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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Massa di cera

06 giovedì Ott 2022

Posted by paolina campo in ricordi

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arte, cielo stellato, massa di cera, Platone, ricordi, Socrate, Teeteto

Socrate – …supponi che nelle nostre anime si trovi una massa di cera, in qualcuno più grande, in qualcuno più piccola, e in qualcuno di cera più pura, in qualcun altro di cera più sporca e indurita e in altri di cera più molle, in altri ancora di consistenza intermedia.

Platone, Teeteto, 191d

Da una galassia lontana arrivò sulla Terra una stella. Cercava tre anime: una che sapesse bene descrivere con le parole la magnificenza dell’universo; una che ne dipingesse i contorni splendenti e ne tracciasse le linee armoniche; una che trascrivesse su uno spartito, le note del suono che avvolgeva gli astri e i pianeti.

Le trovò e consegnò a ciascuna una tavoletta di cera dove segnare i ricordi più cari e partire così senza rimpianti.

Si imbarcarono su una scia luminosa che attraversò il cielo come un lampo che squarcia le tenebre, preludio di un cambiamento in arrivo. Durante il viaggio, il calore del sole sciolse le impronte dei ricordi fissati sulle tavolette e la cera cadde informe e si disperse per l’aere. Indelebili erano rimaste le tracce della loro arte che continuò a viaggiare con loro.

Le anime, ignare del fatto che i loro ricordi non erano più impressi sulle tavolette, non si preoccuparono di avere perso qualcosa di cui avere memoria. Avvertirono solo una strana leggerezza.

Socrate – Diciamo allora che questo è dono di Mnemosine, la madre delle Muse, e che in esso, ponendolo sotto le nostre percezioni e i nostri pensieri, come se vi imprimessimo impronte di sigilli, imprimiamo ciò che vogliamo ricordare fra le cose che vediamo, udiamo o pensiamo. Di ciò che viene impresso abbiamo memoria e scienza, finchè ne permanga l’immagine; ciò che viene cancellato o che non è possibile imprimere, invece, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza.

Platone, Teeteto, 191d

Arrivate al centro di una galassia lontana, la meraviglia li investì di luci, suoni e movimenti mai conosciuti prima. Quanto era immenso quel mondo? Dove finiva quel brillare di stelle?

L’ infinito le accolse e naturale fu per loro dare inizio alla loro missione.

Un pennello si allungò per far risaltare il giallo e l’arancio di stelle vicine; l’ indaco e il blu cobalto definirono i contorni dei pianeti lontani; uno spruzzo di viola e di fuxia si disperse tra il bianco splendente di pulviscolo stellare.

Parole furono appese alle stelle e parole viaggiavano tra la luce per comporre poesie e recitare le rime di un racconto incantato mentre tutto danzava.

Do, re, mi/ mi, sol, fa/si, la, do. L’ anima della musica catturava le note, librandosi su quel grande spartito di aria leggera.

Un messaggio cominciò a fissarsi su ognuna delle tavolette di cera delle anime della galassia lontana:

Ricordate le cose più belle, sono loro a generare stupore, armonia e altra bellezza. Fate in modo che la massa di cera della vostra anima non si debba mai sporcare e mai indurire.

La stella che aveva portato le anime belle nella galassia lontana, tornò indietro e, arrivata su una nuvola che guardava la Terra, lanciò il messaggio come pioggia che cade su un campo di grano dorato.

Le stelle

03 mercoledì Lug 2019

Posted by paolina campo in Salina

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A FINE GIORNATA, ricordi, stelle

“A fine giornata, ci sedevamo tutti su poltrone reclinabili disposte in fila sul terrazzo, a guardare il cielo. Si spegnevano le luci a neon che illuminavano anche il giardino e in silenzio si osservavano le stelle. In silenzio. Fino a quando, spinti forse dalla necessità di ascoltarsi, comincia amo a leggere ad alta voce quel cielo stellato. “. Paolina Campo, A FINE GIORNATA, A&B editrice, 2015

La grande biblioteca del mondo

18 mercoledì Apr 2018

Posted by paolina campo in pensieri

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bellezza, cielo, isole eolie, mare, parole, ricordi

Ombre fluttuano tra mare e cielo e questo spaccato di mondo mi investe e mi porta lontano nel tempo.

” Se vedessimo davvero l’universo, forse lo capiremmo”¹.

Forse riusciremmo a leggere, uno alla volta, i volumi nascosti nella grande biblioteca del mondo. Nel labirinto infinito del sempre, del mai, di oggi, di ieri, potremmo sentire il desiderio più vero: riuscire a provare ad immergersi nei colori di un mare puntellato dagli ultimi raggi del sole, mentre il vento dipinge, sulla volta celeste, nuvole bianche, come anime belle che leggere attraversano la grande biblioteca del mondo, lasciando scivolare emozioni e sentimenti che trovano dimora su pagine aperte e fogli di cielo, dove c’è spazio per ogni pensiero.

” Se vedessimo davvero l’universo…”², non avremmo bisogno di stupide guerre, di silenzi rabbiosi, di chiudere il cuore alla bellezza di tanto colore. Forse potremmo riempire di cielo un cesto di canne intrecciate e portarlo con noi per leggere le parole stampate sulle nuvole bianche e, quando finito, lasciarle volare via perché ogni cosa deve avere il suo posto, la sua casa, il suo odore. Perché… ogni cosa deve aprirsi alla gioia di dire e di dare, così tutti possiamo ascoltare e vedere il grande concerto di un universo che suona. Se solo riuscissimo ad ascoltare.

¹Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia
²Ibid

L’ anima del mare

09 venerdì Feb 2018

Posted by paolina campo in Salina

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conchiglie, Cura, mare, ricordi

 

Chiesa di san Lorenzo
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Qualcuno una volta mi raccontò una storia semplice. Mi raccontò dell’anima del mare che allunga le sue onde fino alla battigia per portare tante cose belle e buone. Poi le ritrae per tirarsi dietro tutte le cose cattive del mondo. E’ un po’ come succede a volte con la memoria che può arrivare a ondate quando osservi una foto, senti un’odore, ascolti una melodia: arriva a ondate e, se il tuo cuore è sereno, ti lascia i fotogrammi, le immagini più belle portandosi via tutto quello che di triste può esserci attorno. Ricordi, come conchiglie.

Era mattina, credo che ancora il sole non era apparso tra Stromboli e Panarea. Mi svegliai nel lettone dei miei genitori, avevo appena tre anni. Voci concitate, allegre, soddisfatte riempivano la stanza. Aprii gli occhi con fatica e dalle fessure delle mie palpebre vidi un bimbo piccolissimo, nudo tra le braccia della levatrice. Era nato mio fratello. Scesi dal letto e cominciai a gironzolare per casa. In una stanza vidi mia madre con il volto stanco e ancora segnato dal travaglio del parto. Mi sorrise mentre intanto mio padre tornava con la comare Maria. Lei si rallegrò per la nascita di quel bambinone e rassicurò i miei che si sarebbe presa cura di me e di mia sorella più piccola. Ci vestì e ci portò con lei. Uscimmo da casa che il sole era appena sorto.

Non ricordo più nulla di quella mattina d’ estate. La memoria mi ha lasciato questa conchiglia, questo ricordo carico di tenerezza, di cura, di gioia, di momenti condivisi insieme alla gente del paese, insieme alla comare Maria.

Lei aveva sempre qualcosa da fare e in questo “fare” c’era la vita di ogni giorno, c’era la cura per il marito, il figlio, la terra, gli animali, la casa. C’era l’attenzione per il compare e la comare sua e la loro nidiata di bambini che lei inseriva con naturalezza nello svolgersi della sua vita, delle sue ore. Non c’era nulla che lei faceva e non potevamo fare anche noi. La sua vita scorreva e accoglieva con affetto, con semplicità. Come un’onda del mare.

Festeggiamenti agatini

01 mercoledì Feb 2017

Posted by paolina campo in Sicilia

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annacata, candelore, Catania, Etna, ricordi, sant'Agata, video Lavinia Russo

Colori, suoni, allegria, musica, folklore e i festeggiamenti per la Santuzza corrono per tutta la città di Catania. Quando mi trasferii nel capoluogo etneo, fui molto colpita dallo slancio emotivo e dalla partecipazione dei catanesi alla festa in onore di Sant’Agata. Al grido: “Cittadini! Siti devoti tutti?” i fedeli rispondono con un caloroso, profondo e potente “Sì” che risuona per le vie della città, scena teatrale dove danzano e corrono le Candelore da metà gennaio fino al sei febbraio.

Decorate con fiori, lampade e immagini che ricordano la vita della Santa, le candelore, alti cerei votivi (alcune raggiungono anche sei metri di altezza), sono in tutto dodici: di queste, dieci rappresentano  arti e mestieri della città; una, “la piccola”, è la candelora di Monsignor Ventimiglia, il vescovo che la fece costruire dopo l’eruzione del 1766; un’altra rappresenta il Circolo Cittadino di Sant’Agata. Trasportate per le strade della città da uomini vigorosi, le candelore hanno spesso al seguito una banda che suona musiche vivaci e allegre a cui segue una sorta di balletto della candelora, l’annacata che impegna notevolmente i devoti impegnati nel trasporto dei cerei.

Ricordo che la prima volta che vidi una candelora rimasi basita perché, per come me le ero immaginate, esse dovevano esprimere un significato esclusivamente religioso.

Era gennaio, faceva freddo ma non pioveva. La piazza della chiesa del quartiere dove vivevo si animò di suoni e di allegria. Vestii le mie bambine, indossammo cappotti e sciarpe e ci unimmo alla folla eccitata e grata. Era arrivata una candelora e, fedele alle mie convinzioni religiose, feci il segno della croce e invitai anche le mie figlie a recitare una preghierina. Ma ecco che degli uomini muscolosi cominciarono a far dondolare la candelora a ritmo di trombe e tamburi e riconobbi tra quelle note una canzone che non era proprio una melodia religiosa: U surdatu ‘nnammuratu. Cercai di darmi un contegno e pensai che non dovevo essere troppo esigente e critica. Dovevo capire cosa stava succedendo. Ma più mi sforzavo di fare spazio alle mie convinzioni, più mi perdevo. Che c’entrava quella canzone con Sant’Agata?! Non capivo più nulla e cominciai a ridere fino alle lacrime. -Va bene- mi dissi- non si prega più! Abbandoniamo l’aria dimessa! Ora ci divertiamo!- Man mano mi lasciavo coinvolgere da quella simpatia gioiosa mentre osservavo le mie figlie che battevano il tempo con le mani. Era come se da quella annacata e da quella musica “strana” fosse scaturita una magia: la gente accorreva numerosa attorno alla torre variopinta e riccamente adornata e la musica sortiva da richiamo per i cittadini. Le note li allontanavano dai loro affari, dalle loro controversie e li tuffava in una dimensione dove la gioia, seppur scaturita dal ricordo di un sacrificio, diventava manifestazione di gratitudine infinita.

Imparai ad apprezzare la festa e l’amore che i catanesi nutrono anche per la Montagna che osserva, racconta e invita anche le nuvole a danzare e aggiunsi ancora un altro tassello al puzzle della mia vita.

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Do, re…

29 venerdì Lug 2016

Posted by paolina campo in libri, pensieri, Salina

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dipinti di Virgilio Lo Schiavo, infanzia, ricordi, Salina

Mi svegliai prestissimo, molto presto, quando ancora la luce del giorno non riusciva ad attraversare il buio della notte. Sentii provenire da fuori un gran trambusto che all’inizio avvertii come rumore, presa da quel torpore che ti imprigiona tra il sonno e la veglia in un equilibrio strano per cui sembri vacillare, senti le vertigini di una caduta libera verso il vuoto, verso qualcosa che non conosci e poi ti svegli e dici  -ecco sono pronta-.  Riconobbi poi un concerto di uccelli, pensai fossero migliaia, che la sera prima avevano trovato rifugio tra i rami degli alberelli del giardino attiguo alla casa. Ognuno, con timbro e tonalità diversa, intonava un canto accompagnato da una sorta di basso continuo diretto dai cani della zona e da alcuni galli che, a distanza, si scambiavano messaggi. Era festa lì fuori, arrivava la luce e gli animali dell’orto pretendevano un nuovo giorno per colmarne le ore. Sentii i primi rintocchi dell’orologio della chiesa di san Lorenzo mentre la luce cominciava a disegnare, sull’azzurro del cielo e sul verde della montagna dei Porri, le linee oblique del campanile. C’era fuori un concerto, una festa, mentre nella stanza si imponeva ancora la notte.

Sei rintocchi in do, un rintocco in re: era passato appena un quarto d’ora da quando avevo iniziato il mio lungo viaggio sulle note dell’orologio della chiesa. Mi assalì la certezza che lungo quella strada avrei trovato l’antidoto alla malattia della casa-nave. L’accanimento a voler rimanere sospesa tra le storie che da lì, da quel letto, si dipanavano fino alla chiesa di san Lorenzo, avrebbe sicuramente sortito una magica ricostruzione così, per incanto o per amore, per rispetto o testardaggine, quella casa sarebbe rifiorita.

Sei rintocchi in do, un rintocco in re. Tutto quello che allora ricordavo si incastrò tra quelle due note e si intrecciò con storie a me fino ad allora sconosciute eppure così intrise del mio passato. In quella chiesa avevo seguito il catechismo e avevo fatto la comunione e la cresima.

Do-re. Cominciai a percepire qualcosa di più. Là fuori quelle note fagocitavano le piccole nubi per rendere libero il cielo, affinché il vento intonasse altre note che lente seguivano il Mediterraneo mentre scivolava verso l’Oceano, verso onde maestose dove una musica selvaggia, primitiva si univa alle povere note. Un bastone sonante, ripulito all’interno da piccoli insetti, accoglieva il canto di una voce che narrava perché il mondo, cantato, potesse continuare a vivere. Dall’Oceano una  nuova melodia sarebbe tornata in quel mare accompagnata dal vento, in tempo per donare la propria arte, per offrire la propria opera.

11024911_10206391520337742_1064957834_oDa bambina ero solita trascorrere parte dei miei pomeriggi nelle sale della sacrestia della chiesa e la mia frequenza era assidua, dato che i miei amici si raccoglievano attorno alle iniziative delle catechiste divenendo ognuno stimolo per l’altro in una catena di bambini che pregavano, cantavano e giocavano ignari della storia di due affreschi che impreziosivano la chiesa e raccontavano del diacono romano, martire nel 258 a.C. e di cui conoscevamo il nome, ne seguivamo i festeggiamenti il dieci di agosto e  guardavamo rispettosi la statua che lo raffigurava con accanto una graticola. Era morto bruciato vivo: che orrore! Il dipinto della volta che sovrastava l’altare rassicurava il nostro animo di bambini, mostrandoci san Lorenzo nella gloria dei cieli.

Non ricordo di avere mai fatto attenzione a un altro dipinto che invece raccontava di quel martirio e che esigeva un’attenzione particolare, dato che era necessario alzare lo sguardo verso il tetto della chiesa. L’immediatezza della volta e la statua posta sempre a destra dell’altare, soddisfacevano la mia curiosità sulla storia del santo protettore del paese in cui vivevo. Sarebbe arrivato il tempo in cui le domande si sarebbero moltiplicate e dietro  ogni cosa avrei voluto cercare un senso, un significato e, volgendo lo sguardo verso l’alto, avrei notato anche il dipinto dedicato al martirio di san Lorenzo. E quando mi assalì la sconvolgente percezione di trovarmi nel lungometraggio della vita, scoprii in quel dipinto la forza del dolore, il coraggio di vivere senza scorciatoie. Vidi in quell’affresco i colori intensi della vita tragica, commovente, complicata. Sensata. Una figura mi inquietava in quel quadro. Era senza colore, senza movimento. Era senza espressione, lontana dall’azione, dal dramma che si stava consumando, dall’evento che avrebbe portato poi alla gloria del cielo descritta nella volta absidale. Era dietro tutto il dolore, dietro tutta la ferocia, dietro la magnanimità di un uomo che offriva se stesso per un ideale, per un atto d’amore. Era dietro a tutto questo: era l’indifferenza.

 (A fine giornata)

Foto di Antonio Brundu

C’era una volta una casa….

17 venerdì Giu 2016

Posted by paolina campo in pensieri, Salina

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ricordi, rimpianti, Salina

imageC’era una volta una casa, una grande casa, servita da una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, un ampio terrazzo, ampie camere, un palmento e ampi giardini di capperi e alberi da frutta che si distendevano lungo il suo lato posteriore e quello anteriore. Un antico cancello, che apriva l’accesso a una strada comunale, guardava il suo corrispettivo lì dove, dall’altra parte, la casa si sporgeva per un’altra uscita. Per anni nessuno ebbe più cura di lei e le mura sbriciolarono a terra senza che nessuno poté  più raccontare la loro storia. La casa aveva un indirizzo, certo, come tutte le case, dalla parte dove c’erano i balconi e dove, da scale interne si scendeva giù, dove c’era il palmento e i contadini entravano per parlare con il padrone. L’altra entrata era quella della gioia di immergersi in un grande giardino e godere della generosità della terra. La casa fu abbandonata a sé stessa e il tempo deteriorò la pietra e i rapporti. Gli eredi si spartirono il bottino e la vendettero a nuovi proprietari: il grande patio, la cisterna e il giardino con il cancello a una famiglia; le antiche mura, vestigia di una importante proprietà ormai scomparsa e il vecchio palmento ad un’altra famiglia. Un taglio netto, tranne che per quattro scalini, un’apertura che non aveva più un cancello, così come non c’erano più le mura, e un indirizzo che rimase per sempre quello della casa prima di essere sezionata. Nessuno si curò di mettere ordine a una situazione che il tempo aveva cambiato. Si credette in cose che forse esistono solo sulla luna. Si credette in quel buon senso che Astolfo cercò nel suo viaggio con l’ippogrifo. Ma il buon senso esiste solo sulla luna dove la pazzia dell’uomo non abbonda perché è tutta sulla Terra, custodita dagli uomini che distruggono rapporti e mettono a dura prova la ricerca di una storia fatta di amore, comprensione e tanto lavoro.

Ma Astolfo tornerà e farà piovere gocce di buon senso su questo nostro mondo malato di prevaricazioni e bugie. La casa, la politica, i roghi, i delitti, l’offesa alla natura: una continua umiliazione a sé stessi.

E quando finalmente pioverà buon senso, gli uomini prenderanno coscienza di ciò che veramente vale e cominceranno a guardare le piccole cose e le ameranno, e da lì si potrà guardare avanti e ancora avanti, e avanti fino a desiderare di non volere essere più umiliati da quel tempo quando si tenevano gli occhi troppo bassi.

I fiori della notte

15 mercoledì Giu 2016

Posted by paolina campo in libri, Salina

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mare, ricordi, silenzio, storia di Salina

 

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C’era stato un temporale, e un forte vento di maestrale aveva disperso sul patio le foglie gialle degli alberi, che si preparavano alla stagione invernale. Una, due, mille foglie che raccontavano di quel giorno di vento e di pioggia. Alcune galleggiavano inermi su una pozzanghera di acqua piovana, mista a terra rossa volata dai giardini che si erano dipinti dei colori di quella strana stagione: una volta regalava una bella giornata di sole, nostalgia dell’estate trascorsa, ma poi arrivava la pioggia e il vento per anticipare e ricordare che l’inverno era vicino. E intanto i pampini delle viti si dipingevano del rosso del vino che ormai fermentava nei tini, le arance si coloravano di verde e di giallo e la sera le lumache strisciavano lungo le stradine umide, tappezzate qua e là di muschio verde.

Il vialetto che attraversava il giardino era ornato da gelsomini bianchi che cadevano lenti a ogni soffio di vento, spandendo il profumo delicato di antichi ricordi.

-Li hai portati?-

-Certo signora, sono qui.-

Dentro un cesto di canne intrecciate, riposavano morbidi i fiori bianchi odorosi. Le si illuminava il cuore a vederli e, chiudendo gli occhi, portava il cesto all’altezza del viso come per cercare un abbraccio, un amore avvolgente.

-Presto, prendi le ciotole. Quelle di cristallo che tengo nella vetrina della stanza da pranzo. Ti raccomando, stai attenta! Abbi cura di prenderle delicatamente, senza romperle!-

Dopo il momento di estasi le prendeva una specie di frenesia, di agitazione per regalare alla sua casa il fresco profumo dei gelsomini appena raccolti.

-Giuseppina, dobbiamo sempre trattare con delicatezza i nostri fiori e le cose belle che abbiamo.-

Iniziava quindi quel rito accompagnato dal vento che, in quella stagione, sussurrava qualcosa, portava in giro le nuvole, scuoteva i rami degli alberi, invitava il mare ad ornarsi di piccole onde odorose.

-Sai Giuseppina, quando ero bambina, il giorno dell’Ascensione di Gesù al cielo, quaranta giorni dopo la santa Pasqua, la mia mamma usava preparare delle ciotole grandi, più grandi di queste, dove versava dell’acqua e poi vi immergeva dei petali di fiori profumati, rose, gelsomini, e li poneva sul davanzale della finestra. Noi, ancora bambini, ci bagnavamo il viso con quell’acqua profumata di gioia e volgevamo lo sguardo al cielo. C’era una nuvoletta che si alzava sempre più in alto, verso l’infinito e, stupiti di avere visto in quel candore celeste il segno di una grande vittoria, sussurravamo: “E’ Gesù che sale al cielo!”-

Il mare aveva portato sull’isola quella donna, e lei dal mare aspettava sempre qualcuno e i giorni trascorrevano in quella attesa infinita.

-Signora Cettina è in casa?-

Dal patio arrivava la voce di don Felice che, prima del vespro, era solito passare a salutare la sua cara amica a cui confidava i capricci dei paesani.

-Buona sera, don Felice! Che succede? Mi sembrate particolarmente stanco.-

-Buona sera, signora! Si vede così tanto che sono stanco?- e rise asciugandosi il labbro con un fazzoletto bianco dove spiccavano sottili righine azzurre, cercando di dare sollievo a quella bocca che tanto aveva parlato e predicato.

-Sa della statua della Madonna arrivata da Napoli?A quel tempo lei non viveva ancora a Malfa…-

-Ho sentito che ci sono devoti che insistono sulla sacralità della statua che si trova nella chiesa di san Lorenzo…-

-Sì, ma quella è già stata interdetta due volte! Mons. Ideo l’ha definita addirittura mostruosa! Ah! Quando ho avviato i lavori per la costruzione della chiesa di sant’Anna a Capo, non c’erano tutte queste storie.-

Iniziò quindi a raccontare di una statua che don Mariano Schepis, parroco di Malfa nel 1856, aveva comprato a Lipari proprio nel convento da cui lui stesso proveniva, il convento dei Frati Minori sulla Civita a Lipari. Aveva certamente fatto un buon affare, e l’idea di introdurre a Malfa il culto dell’Immacolata Concezione prevalse sull’estetica della statua che si presentava come un manichino di fil di ferro, addobbato a mo’ di Madonna. Il vescovo interdisse la statua e, nel 1874, ne fece arrivare una di buona fattura da Napoli. Apriti cielo! Si formarono due fazioni: quella dei devoti alla prima statua che si rifiutarono di accogliere la seconda nella chiesa di san Lorenzo,  minacciando il vescovo di non pagare più le decime, se mai fosse stato sostituito il loro primigenio oggetto di culto; e quelli che accolsero la statua napoletana ottenendo di celebrarne il culto là dove stava nascendo la nuova chiesa dedicata a Maria.

– Sono trascorsi quasi trent’anni e ancora ci si trova a discutere sugli orari delle messe e in quale chiesa bisogna officiare la messa domenicale, se nella chiesa di san Lorenzo o in quella dell’Immacolata.-

-Vi vedo avvilito, povero don Felice!-

-No, non si preoccupi. Adesso deciderà il vescovo. Scriverò a sua eminenza una bella lettera per spiegargli le mie difficoltà e gli chiederò, se gli è possibile, di stabilire lui gli orari delle messe.-

Sorrise mite e, facendo il segno della croce, cominciò a recitare l’Ave Maria, mentre le campane annunciavano che anche quel giorno volgeva al termine. La signora e Giuseppina, che intanto aveva finito di riordinare la cucina e aveva preparato la cena, si unirono alla preghiera mentre dalla finestra si riusciva a vedere il mare e il cielo e i confini del paese scurirsi.

-Come sta signora cara? Ha ancora dolori alle gambe?-

Don Felice guardò con tenerezza quella donna malata e silenziosa. Viveva da diversi anni sull’isola e da tempo ormai era sola in quella grande casa. Erano poche le persone che l’andavano a trovare. Lei era la “forestiera”, di lei bisognava diffidare, anche solo per il fatto che aveva amato quel luogo come una figlia illegittima che pretende di essere amata allo stesso modo dei figli naturali. La gente non sapeva come i colori dell’isola le svelavano il sapore di antichi sorrisi, di abbracci lontani, di candide promesse che aveva conservato per sempre nel cuore e amare quel posto l’aiutava ad amare la sua vita.

Don Felice era tra quelli che riuscivano a guardare con fiducia quel volto, sul quale era disegnato uno sguardo che somigliava molto alla superficie del mare: sia che era calmo, sia che era agitato non faceva mai trasparire cosa ci fosse oltre, ma si percepiva che in profondità ribollivano emozioni, gioie, tristezze, speranze, delusioni che si incontravano come correnti marine in continua agitazione che di tanto in tanto si rendono palesi, increspando la superficie che raccontava appena cosa succedeva nel fondo. Una volta la signora aveva raccontato al sacerdote di grossi fiori che la sera si aprivano per omaggiare la luna dei loro colori, e che sbocciavano da grossi rami spinosi che si arrampicavano come serpenti sulla parete di un balcone della casa a Catania, dove viveva da giovane.

Gli aveva pure confidato che ogni notte aspettava qualcuno che colmava i suoi sogni e insieme si tuffavano nei colori di quei fiori per vivere ancora insieme.

-Sa don Felice, quando la notte nei miei sogni lo incontro è come se vivessi davvero; è come se la mia vita si colorasse di nuovo. Allora, sono certa, muoio ogni giorno all’alba, come i fiori della notte. Come loro, i colori della mia vita si avvizziscono dopo averli mostrati per una notte intera alla luna.-

Il buon parroco si commosse e pensò che la signora Cettina, attraversata com’era da una grande passione, aveva bisogno che le si facesse  compagnia con il rispetto del silenzio, così come quando si andava al molo e, senza dire una parola, si osservava e si ascoltavano le storie scritte su qualche onda del mare, profondo e impenetrabile come lei.

 -Signora, io vado. E’ tardi.-

-Si, Giuseppina, vai. Buonanotte, a domani!-

-Ciao, Giuseppina! Salutami tuo padre!-

-Certamente don Felice! Stanotte andiamo a pescare. La luna è buona e il mare è tranquillo, anche se c’è un pochino di vento. Le nuvole dicono che va a migliorare.-

Il parroco salutò anche lui la signora Cettina che, rimasta sola, si guardò un po’ attorno, come era solita fare. Uscì fuori per vedere il sole scomparire dietro il pendio della montagna dei Porri e si lasciò avvolgere dalle tinte di quella sera autunnale. Vide la luna dominare il cielo e rientrò in casa. Cenò e andò a letto: era pronta. Chiuse gli occhi e leggera scivolò lungo i colori della sua notte.PAOLINA CAMPO

 

∗Riferimenti storici: Giuseppe Iacolino, Raccontare Salina, edizioni nell’attesa s.a.s., Palermo, 2012, vol.IV

 

La casa-nave

02 martedì Feb 2016

Posted by paolina campo in libri

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cielo stellato, ricordi, Salina

montenuvola

“A fine giornata, ci si sedeva tutti su poltrone reclinabili disposte in fila sul terrazzo, a guardare il cielo. Si spegnevano le luci a neon che illuminavano anche il giardino antistante e in silenzio si osservavano le stelle. In silenzio. Fino a quando, spinti forse dalla necessità di ascoltarsi, cominciavamo a leggere ad alta voce quel cielo stellato, indicando  l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore, puntando lo sguardo sui disegni che si potevano tracciare, trasformando l’indice della mano in una matita allungabile fino a toccare quelle stelle come se fossero punti su un foglio da disegno. Poi, di nuovo in silenzio, ognuno  seguiva con la mente una strada attraverso quel cielo. Una strada lunga, larga, di dimensioni infinite che raccoglieva i ricordi, le speranze e li portava lontano, mentre ci sentivamo osservati, e forse anche protetti, da quella casa enorme alle nostre spalle che, come una grande nave ci aveva accompagnati nell’avventura su un’isola che ci regalava ogni sera quel cielo stellato e dove ognuno cercava una strada che conservava nel cuore e nella mente, larga duecento chilometri e anche di più. Non so gli altri: il silenzio garantiva ad ognuno la segretezza intima e speciale di un incontro che poteva essere fatto solo con sé stessi, per correre su binari predefiniti, individuali, particolari. Ognuno viaggiava sul suo treno, come se non si dovesse più tornare indietro. Eppure, la casa-nave ci guardava, e sapeva che anche in quella corsa ci sarebbe stato un momento in cui i binari avrebbero invertito la marcia e ci avrebbero riportato, in un modo o in un altro,  lì da dove eravamo partiti. Io mi sentivo catturata da un particolare bagliore che tracciava una strada che pulsava di vita, di vite che andavano e tornavano come in quei disegni dove cascate, nastri, figure iniziavano il loro cammino e poi tornavano irrimediabilmente al loro punto di partenza. I miei ricordi cominciarono a dilatarsi, a intrecciarsi a storie di un tempo che scoprii essere immenso. Fu così che, nell’evanescenza di un mondo pulsante di luce, mi trovai tra i fantasmi della memoria, desiderando sempre più di perdermi tra le pieghe di quel buio luminoso dove potevo incontrare stelle che, dopo avere percorso la lunga strada della loro evoluzione, erano destinate a pulsare e brillare per sempre.” (Paolina Campo, A FINE GIORNATA, A&B, Acireale, 2015, pag.9)

Le lucciole di Pasolini

12 giovedì Nov 2015

Posted by paolina campo in Salina

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articolo delle lucciole, origine, Pasolini, ricordi, sogno semplice

“Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, a causa dell’inquinamento dell’acqua sono cominciate a scomparire le lucciole….Si è passati dalla fase delle lucciole alla fase della scomparsa delle lucciole senza accorgercene”, Corriere della Sera, 1 febbraio 1975, “Il vuoto del potere” ovvero “l’articolo delle lucciole“, Pier Paolo Pasolini.

Cosa sono le lucciole? Qualcuno le ha mai viste?

C’era una volta la stima fondata sull’osservanza di valori, regole che tutelavano il bene comune, il rispetto per tutto quello che ci era di più caro: la famiglia, la casa, la terra, il lavoro, la religione. C’era una volta l’emozione del vento, del sole, del mare che ti accarezzavano la pelle, un paio di occhi teneri o arrabbiati e una voce che recitava una preghiera e la portava lontano. C’era una volta…la libertà di partecipare con gioia a un evento, la libertà di potere esprimere la propria opinione perché “una noce da sola nel sacco non fa nessun rumore”, perché così ci dicevano gli anziani. Lucciole. Succede che, una volta scomparse le lucciole, ti rifugi nei ricordi e scavi nel passato per cercare se mai ti capita di rivederle lì. Succede che ti porti dietro delle immagini, testimoni della delicatezza di emozioni che vuoi ancora provare, per dare conto di quell’irrequietezza per cui non ti rassegni a vivere senza il respiro antico e odoroso di cose buone e belle dove certi valori hanno un senso, quello dello stare insieme in maniera rispettosa.

 luna

La luna parlò al pianeta e gli disse che ormai era tempo di andare, mentre una nuvola scura li invitava ancora a restare.

orto

Il sole illuminò di giallo le arance nell’orto e segnò sulla terra le ombre del giorno.

galline

Le galline lasciarono l’aia e allegre si aggiravano per le vie del paese mentre

arance

I raggi del sole avevano ormai attraversato i rami degli alberi e lumache, coccinelle e formiche ripopolavano  l’orto.

monte

Dove sei mio sogno semplice? Forse lì tra i monti, tra le valli avvolte da nubi? Sei tra i colori e gli odori, i suoni e i silenzi di un mondo familiare e caro?

“…..fui improvvisamente colto da quel senso di meraviglia per le cose note e familiari che è all’origine della filosofia. Provai in me un profondo stupore per la possibilità di una tale dimestichezza con un uccello libero e selvatico, e la constatazione  di questo fatto mi rese stranamente felice, come se con ciò si fosse potuto riparare alla cacciata dall’Eden”   (Konrad Lorenz, L’anello di Re Salomone, GLI ADELPHI, Milano, 2010, pag. 20)

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