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Secondo la tradizione, sulle pendici dell’Etna, Aristeo, figlio di Deucalione, inventò la vigna; Empedocle, per soddisfare la sua curiosità scientifica, volle osservare troppo da vicino il vulcano e fu inghiottito dal cratere che ne restituì solo un sandalo; dentro le viscere della Montagna, i Ciclopi lavoravano nelle fucine di Efesto.
Ma ecco una madre che vaga sconvolta, tra le campagne etnee, dopo avere acceso una torcia nel cratere del vulcano, per meglio illuminare i luoghi dove Proserpina, sua figlia, era stata rapita dal tenebroso Plutone.
Il mito racconta che il re degli abissi tornava da una spedizione alla triplice base su cui, secondo gli antichi, poggiava la Sicilia. Vide Proserpina intenta a raccogliere dei fiori e subito se ne innamorò e la rapì. Cerere, disperata perché non trovava la figlia, vagò per tutta la regione. Mentre camminava spedita per i prati dell’Etna, si sentì infastidita dal rumore caratteristico che le silique struscianti del lupino emettevano al suo concitato passaggio. Anzi, la dea pensava che il lupino si stesse prendendo gioco del suo dolore e maledisse la rumorosa pianta.
– Possa tu provare la mia amarezza !
Da quel momento, il lupino dell’Etna, dolce per sua natura, divenne amaro e i contadini adottarono dei rimedi per renderlo gustoso.
La ricerca di Cerere fu vana. Allora la dea chiese l’intercessione di Giove ottenendo di potere vedere la figlia cinque mesi l’anno.
Plutone, prima di permettere a Proserpina di tornare sulla terra, le fece mangiare dei chicchi di melograno, simbolo di fedeltà coniugale: tanti chicchi mangiati dall’ignara fanciulla, tanti i mesi da trascorrere accanto al tenebroso marito.
Da allora, la natura partecipa della gioia di Cerere che riabbraccia la figlia, regalando ogni anno una stagione, la primavera, che fa fiorire i germogli e rende il paesaggio fresco e variopinto.