattite di ghiaccio. Dell’antica vitrera, rimane ben poco: una ciminiera e parte dei muri perimetrali, quanto basta per indicare come quartiere vitrera o largo vitrera la zona dove i resti dell’ antica fabbrica raccontano ancora la loro storia.
Prima della seconda guerra mondiale, nel quartiere Vitrera il Comune di Castelbuono fece costruire una centrale elettrica. In paese arrivò quindi un grosso motore Graz[1]a tre cilindri con un volano enorme, tanto grande che fu necessario scavare il pavimento dell’edificio che avrebbe ospitato la nuova centrale elettrica. Dentro la buca fu inserito il volano[2], fornito di grosse cinghie. Il motore, dotato di altrettanti grossi pistoni e bielle, veniva azionato facendo girare le cinghie a mano mentre delle bombole caricate di aria da un compressore, soffiavano forte per avviarlo. Per sollevare i pistoni e le bielle era necessario un parangolo a catena e bisognava lubrificare spesso le cinghie per rendere più agevole l’avviamento del motore che, a quel tempo, serviva a illuminare le case solo dopo il tramonto e per poche ore. A vicinedda di mastru Iachinu u scarparu, lavorava presso un piccolo ufficio postale dove i paesani pagavano il servizio elettrico, vero miracolo per la gente che poteva usufruire ancora di un po’ di luce, artificiale, per completare le loro faccende domestiche.
Arrivò la guerra e fu vietato accendere le luci la sera, anzi bisognava barricarsi dentro le case al buio perché il paese non venisse intercettato dai ricognitori nemici. Castelbuono venne presto occupato dai tedeschi e quando, nell’estate del 1943, gli americani sbarcarono in Sicilia, i soldati germanici costrinsero quelli italiani a scavare trincee e montare mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello del paese madonita. Il 22 luglio di quell’anno si diffuse la notizia che un aereo tedesco era caduto nelle campagne e che da Isnello si avvicinava una colonna americana di carrarmati, percorrendo la stradale di ponente. I tedeschi fecero saltare allora dei ponti tra cui quello della Nucidda e quello della Fiumara. Proprio qui, all’indomani della fine della guerra, il signor Giovanni Mancuso, responsabile della centrale elettrica del paese, decise di recuperare un carrarmato abbandonato sotto quel ponte. La guerra aveva impoverito le casse comunali e non si potevano chiedere soldi per potenziare il motore della centrale con la costruzione di nuovi gruppi elettrici. Il motore di quel carrarmato poteva essere la soluzione alla necessità di rafforzare il motore già esistente. Un mezzo funesto, che aveva suscitato timore tra la gente, diventava la soluzione per creare un vantaggio grazie alla genialità di un uomo. Un po’ come Perseo che uccide la Medusa, mostro terribile, e porta con sé la testa che produrrà bellezza.
Trasportato a Vitrera, venne costruito un casotto, un alloggio per ospitare il mezzo armato che non aveva motore di avviamento. Si decise di collegare un alternatore al motore del carrarmato in parallelo con il motore Graz, già esistente. L’alternatore girava, avviava i motori e, quando si arrivava alla tensione elettrica giusta, arrivava la luce in paese!
-Vinni a luci! C’è a luci!-
Gli operai facevano turni giorno e notte, a due a due, e altri si mantenevano in stato di reperibilità nel caso ci fossero stati dei problemi. La luce doveva arrivare e i paesani l’aspettavano come un vicineddu che dalla campagna bussava alla porta la sera.
Il paese poté godere quindi della luce e si poterono intensificare le luminarie durante i festeggiamenti dedicati alla madre Sant’Anna.
-Ma dove sono Natalino e gli altri? Era il loro turno in centrale oggi?-
In occasione della festa in onore della patrona, culminante nei giorni 25-26-27 luglio, i turni in centrale si intensificavano: le luminarie, le chiese avevano bisogno di tanta luce e per più tempo. Il sindaco, allora, non vedendo gli operai tra la folla, faceva preparare un fagotto con biscotti e bibite per i ragazzi della centrale elettrica di Castelbuono.
-E’ festa anche per noi che siamo qua!- e i motori continuavano a girare più forte per Madre Sant’Anna.
C’era un altro appuntamento importante che il capocentrale e i suoi operai volevano seguire, nonostante i turni di lavoro.
-Natalino, vai a Palermo. Servono dei pezzi per completare le radioline a transistor. Altrimenti come facciamo a sapere cosa succede alla Targa Florio?-
Il signor Mancuso era un appassionato della corsa automobilistica che percorreva le strade strette e tortuose delle Madonie, attraversando i comuni di Cerda, Caltavuturo, Petralia, Geraci, Castelbuono, Isnello, Collesano, Campofelice in un circuito che vedeva frecciare le migliori auto da corsa dell’epoca. Decise quindi di montare delle radioline a transistor, lì in centrale, insieme ai suoi operai, durante le pause lavorative, per ascoltare tutti insieme i momenti più emozionanti di quella gara automobilistica che infiammava i cuori e che solo la guerra aveva fermato.
Intanto, il Comune di Castelbuono, provato dalla guerra, ebbe difficoltà a sostenere le spese per l’erogazione della luce elettrica. L’incarico della gestione della centrale fu affidato ad un ingegnere, coadiuvato da Mastru Ciccio Gliommaro e i suoi operai, tra cui il giovane Natalino, Campo Natale, mio padre. La centrale passò quindi alla SIMA, Società Idroelettrica delle Madonie, nome, come mi diceva papà, sbagliato perché la centrale di Castelbuono non era una centrale idroelettrica, ma, probabilmente, la società abbracciava un progetto di una centrale idroelettrica a Petralia Sottana. L’ingegnere lasciò presto la gestione della centrale e, verso la metà degli anni ’50, a bordo di una FIAT 1100 ESCORT, arrivava a Castelbuono un omone: alto, fiero e deciso, uno di quelli che sapeva il fatto suo. Era l’ingegnere Campagna, della Società Elettrica della Sicilia o Ente Siciliano di Elettricità, che impiantò in centrale un motore FIAT 4 cilindri con un grosso alternatore Bivona. Il nuovo motore dava tanti problemi, non riusciva a coprire le esigenze del paese e quando c’era un sovraccarico di tensione, le marmitte e il tubo di scarico si surriscaldavano a tal punto che prendevano a fuoco. Il capotecnico, pensando che questo problema poteva essere risolto con un uso ridotto della corrente elettrica, andava casa per casa a controllarne il consumo domestico. Apriti cielo! La zia Rosa, come anche altri, si infastidirono parecchio di questa nuova invasione.
-A casa mia! Mi dici quantu luci a’ cunsumari!-
(-A casa mia! Mi dice quanta luce devo consumare!-)
Fatto sta che, tra lo scontento della gente e il cattivo funzionamento del nuovo motore, l’ingegnere Campagna fece arrivare un nuovo motore più potente, un Ansaldo a 7 cilindri, della sezione Grandi Motori FIAT, e due gruppi elettrici posti fuori dall’edificio della centrale che facevano un gran rumore e scaricavano fumi fastidiosi e maleodoranti. Neanche questa sembrava la soluzione giusta.
-Pari ca c’è a guerra a centrali!-
(-Sembra che c’è la guerra in centrale-)
La gente si lamentava tanto. Si pensò quindi all’alta tensione con un trasformatore collegato a barre di rame. I motori furono spenti e quando era necessario incrementare la distribuzione di energia elettrica, si azionava un motore a gas con alternatore che si trovava presso la fabbrica della mannite[3] in via Geraci. Questa soluzione alla distribuzione della luce elettrica a Castelbuono non dovette soddisfare né la gente, né gli ingegneri impegnati nell’installazione di motori, gruppi elettrici e cavi.
Nel 1959 la centrale elettrica del quartiere Vitrera, fu chiusa e divenne cabina elettrica con trasformatore a corrente alternata.
Fu in quell’anno che l’operaio specializzato Natalino Campo accettò di imbarcarsi per un’altra avventura: l’ingegnere Campagna gli propose l’installazione di una centrale elettrica a Salina, nelle isole Eolie, dove il suo estro, la sua passione per la “luce” continuò a distinguersi.[4]
[1] Motore Graz- motore austriaco. Il Politecnico di Graz, accademia specializzata nel settore tecnologico-scientifico e fondata nel 1811 dall’arciduca Giovanni d’Austria, dal 1879 al 1880 ebbe come suo studente Nikola Tesla, inventore del motore a corrente alternata.
[2] Volano- organo meccanico che serve a regolare il moto rotatorio dell’albero motore.
[3] Mannite- zucchero, monosaccaride derivato dalla lavorazione della manna.
Monte Porri, vulcano estinto dell’isola di Salina. Si trova nella parte occidentale dell’isola ed è alto 860 metri. Il suo è un nome botanico, deriva dalla pianta del porro che rigoglioso cresce in maniera spontanea lungo le sue pendici. Prima era denominato Monte della Vergine, per il culto profondamente sentito dagli abitanti verso la Madonna, a cui è stato dedicato un Santuario nella vallata che unisce il monte al suo gemello più alto, il Monte Fossa delle Felci.
Prima che arrivi la sera, una nube avvolge la cima del monte, tingendosi man mano di rosso e il divino torna a farsi presente. Ogni sera.
Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte.
A fine giornata, ci si sedeva tutti su poltrone reclinabili disposte in fila sul terrazzo, a guardare il cielo. Si spegnevano le luci a neon che illuminavano anche il giardino antistante e in silenzio si osservavano le stelle. In silenzio. Fino a quando, spinti forse dalla necessità di ascoltarsi, cominciavamo a leggere ad alta voce quel cielo stellato, indicando l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore, puntando lo sguardo sui disegni che si potevano tracciare, trasformando l’indice della mano in una matita allungabile fino a toccare quelle stelle come se fossero punti su un foglio da disegno. Poi, di nuovo in silenzio, ognuno seguiva con la mente una strada attraverso quel cielo. Una strada lunga, larga, di dimensioni infinite che raccoglieva i ricordi, le speranze e li portava lontano, mentre ci sentivamo osservati, e forse anche protetti, da quella casa enorme alle nostre spalle che, come una grande nave ci aveva accompagnati nell’avventura su un’isola che ci regalava ogni sera quel cielo stellato e dove ognuno cercava una strada che conservava nel cuore e nella mente, larga duecento chilometri e anche di più. Non so gli altri: il silenzio garantiva ad ognuno la segretezza intima e speciale di un incontro che poteva essere fatto solo con sé stessi, per correre su binari predefiniti, individuali, particolari. Ognuno viaggiava sul suo treno, come se non si dovesse più tornare indietro. Eppure, la casa-nave ci guardava, e sapeva che anche in quella corsa ci sarebbe stato un momento in cui i binari avrebbero invertito la marcia e ci avrebbero riportato, in un modo o in un altro, lì da dove eravamo partiti. Io mi sentivo catturata da un particolare bagliore che tracciava una strada che pulsava di vita, di vite che andavano e tornavano come in quei disegni dove cascate, nastri, figure iniziavano il loro cammino e poi tornavano irrimediabilmente al loro punto di partenza. I miei ricordi cominciarono a dilatarsi, a intrecciarsi a storie di un tempo che scoprii essere immenso. Fu così che, nell’evanescenza di un mondo pulsante di luce, mi trovai tra i fantasmi della memoria, desiderando sempre più di perdermi tra le pieghe di quel buio luminoso dove potevo incontrare stelle che, dopo avere percorso la lunga strada della loro evoluzione, erano destinate a pulsare e brillare per sempre.
Ho sentito parlare di una malattia che spegne i ricordi nella mente di chi viene colpito da un morbo inesorabile che colpisce i neuroni del cervello e, come colui che ha deciso di percorrere un lungo corridoio per l’ultima volta, spegne man mano le luci delle stanze che a esso accedono, ne chiude le porte e alla fine disattiva l’interruttore generale e va via, si dilegua. Per sempre. Ma le cose? Le cose possono soffrire di quella malattia? Possono essere attaccate dal tarlo di un tempo che non le riconosce più, che non le fanno più parlare? Arrivava dal mare una fata che lanciò una maledizione: tutte le luci che illuminavano quei ricordi si sarebbero spente per sempre e sarebbero state avvolte da un sonno perenne.
Era ormai passato tanto tempo da quando scrutavo il cielo su una di quelle poltrone sul terrazzo. Ma era come non fosse passato neanche un attimo da quando quella casa-nave mi afferrò e rimasi prigioniera di un sogno che voleva splendere e pulsare all’infinito. Ero tornata da sola in quella casa che ormai sembrava colpita da quella strana malattia e qua e là erano visibili zone di abbandono, di degenerazione: il tetto perdeva l’intonaco, la muffa si impadroniva di muri e il pavimento era roso dall’incuria. Andai a letto presto e scelsi di dormire su un vecchio letto in ferro nero, con fregi dipinti su entrambe le testate su cui tentavano di brillare dei frammenti di madreperla. I dipinti raffiguravano dei paesaggi notturni lontani, quasi irreali: un castello, un albero dalla chioma ben definita, sembrava pettinata, una riva calma, più da lago che da mare. Scelsi di dormire lì, su quel letto alto, quasi presuntuoso che odorava di antica stima, di passate amicizie coltivate all’interno di un progetto di lavoro che richiedeva tenacia, entusiasmo, passione.
Quella notte ebbi paura dei fantasmi che avrebbero potuto ostacolare il mio sonno e che invece io disturbavo, cercandoli per mischiarmi a loro, alle loro storie. Eppure mi addormentai e mi trovai altrove.