Quando ero bambina c’erano tante cose che stuzzicavano la mia meraviglia. Di queste, molte rimanevano lì sempre pronte a sollecitare il mio desiderio di poesia, di magia, di ricerca di un mondo incantatore: il mare, il vento, il vociare festoso di mercati affollati. C’erano però alcune “cose” più intime, più chiacchierine a cui era dato poco tempo per raccontarsi. Apparivano, o meglio, facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza per poi sparire nel fondo dei loro cento anni senza dire più nulla. Avrò visto due o tre volte uno strumento da ricamo che mia madre custodiva gelosamente avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia della mamma, una zia monaca dal caratterino vivace. Mia madre era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo e attorno ai tanti fuselli ricamava la storia della zia, monaca non certo per devozione, e delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove mia madre cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose. Delle donne in clausura votate a Dio non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. La zia era tosta, una specie di monaca di Monza, ma aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro. La mamma ci consegnava, con il suo racconto, un mondo pieno di vita che si muoveva tra il dentro e il fuori dell’antico convento: cannoli profumati di ricotta, ragazze madri disperate, giochi di bambini, strade affollate da mercanti di ogni genere, ricami perfetti avvolti dal silenzio delle mura del convento. Finito il cunto, il tombolo veniva riavvolto nel lenzuolo di lino e riposto nel cassetto dal fondo di cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia.
Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi per sempre alle porte del cuore.
Di tanto in tanto mio padre prendeva una specie di fagotto nascosto su un alto scaffale, e lo apriva. Era un rito che si ripeteva a scadenze indefinite e con un pathos che coinvolgeva tutti noi in attesa di farci stupire dal misterioso involucro. Io ero la figlia maggiore. Questa cosa di essere la figlia maggiore è stata sempre una immane fatica. E’ stato come vivere due vite contemporaneamente: da una parte la bimba che cresceva e dall’altra la consigliera, la mediatrice, quella che riusciva a placare gli animi ogni qual volta scoppiava (nel vero senso della parola) una lite tra i miei genitori. Mia madre diceva spesso che non ero mai stata piccola perché il mio ruolo non me lo permetteva. Una volta dismesse le mie competenze pacificatrici, non ero più la “grande” ( cosa che pensavo mi desse qualche privilegio), dovevo stare attenta a non atteggiarmi a sapientona, pena l’isolamento, da cui neanche mia madre mi poteva salvare.
Ma torniamo al fagotto. Abracadabra…l’oro di famiglia. L’anello di fidanzamento di mamma, quello di papà, orologi, collane, collanine, anellini e poi…qualcosa uscita fuori da una storia antica di migrazione, amore, sofferenza, riscatto: un paio di occhiali da vista dalla montatura dorata, di metallo sottile, essenziale, con lenti rotonde di quelle che indossavano i maestri alteri di certi sceneggiati in bianco e nero. C’era anche una collana di pietre rosse, bigiotteria americana che raccontava di traversate sull’oceano, di una bimba cresciuta a New York e che, tornata al suo paese in Sicilia, si sposava, dava alla luce una nidiata di bambini e moriva qualche giorno prima di tornare in America. Io ero la grande e il mio nome fu il nome di quella nonna sfortunata, per segnare un ricordo, un dolore, una tenerezza negata. Abracadabra…il fagotto si richiudeva lasciandomi a vagare con la mente come una fata tra sogni belli e meno belli che mi avrebbero accompagnata per sempre, per ogni anno della mia vita.
Cominciai la mia avventura scolastica a Palermo proprio nei pressi del mercato storico di Ballarò, cuore pulsante di un quartiere normanno il cui nome, Albergheria, indica una terra a mezzogiorno, illuminata da un sole raggiante. Albergheria, da Albahar, nome con cui i saraceni chiamarono “mare” quel lago così grande e vasto dentro la città, probabilmente formato dall’incontro di due fiumi, il Papireto e il Kemonia, ricco di pesci e circondato da un muro adorno di barchette d’oro e d’argento. Il mercato era allora frequentato da mercanti arabi che da Bahlara, villaggio nei pressi di Monreale, popolavano ogni giorno il quartiere dell’ Albergheria per vendere, comprare, litigare e scendere a patti.
Quanto basta per immaginarsi in una storia da Mille e una notte.
Nel XVIII secolo, in una delle case dell’antico rione nasceva Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro. Figlio di un mercante di stoffe, fu alchimista, mago, avventuriero, falsario, guaritore e, durante il secolo dei lumi, trascorse la sua vita girovagando in lungo e in largo per le corti di tutta Europa. La sua vita e la sua morte sono avvolte dal mistero e, secondo una leggenda popolare che circolava tra le vie del quartiere dell’ Albergheria, il suo corpo era arrivato in Sicilia e sepolto in una nicchia delle catacombe dei Cappuccini a Palermo.
Frequentavo la scuola media del Protonotaro che si trovava su una strada stretta, un cordone di congiunzione tra il quartiere dell’Albergheria da sempre popolata da mercanti, maghi, donne vocianti per le strade, e il Cassaro, elegante e signorile, ricco di palazzi, chiese e monasteri. Questo budello di congiunzione tra le due facce più emblematiche di Palermo portava lo stesso nome della scuola.
Il Protonotaro era un personaggio potentissimo in epoca normanna e sveva, con incarichi importanti. Era un consulente del re. Come non pensare a Pier della Vigna, protonotaro alla corte di Federico II di Svevia che Dante immagina di incontrare nel secondo girone del VII cerchio dell’Inferno. Il nome di questa via non ricorda lo sfortunato personaggio dantesco, ma don Ignazio Papè, Protonotaro del Regno delle due Sicilie verso la metà del 1700, che proprio lì aveva la sua sontuosa residenza, con ampi saloni e affaccio sul Cassaro.
Andavo e tornavo da scuola a piedi, attraversando voci, colori, misteri conditi dai profumi di una tradizione che resisteva al tempo; ascoltando le storie che da ogni angolo, da ogni pietra sembravano sgorgare; osservando stupita le bancarelle del mercato cariche di frutta, verdure, spezie e aromi che si alternavano a quelle del pesce, della carne, delle olive, delle conserve, del pane. Tra la baraonda di parole abbanniate che saltellavano scoppiettanti tra la merce esposta, se ne sentiva qualcuna che, attraversando il mercato con flemma indicibile, portava con sé un odore forte, come di pizza riccamente condita.
-Cavuru, cavuru è!²-
Ma come? Faceva già caldo! Un uomo trainava a mano il suo carretto e ignaro del trascorrere delle stagioni, attirava la gente con la sua voce e il forte odore di focaccia, salsa di pomodoro, cipolla, formaggio, mollica. Un ciavuru, un odore che attraversava le narici e inebriava la mente tanto che, anche in estate, lo sfincione si preferiva al cono gelato.
E poi panelle e crocchette di patate gialle come il sole e panini con la milza cotta nella sugna bollente come la terra di mezzogiorno… lanciavano il loro invito da bottegucce affollate di gente, che ogni giorno transitava per il mercato di Ballarò.
-Che mangiamo stasera?-
-Niente, vai a Ballarò e prendi quattro panini con panelle e crocchè.-
E quel niente si condiva di forti sapori e intensi profumi. Niente, solo un po’ di storia e tanta vita.
La famiglia del lattaio viveva in una di quelle case a piano terra con una porta d’ingresso che poteva fungere anche da finestra. Chiusa la parte inferiore, dalla parte superiore della porta si sporgeva il mezzo busto di una signora con uno sciallino di lana, lavorato all’uncinetto che le copriva le spalle per buona parte dell’anno. Affacciata all’apertura della sua casa, la donna svogliatamente seguiva il passaggio della gente, aspettando che succedesse qualcosa che la scuotesse dalla monotonia della sua giornata.
-Buongiorno! Mi da’ dieci uova?-
La moglie del lattaio apriva quindi anche la parte inferiore della porta. Le uova si trovavano dentro una credenza addossata ad un divano sul quale, spesso, stava seduto un ragazzo altissimo e magrissimo: lo chiamavano Cocò, forse per ricordare le galline o forse per trovare un appellativo veloce che raggiungesse presto la sua attenzione. Col trascorrere degli anni, il ragazzo si allungava, la sua figura si assottigliava spalmandosi lungo i suoi muscoli e le sue ossa, arrivando a superare i due metri. La donna cercava una bustina dove mettere le uova, Cocò non proferiva parola e il lattaio trafficava tra i suoi bidoni d’alluminio, sparsi per la stanza. Cocò non guardava nessuno. Il viso scarno, gli occhi affossati e un grosso naso aquilino erano incorniciati da una liscia capigliatura. A Palermo si era soliti parlare per similitudine e Cocò era paragonato, riguardo al suo aspetto fisico, a una canna per stendere i panni, di quelle che si vedevano lungo i marciapiedi dei quartieri più popolari della città. Le donne che si affacciavano a mezzo busto, stendevano i panni su una corda legata a due chiodi piantati da una parte ad un’altra della facciata della casa a piano terra. La canna, che inforcava la corda nel suo punto di mezzo, veniva posizionata sul muro per tenere in alto i panni. Più era lunga la canna, più lenta doveva essere la corda e più panni si potevano stendere. Cocò era così: fermo e rigido nella sua lunghezza, come ‘na canna pi stenniri, secca e tesa, aggrappato al suo muro di esistenza.
“Il comportamento di tutti i simboli è strettamente determinato dallo stato dell’intero sistema nel quale risiedono.” Douglas R. Hofstadter, GӦDEL, ESCHER, BACH: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi Edizioni, Milano, 2011, pag. 355
COCO’
-Cara Cettina, cara sorellina mia,
quanto mi manchi! Sono qui, a Palermo, tra gli odori e il chiacchierio della gente che a noi sono sempre piaciuti tanto. Sono qui. Finalmente, mi viene da pensare. E’ la serenità che ci mancava, la spensieratezza, la possibilità di essere noi stessi. Il viaggio in treno con la zia non è stato interrotto da nessuna mucca dondolosa. Ricordi? Il nostro ultimo viaggio insieme per Palermo è stato lungo ma divertente. La zia non ha detto una parola per tutto il tragitto. Ascoltavo in silenzio il rumore del treno che come un basso continuo faceva da sottofondo alle voci di altri passeggeri, al pianto di qualche bambino, ai colpi di tosse di un vecchio, ai discorsi spavaldi di un gruppo di giovani. Arrivate a Palermo mi attendeva l’immancabile arancina e la nonna mi ha abbracciata forte e, io lo so, in quell’abbraccio c’ eri anche tu.-
Nunzia era arrivata a Palermo con il sangue che le ribolliva di emozione. Era nella città della zia, della nonna e che un tempo era stata la città di sua madre. Nunzia amava Palermo e sapeva che anche Cettina ne era innamorata. Era la città dell’affetto, dei profumi dell’accoglienza dove ogni cosa richiamava alla storia di una terra che raccontava di fenici, arabi e normanni. Pensò che anche l’arancina, come diceva la nonna, aveva il compito di riportare alla mente la storia: tonda e rossa come le cupole di alcune chiese che all’interno custodivano ricchi mosaici, dorati come lo zafferano che avvolgeva i ricchi sapori della mitica arancina.
Avrebbe frequentato la scuola del Protonotaro. La zia l’aveva accompagnata il primo giorno per indicarle la strada che avrebbe dovuto percorrere per raggiungerla. Partirono a piedi da corso Tukory, lasciandosi alle spalle l’antico e pesante portone che racchiudeva un’ imponente scala in marmo, con passamano in ferro battuto e che avvolgeva gli appartamenti del palazzo che si alternavano ora a destra, ora a sinistra a seconda del giro che facevano gli enormi gradoni. Arrivarono a Porta Sant’ Agata, un’antica Porta, dove si pensava fosse passata Sant’ Agata per andare a Catania e subire il martirio.
-Noi oggi passiamo da qua, ricordiamo Catania e la sua Santuzza e andiamo verso il tuo futuro.-
La zia le strizzò l’occhio e proseguirono attraversando il quartiere dell’Albergheria, le cui strade strette come vicoli e lastricate in pietra, accoglievano le voci degli abbanniatori del vicino mercato di Ballarò.
Arrivarono quindi nell’antica via del Protonotaro che collegava una piazza, piazza dell’Origlione, con via Vittorio Emanuele. Una strada stretta, un cordone di congiunzione tra la Palermo da sempre popolata da mercanti, maghi, donne vocianti per le strade, e il Cassaro, elegante e signorile, ricco di palazzi, chiese e monasteri.
-Perché Protonotaro? Perché questo nome?-
-Il Protonotaro era un personaggio potentissimo in epoca normanna e sveva, con incarichi importanti. Era un consulente del re. In particolare, il nome di questa via ricorda don Ignazio Papè, Protonotaro del Regno delle due Sicilie, che proprio qui fece costruire la sua sontuosa residenza. Distrutta dalle bombe durante la guerra.-
La voce della zia si fece triste, arrabbiata. La guerra aveva fatto solo cose terribili.
-Dante, nella Divina Commedia ne ricorda uno molto importante: Pier della Vigna. Avrai modo a scuola di leggerne e studiarne i versi.-
Arrivarono quindi davanti l’ingresso della Scuola Media del Protonotaro, si salutarono e Nunzia si mischiò agli altri studenti dell’istituto.
-Cara Cettina, sono così contenta!
I miei compagni di classe sono simpatici e anche bravi. A parte qualcuno, ovviamente! I professori sono molto rigorosi e attenti. Pretendono disciplina e curano molto la preparazione di noi studenti. Io cerco di fare del mio meglio, me lo impongo ogni giorno, anche se l’altro ieri sono stata rimproverata dalla professoressa di religione. Indossiamo tutti un grembiule nero in classe, il mio è abbottonato dietro. L’ora di religione è pesante, non fosse altro perché copre l’ultima ora di una giornata in cui si è stati impegnati in latino, matematica, italiano. E’, quella, un’ora in cui si freme per uscire e tornarsene a casa. Ho pensato di eludere l’attenzione dell’insegnante cominciando, piano piano e con lo sguardo da interessata alla lezione, a sbottonare il mio grembiule: la professoressa non si sarebbe accorta che una delle mie mani trafficava alle mie spalle. E invece no! Se n’è accorta, mi ha rimproverata e, per punizione, sono uscita per ultima dalla classe. Bisogna essere troppo bravi per fare i furbi e io, proprio in materia di furbizia, avrò sempre un voto bassissimo.-
A volte la nonna le chiedeva di andare a comprare le uova dal lattaio. La famiglia del lattaio viveva in una di quelle case a piano terra con una porta d’ingresso che poteva fungere anche da finestra. Chiusa la parte inferiore, dalla parte superiore della porta si sporgeva il mezzo busto di una signora con uno sciallino di lana, lavorato all’uncinetto che le copriva le spalle per buona parte dell’anno. Affacciata all’apertura della sua casa, la donna svogliatamente seguiva il passaggio della gente, aspettando che succedesse qualcosa che la scuotesse dalla monotonia della sua giornata.
-Buongiorno! Mi da’ dieci uova?-
La moglie del lattaio apriva anche la parte inferiore della porta e la faceva entrare. Le uova si trovavano dentro una credenza che ingombrava una stanza piena di cose. Su un divano stava seduto un ragazzo altissimo e magrissimo: lo chiamavano Cocò, forse per ricordare le galline o forse per trovare un appellativo veloce che raggiungesse presto la sua attenzione. Fatto sta che Cocò si allungava, la sua figura si assottigliava, spalmandosi lungo i suoi muscoli e le sue ossa, arrivando a superare i due metri. In quella stanza c’era un’atmosfera di indifferente confusione, ognuno faceva le sue cose, scansandosi a vicenda: la donna cercava una bustina dove mettere le uova, Cocò non proferiva parola e il lattaio trafficava tra i suoi bidoni d’alluminio, sparsi per la stanza.
-Vuoi pure il latte?-
-No, no. Grazie!-
Nunzia guardava Cocò, ma Cocò non guardava nessuno. Il viso scarno, gli occhi affossati e un grosso naso aquilino erano incorniciati da una liscia capigliatura.
–Pari na canna pi stenniri!- pensò la ragazza associando quel corpo lungo e scarno, alle canne che le donne usavano per stendere i panni. Ne aveva viste tante di quelle canne lungo i marciapiedi. Le donne che si affacciavano a mezzo busto, stendevano i panni su una corda legata a due chiodi piantati sulla facciata della casa a piano terra. La canna, che inforcava la corda nel suo punto di mezzo, veniva posizionata sul muro per tenere in alto i panni. Più era lunga la canna, più lenta doveva essere la corda e più panni si potevano stendere.
-Quant’ è?-
-Dammi 100 lire.-
Nunzia pagò e salutò. Salutò anche Cocò che rimase fermo e rigido nella sua lunghezza, come ‘na canna pi stenniri secca e tesa, aggrappata al suo muro di esistenza.
Ricordo, cuore mio, che mia madre, quando si litigava e volavano parole grosse, se ne usciva con una sentenza affilata come una spada: ‘a lingua unn’ avi ossa, ma rumpi l’ossa, la lingua non ha ossa, ma rompe le ossa. La sentenza era potente, come potente il messaggio della forza della parola. La mia era una famiglia molto rumorosa: si parlava, si litigava, si ricordava e in tutto questo trambusto, le parole circolavano attraverso le finestre del passato e quelle del presente, come valigie cariche delle cose più importanti che ognuno si portava dietro per tutta la durata della parentesi di respiro che è la vita.
PAROLE IN MOVIMENTO
-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-
La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.
-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-
-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-
E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.
-Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-
-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.
A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!
Il viaggio era stato lungo e in quel vagone di seconda classe faceva tanto caldo. Il treno si era infilato tra colline arse dal sole e tonde come i grandi seni delle lavandaie di piazza Buonadies. Le greggi vagavano stanche e, lungo i piccoli rivoli d’ acqua che segnavano il territorio, guizzavano bisce nere, mentre i corvi andavano ad abbeverarsi. Chissà quali altri uccelli e rettili potevano vivere in quella landa desolata! La sua mente aveva allungato lo sguardo fino alla casa da dove aveva visto fuggire via suo fratello. Da quando la mamma aveva trovato lavoro, le cose erano cambiate. Lei non era una lavandaia e non era catanese. Un’improvvisa frenata del treno l’aveva riportata al tempo del suo viaggio. Una mucca stava lentamente attraversando i binari e tranquillamente, come se il treno fosse solo una figura immaginaria, si era fermata a brucare qualche ciuffo d’erba che spuntava tra le rotaie. I passeggeri si erano affacciati dai finestrini, alcuni divertiti, altri stanchi, accaldati e insofferenti:
-Ci mancava solo la vacca! Domani arriviamo!!-
Cettina e sua sorella avevano lasciato il loro posto sul treno. Raggiunsero quindi un vagone, da dove potevano osservare meglio quella creatura che sembrava saltata fuori da una favola, per rompere la monotonia di quel sudore che inesorabile colava dalla fronte, dal collo e da tutto il corpo.
-Ma guardala ch’è tranquilla! Se ne sta proprio fregando del treno e di noi!-
E ridevano, partecipando di quella naturale disinvoltura.
Finalmente la mucca aveva lasciato i binari, lentamente, con calma. Era una mucca siciliana, pensarono tutti, unni ci chiovi, ci sciddica[i], non l’aveva scomposta niente e nessuno:
-Fino a che non la tocca qualcuno!- sentenziò uno dei passeggeri.
Il treno aveva ripreso il viaggio e sembrava proseguire con lo stesso andamento dell’animale che prima l’aveva bloccato. Sarebbero mai arrivati a destinazione?
Erano arrivate, dopo molte ore, non sapevano quante, tanta era la stanchezza che avevano smesso di contare il tempo del viaggio.
Alla stazione era andata la zia ad accoglierle: baci, abbracci, scrosci di labbra su guance sudate e felici.
-E Mimmo? Dov’è Mimmo?-
Cettina non aveva voluto raccontare della fuga del fratello. Lei e sua sorella pensarono che era meglio non dire nulla, avrebbero dato un gran dispiacere alla zia e alla nonna. Avrebbero trascorso i due mesi di vacanza con quel segreto nel cuore, regalando solo la gioia di renderle felici.
-Oggi andiamo a Mondello, al mare! Come andiamo col filobus o con la carrozza?-
Era quasi scontato che il mezzo più divertente era la carrozza e per questo la zia faceva la vaga. Siccome non arrivava risposta, si decise a pensare di proporre, come una sfida, il filobus. Sul viso delle ragazzine si disegnò un sorriso rassegnato ma grato: cosa pretendere ancora?
-Va bene, preparatevi. Indossate il costume e un prendisole e andiamo. Avete portato il costume, vero?-
-Sì, quello dell’anno scorso. E’ un poco piccolo, ma ancora va bene.-
La donna guardò con tenerezza le sue nipoti e decisa le portò fuori, in strada per raggiungere a piedi la stazione.
-Dai salite!-
-Ma è una carrozza! Non dovevamo andare con il filobus?-
-Se vi siete portati il costume di quando avevate due anni, dobbiamo passare da Sant’Agostino per prenderne uno che vi stia bene e quindi andiamo in carrozza. Il filobus lo prendiamo dopo.-
Attraversarono via Roma sprizzando felicità da tutti i pori, mentre il vento scompigliava i capelli e portava via ogni pensiero triste che si affacciava alla mente. Il cavallo sembrava un po’ anziano o forse era il caldo che lo faceva galoppare con fatica. Arrivarono all’altezza di piazza San Domenico, da dove arrivavano le voci del mercato della Vucciria, e scesero dalla carrozza. Salutarono lo gnuri, il cocchiere, e a piedi proseguirono per via Bandiera e la percorsero tutta con il naso all’in su, stupite dalla magnificenza di antichi palazzi nobiliari. Attraversarono via Maqueda e finalmente si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva, come un venticello allegro, un forte e invitante odore di sfincione.
-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.
-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-
-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-
Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.
-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?- Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui, con un gesto della mano, non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-
Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.
-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino in spiaggia- disse la zia, ormai immersa nell’idea di realizzare una giornata fantastica.
E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.
Quel giorno era trascorso come il soffio del vento di quella stagione che le aveva portate lì i primi giorni di luglio. Con la zia avevano visitato altri posti: erano andate a giocare al Foro Italico e una volta, c’era anche la nonna, erano andate a messa in cattedrale: bella, bellissima! Erano arrivate a piedi, attraversando via Maqueda e arrivando al Cassaro, per i quattro canti, incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele. Il Duomo a Catania era immerso nella vita cittadina, la gente viveva quella grande struttura come una realtà giornaliera: il Duomo, l’Etna, l’elefantino di pietra lavica con l’obelisco, la pescheria, la fontana dell’Amenano. Tutto viveva ogni giorno insieme ai catanesi. La Cattedrale di Palermo sembrava vivere una vita a parte. Sontuosamente ricca, antica e lontana nel tempo, si poteva avvertire ancora l’odore e il fruscio di vestiti di dame e regine che avanzavano in corteo lungo la navata centrale; ci si sentiva attraversati dalla dignità austera di vescovi e re d’altri tempi. Faceva quasi soggezione.
Finita la messa, avevano continuato la loro passeggiata attraverso il mercato del Papireto e poi su per piazza Indipendenza dove presero una carrozza per tornare a casa. La nonna, oltre ad avvertire un po’ di stanchezza, aveva fretta di tornare a casa. Doveva cucinare la pasta con i tenerumi. Buonissima! La mattina, prima che la casa si svegliasse del tutto, in silenzio aveva pulito le cime delle zucchine lunghe: le foglie più tenere, i gambi più freschi, i fiori bianchi ancora aperti, qualche zucchina pelosa appena ingrossata. Aveva poi lavato tutto per bene e messo in un colapasta. Al ritorno, indossò un grembiule e, preso un coltello dal cassetto del tavolo della cucina, iniziò a tagliare la zucchina lunga più di mezzo metro.
-Nonna, questa zucchina sembra la moglie di braccio di ferro!-
La donna mise sul fornello una grossa pentola con dell’acqua, sorridendo sorniona a sua nipote e continuò a tagliare l’ortaggio a cubetti e , quando l’acqua iniziò a bollire, vi immerse le cime e “la moglie di braccio di ferro”.
Intanto che la verdura cuoceva nella pentola, in una padella fece soffriggere tre spicchi di aglio fatti a pezzettini e vi aggiunse dei pomodorini tagliati a metà. Si sviluppò un odore per tutta la casa che l’appetito ne fu subito stuzzicato.
-Tieni, sminuzza gli spaghetti. Mettili in uno strofinaccio e strapazzali, così si spezzano meglio.-
Cettina ubbidì: sistemò la pasta cruda dentro la pezza e, mentre con una mano ne teneva ben fermi i quattro angoli, con l’altra iniziò un movimento come stesse impastando.
-Basta, basta così! Altrimenti diventa mollica!-
La nonna prese il fagotto e versò il contenuto nella pentola. Mescolò per bene e, quando la pasta era quasi cotta, aggiunse il soffritto di pomodoro. Mescolò ancora e aggiunse del pepe nero. La pasta era pronta. Ne mangiarono un piattone ciascuno.
-Quella che resta la mangiamo stasera. Fredda è la fine del mondo!-
Il tempo della vacanza palermitana trascorreva veloce, allegro anche se a giorni gioiosi si alternavano notti insonni. Era proprio la notte che i fantasmi nascosti durante il giorno nella mente e nel cuore, legati al desiderio di cacciarli per sempre e trovargli un posto, magari all’inferno, si liberavano dalle catene della gioia. Nella cameretta buia dove Cettina e sua sorella Rosetta dormivano insieme alla zia, si muovevano figure, sfrecciavano tormenti. Una notte sentì gridare sua sorella nel sonno. La zia la svegliò e la rassicurò. Il giorno dopo chiese alle nipoti della mamma, di papà e del fratello e, senza umiliarle con sentenze tristi e irritanti come sale su una ferita, disse loro che tornate a casa dovevano impegnarsi a studiare. Presto avrebbe parlato con la loro mamma per farle rimanere per sempre a Palermo. Lei si sarebbe presa cura di loro, così avrebbero potuto continuare gli studi con più serenità. Prese in disparte Cettina e le confidò di avere ricevuto una lettera da sua madre. Non le dava nessuna notizia di Mimmuzzo. Tra quelle righe, dove le parole sembravano navigare impetuose, c’era qualcosa che riguardava proprio lei, Cettina, la sua vita, il suo ritorno a Catania.
-Vi raccomando, non lasciatevi trasportare dalla follia di vostro padre. Continuate ad andare a scuola e insistete sul vostro diritto di guardare al futuro con fiducia.-
Con queste parole le riaccompagnò alla stazione. La vacanza era finita. Salirono sul treno con le raccomandazioni della zia che pesavano come una promessa già non mantenuta. Un grido del capostazione e tutto si dileguò tra le colline dorate e arse dal sole di fine agosto.
«Quando mi cercate non mi trovate. Accattatevi il sale e conservatelo. Quattro pacchi mille lire», pagina 168, Gaetano Savatteri, Non c’è più la Sicilia di una volta, edito da Laterza.
Un ricordo, quello di Savatteri, scritto anche nelle pagine della mia vita di giovane siciliana. Abitavo a Palermo, in una casa al primo piano di un antico edificio. Trascorrevo tanto tempo nella mia cameretta. Studiavo, sognavo (specialità che mi sono sempre trovata cucita addosso), restavo sdraiata a letto a fissare le immagini colorate che, in estate, la luce del sole proiettava sul tetto attraverso le persiane. Mi lanciavo quindi in una sorta di quiz solitario: auto piccola rossa, furgoncino bianco, auto di media cilindrata verde. Trascorso il mio momento privato, stavo al telefono? No, quello no: non esistevano ancora i cellulari. Se volevo compagnia ero “costretta” a uscire per andare a trovare un’amica e magari fare una passeggiata con una cugina o una zia; oppure seguire mia madre al balcone di fronte al quale si apriva una platea di comunicatori che lanciavano discorsi da una ringhiera a un’altra, mentre fili di amicizia si intrecciavano tra risate, considerazioni, informazioni e consigli fluttuando sul traffico stradale di auto, ambulanze, bus e “abbanniatori”. Erano, quest’ultimi, venditori ambulanti la cui voce oltrepassava l’intreccio delle voci delle donne al balcone attirandone l’attenzione più di una sirena di un’ambulanza in codice rosso.
-Bih! C’è chiddu du sali!- e, in automatico, calavano dai balconi dei panieri, con una corda lunga quanti erano i piani che le mille lire dovevano percorrere per essere sostituiti dai quattro pacchi di sale: non sia mai che si cercava quello del sale e non si trovava!
-Ascaretti!!- Secco, preciso. Era estate e con 50 lire nel paniere si poteva avere un ascaretto, uno stecco gelato, un semplice cremino. E poi pullanchielli belli (pannocchie belle), sficione cavuru-cavuru ( pizza alta, soffice e profumata calda-calda), panelle e crocchè (frittelle di farina di ceci e polpettine di patate) a testimoniare una Palermo quotidiana fatta e scritta dalla gente di ogni giorno. Voci che custodivano gelosamente una sicilianità che si raccontava attraverso l’amore e l’attaccamento alle tradizioni che per le strade rivendicano il diritto a continuare a vivere. “Non esiste più la Sicilia di una volta”, scrive Savatteri: non serve dormire sugli allori. La Sicilia ha avuto una grande storia, grandi letterati e poeti. Ha avuto. Adesso bisogna continuare a costruire, a scrivere altra storia che non sia scritta da chi non ha occhi per valorizzare quello che c’è. C’è il sole, il mare, l’abbraccio di voci che per le strade desiderano ancora qualcuno che li ascolti e abbassi un paniere ricco di speranza.
-La mia mente è stanca, è confusa. Tante cose vulissi cuntari, ma a nuddu vogghiu fari mali*.-
-Dai, comincia.-
-Comincio da qui, da questo corridoio che segna la mia vita ogni mattina: dal balcone che si affaccia a nord, al balcone che si affaccia a sud. No, non è lunghissimo questo passaggio che ogni mattina offre alle mie gambe stanche la meraviglia del bagliore del sole che sorge e dipinge di rosa e arancione il mare a sud e la Montagna a nord. Avanti e indietro, da nord a sud assorbendo i colori del mondo, nutrendomi dello stupore di quegli attimi di pura bellezza avvolti in un silenzio magico e rispettoso. Poi basta, poi comincia il rumore del giorno: i colori seducenti svaniscono e inizia la solitudine del cuore.
Quando ero bambina c’erano tante cose che stuzzicavano la mia meraviglia. Di queste, molte rimanevano lì sempre pronte a sollecitare il mio desiderio di poesia, di magia, di cuore di un mondo incantatore: il mare, il vento, il vociare festoso di mercati affollati. C’erano però alcune “cose” più intime, più chiacchierine a cui era dato poco tempo per raccontarsi. Apparivano, o meglio, facevano capolino da un cassetto dal fondo profondo cento anni e cominciavano a svelare immagini, situazioni, parole, come a voler lasciare un lembo di fantasia, una traccia della loro esistenza per poi sparire nel fondo dei loro cento anni senza dire più nulla. Avrò visto due o tre volte uno strumento da ricamo che mia madre custodiva gelosamente avvolto in un lenzuolo di lino. Era un tombolo appartenuto a una zia della mamma, una zia monaca dal caratterino vivace. Mia madre era una che amava il cunto e il canto e sopra il cilindro del tombolo e attorno ai tanti fuselli ricamava la storia della zia, monaca non certo per devozione, e delle suore di clausura del convento di Santa Caterina. L’antico convento sorgeva nel cuore del centro storico di Palermo, lì dove mia madre cresceva tra giochi e storie antiche. Seguendo la trama del ricamo sul tombolo, intesseva la storia di monache operose, tra queste la zia, e delle quali non si sapeva nulla se non che usavano una sorta di ruota per comunicare con la vita fuori dal convento. Su quella ruota passavano ricami per le spose, dolci prelibati e anche orfanelli, bimbi avvolti in fasce di cui le monache si prendevano cura. La zia era tosta, una specie di monaca di Monza, ma aveva appreso l’arte del ricamo a tombolo in maniera esemplare come a volere descrivere la bellezza di un mondo che le esplodeva dentro. Finito il cunto, il tombolo veniva riavvolto nel lenzuolo di lino e riposto nel cassetto dal fondo di cento anni, lasciando un drappo sempre visibile a chi di quel tombolo ne aveva ascoltato la storia.
Quante cose custodisce una casa! Drappeggi invisibili, appesi alle porte del cuore.
Di tanto in tanto mio padre prendeva una specie di fagotto nascosto su un alto scaffale, e lo apriva. Era un rito che si ripeteva a scadenze indefinite e con un pathos che coinvolgeva tutti noi in attesa di farci stupire dal misterioso fagotto. Io ero la figlia maggiore. Questa cosa di essere la figlia maggiore è stata sempre una immane fatica. E’ stato come vivere due vite contemporaneamente: da una parte la bimba che cresceva e dall’altra la consigliera, la mediatrice, quella che riusciva a placare gli animi ogni qual volta scoppiava (nel vero senso della parola) una lite tra i miei genitori. Mia madre diceva spesso che non ero mai stata piccola perché il mio ruolo non me lo permetteva. Una volta dismesse le mie competenze pacificatrici, non ero più la “grande” ( cosa che pensavo mi desse qualche privilegio), dovevo stare attenta a non atteggiarmi a sapientona, pena l’isolamento, da cui neanche mia madre mi poteva salvare.
Ma torniamo al fagotto. Abracadabra…l’oro di famiglia. L’anello di fidanzamento di mamma, quello di papà, orologi, collane, collanine, anellini e poi…qualcosa uscita fuori da una storia antica di migrazione, amore, sofferenza, riscatto: un paio di occhiali da vista dalla montatura dorata, di metallo sottile, essenziale, con lenti rotonde di quelle che indossavano i maestri alteri di certi sceneggiati in bianco e nero. C’era anche una collana di pietre rosse, bigiotteria americana che raccontava di traversate sull’oceano, di una bimba cresciuta a New York e che, tornata al suo paese in Sicilia, si sposava, dava alla luce una nidiata di bambini e moriva qualche giorno prima di tornare in America. Io ero la grande e il mio nome fu il nome di quella nonna sfortunata, per segnare un ricordo, un dolore, una tenerezza negata. Abracadabra…il fagotto si richiudeva lasciandomi a vagare con la mente come una fata tra sogni belli e meno belli, per sempre, per ogni anno della mia vita.
PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatto io, o quella del principe, o di chi altro?O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
VENDITORE. Lo credo codesto.
PASSEGGERE. Nè anche voi tornereste indietro con questo fatto, non potendo in altro modo?
VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.
PASSEGGERE.Oh che vita vorreste voi dunque?
VENDITORE. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
VENDITORE. Appunto.
Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.
Buon anno a tutti, al sole che sorge al mattino senza far patti con il cielo, le nuvole e il vento, che incontra e basta e insieme a loro ci regala un giorno nuovo, e poi un altro, e poi un altro ancora.
∗Tante cose vorrei raccontare,ma a nessuno voglio fare male.
Nel 2016, Antonello Blandi, grafico e designer palermitano, diede un’originale rappresentazione del mercato storico di Ballarò. Nel quadro, personaggi famosi dello spettacolo, della politica o delle “sfere alte” della Palermo bene, sono trasformati in abbanniatori¹, mentre Andrea Camilleri, da uno dei balconi ai piedi della cupola della chiesa del Carmine, osserva e scruta la folla.
Cominciai la mia avventura scolastica a Palermo proprio nei pressi del mercato storico di Ballarò, cuore pulsante di un quartiere normanno il cui nome, Albergheria, indica una terra a mezzogiorno, illuminata da un sole raggiante, e deriva da Albahar, nome con cui i saracenichiamarono “mare” quel lago così grande e vasto dentro la città, probabilmente formato dall’incontro di due fiumi, il Papireto e il Kemonia, ricco di pesci e circondato da un muro adorno di barchette d’oro e d’argento. Il mercato era allora frequentato da mercanti arabi che da Bahlara, villaggio nei pressi di Monreale, popolavano ogni giorno il quartiere dell’ Albergheria per vendere, comprare, litigare e scendere a patti.
Quanto basta per immaginarsi in una storia da Mille e una notte.
In una delle case dell’antico rione nacque Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro come si fece chiamare in seguito. Figlio di un mercante di stoffe, fu alchimista, mago, avventuriero, falsario, guaritore e, durante il secolo dei lumi, trascorse la sua vita girovagando in lungo e in largo per le corti di tutta Europa. La sua vita e la sua morte sono avvolte dal mistero e, secondo una leggenda popolare che circolava tra le vie del quartiere dell’ Albergheria, il suo corpo era arrivato in Sicilia e sepolto in una nicchia delle catacombe dei Cappuccini a Palermo.
Andavo e tornavo da scuola attraversando voci, colori, misteri conditi da profumi di una tradizione che resisteva al tempo. Bancarelle cariche di frutta, verdure, spezie e aromi si alternavano a quelle del pesce, della carne, delle olive, delle conserve, del pane e poi, tra la baraonda di parole gridate che saltellavano scoppiettanti tra la merce esposta, se ne sentiva qualcuna che, attraversando il mercato con flemma indicibile, portava con sé un odore forte, come di pizza riccamente condita.
-Cavuru, cavuru è!²-
Ma come? Faceva già caldo! Un uomo trainava a mano il suo carretto e ignaro del trascorrere delle stagioni, attirava la gente con la sua voce e il forte profumo di focaccia, salsa di pomodoro, cipolla, formaggio, mollica attraversava le narici e inebriava la mente tanto che, anche in estate, lo sfincione si preferiva al cono gelato.
E poi panelle e crocchette di patate gialle come il sole e panini con la milza cotta nella sugna bollente come la terra di mezzogiorno… lanciavano il loro invito da bottegucce affollate di gente, che ogni giorno transitava per il mercato di Ballarò.
-Che mangiamo stasera?-
-Niente, vai a Ballarò e prendi quattro panini con panelle e crocchè.-
E quel niente si condiva di forti sapori e intensi profumi.
A Palermo, si sa, tutto è abbondante. Il porto, i palazzi e i quartieri rumorosi di passato e presente. Le cupole rosse, i mosaici dorati, le ville e le strade che corrono dritte verso il mare abbondante di storia. La tavola palermitana è generosa di sughi, di odori e pietanze: caponatine galleggianti in olio profumato di capperi e melanzane; babbalusci, lumachine bianche come la neve, che odorano di aglio e prezzemolo fresco; e poi sfincioni con cipolla e formaggio, salsiccie con finocchietto selvatico e carciofi ripieni come pance mai sazie. Anche il dialetto palermitano è abbondante: nell’articolare le vocali ( lunghe, molto lunghe e aperte, molto aperte) e nel descrivere iperbolicamente situazioni e detti popolari che abbondano di metafore e riferimenti tratti dalla vita di ogni giorno: il palermitano non guarda, scruta in silenzio e poi parla e arricchisce i suoi dialoghi con immagini, colori e sfumature di un mondo di cui è assolutamente padrone.
-Ma quann’é ca a finisci ri fari u scimunitu?-
(Ma quando la smetti di fare lo scemo?)
-Quannu s’asciucanu i balati ra Vucciria!-
(Quando si asciugano le lastre di marmo del mercato della Vucciria)
Cioè MAI, secondo l’ immaginario della gente di Palermo.
Eppure molte delle balate della Vucciria si sono asciugate , trasformando quello che era uno dei mercati storici della città, in una rivalutazione di un’ altra tradizione palermitana: il cibo di strada. L’ abbanniata, l’urlo ( lontano dal somigliare a quello descritto da Munch), continua ad essere il richiamo festoso, l’ esaltazione di un cibo che si tramanda con la stessa passione e lo stesso trasporto di sempre. Il palermitano che abbannia mostra con orgoglio e soddisfazione quello che bolle o frigge nei suoi pentoloni. Il viso gli si illumina e gli occhi scrutano la reazione del pubblico travolto dallo spettacolo di voci, colori, odori.
–Chi c’ è? Un ti piaciu?-
(Che c’ è? Non ti è piaciuto?)
E con lo sguardo puntato sulla bocca mentre assapori un panino con le panelle o con la milza, pezzi di polpo bollito o stigghiola (budella di bue ) arrostiti e che hai preso con le mani, ti senti quasi minacciato. Invece tutto é buonissimo, gustoso e ricco di emozioni concentrati in un boccone.
Nel 1974 Renato Guttuso completava una delle sue opere più belle, LA VUCCIRIA. Il dipinto racconta e descrive il mercato come era una volta: bancarelle addossate una all’ altra in un’ armonica e quasi maniacale sistemazione della merce e ganci da cui pendono animali macellati e sezionati per la vendita. Nel tripudio di carni, pesci, frutta, verdura, aromi e abbanniati una donna si aggira sotto gli occhi scrutatori dei venditori e dei nostri. Il quadro è esposto nella Sala Magna del Palazzo Chiaramonti-Steri a Palermo dove, da qualche anno, si trova anche un quadro intitolato a un altro mercato storico del capoluogo siciliano: Ballarò. Ma di questo parlerò un’ altra volta.
-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-
La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.
-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-
-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-
E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.
-Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-
-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.
Arrivate a Palermo, Cettina e sua sorella furono travolte dall’affetto della nonna e della zia.
-Oggi si va a Mondello! Ma prima facciamo un giro in carrozza!-
Attraversarono via Roma sprizzando felicità da tutti i pori mentre il vento scompigliava i capelli e portava via ogni pensiero triste che si affacciava alla mente. Il cavallo sembrava un po’ anziano o forse era il caldo che lo faceva galoppare con fatica. Giunte nei pressi di piazza San Domenico, da dove arrivavano le voci del mercato della Vucciria, scesero dalla carrozza. Salutarono lo gnuri, il cocchiere, e a piedi proseguirono per via Bandiera e la percorsero tutta con il naso all’ in su, stupite dalla magnificenza di antichi palazzi nobiliari. Attraversarono via Maqueda e finalmente si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva, come un venticello allegro, un forte e invitante odore di sfincione.
-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.
-Sficione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-
-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-
Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.
-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini della provincia di Messina. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?- Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia lo invitammo a prendere quella foto, sembrava ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-
Risero di cuore. Quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.
-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’idea di realizzare una giornata fantastica.
E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.
Quel giorno era trascorso come il soffio di vento di quella stagione che le aveva portate lì i primi giorni di luglio. Con la zia avevano visitato altri posti: erano andate a giocare al Foro Italico e una volta, c’era anche la nonna, erano andate a messa in cattedrale: bella, bellissima! Erano arrivate a piedi, attraversando via Maqueda fino al Cassaro, ai quattro canti, incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele, U Cassaru, appunto. Il Duomo a Catania era immerso nella vita cittadina, la gente viveva quella grande struttura come una realtà giornaliera: il Duomo, l’Etna, l’elefantino di pietra lavica con l’obelisco, la pescheria, la fontana dell’Amenano. Tutto viveva ogni giorno insieme ai catanesi. La Cattedrale di Palermo sembrava vivere una vita a parte: sontuosamente ricca, antica e lontana nel tempo, sembrava di avvertire ancora l’odore e il fruscio di vestiti di dame e regine, le onorificenze di vescovi e re: faceva quasi soggezione. Finita la messa, avevano continuato la loro passeggiata attraverso il mercato del Papireto e poi su per piazza Indipendenza dove presero una carrozza per tornare a casa.
Il tempo della vacanza palermitana trascorreva veloce, allegro anche se a giorni gioiosi si alternavano notti insonni. Era proprio la notte che i fantasmi nascosti durante il giorno nella mente e nel cuore, legati dal desiderio di cacciarli per sempre e trovargli un posto, magari all’inferno, si liberavano dalle catene della gioia. Nella cameretta buia dove Cettina e sua sorella Rosetta dormivano insieme alla zia, si muovevano figure, sfrecciavano tormenti. Una notte sentì gridare sua sorella nel sonno. La zia la svegliò e la rassicurò. Il giorno dopo chiese alle nipoti della mamma, di papà e del fratello e, senza umiliarle con sentenze tristi e irritanti come il sale su una ferita, disse loro che tornate a casa dovevano impegnarsi a studiare. Presto avrebbe parlato con la loro mamma per farle rimanere per sempre a Palermo. Lei si sarebbe presa cura di loro e così avrebbero potuto continuare gli studi con più serenità. Prese in disparte Cettina e le confidò di avere ricevuto una lettera da sua madre. Non le dava nessuna notizia di Mimmuzzo, il fratello di Cettina. Tra quelle righe dove le parole sembravano navigare impetuose, c’era qualcosa che riguardava proprio lei, Cettina, la sua vita, il suo ritorno a Catania.
-Vi raccomando, non lasciatevi trasportare dalla follia di vostro padre. Continuate ad andare a scuola e insistete sul vostro diritto di guardare al futuro con fiducia.-
Con queste parole le riaccompagnò alla stazione. La vacanza era finita. Salirono sul treno con le raccomandazioni della zia che pesavano come una promessa già non mantenuta. Un grido del capostazione e tutto si dileguò tra le colline dorate e arse dal sole di fine agosto.