
Ricordo, cuore mio, che mia madre, quando si litigava e volavano parole grosse, se ne usciva con una sentenza affilata come una spada: ‘a lingua unn’ avi ossa, ma rumpi l’ossa, la lingua non ha ossa, ma rompe le ossa. La sentenza era potente, come potente il messaggio della forza della parola. La mia era una famiglia molto rumorosa: si parlava, si litigava, si ricordava e in tutto questo trambusto, le parole circolavano attraverso le finestre del passato e quelle del presente, come valigie cariche delle cose più importanti che ognuno si portava dietro per tutta la durata della parentesi di respiro che è la vita.
PAROLE IN MOVIMENTO
-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-
La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.
-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-
-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-
E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.
-Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-
-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.
A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!
Il viaggio era stato lungo e in quel vagone di seconda classe faceva tanto caldo. Il treno si era infilato tra colline arse dal sole e tonde come i grandi seni delle lavandaie di piazza Buonadies. Le greggi vagavano stanche e, lungo i piccoli rivoli d’ acqua che segnavano il territorio, guizzavano bisce nere, mentre i corvi andavano ad abbeverarsi. Chissà quali altri uccelli e rettili potevano vivere in quella landa desolata! La sua mente aveva allungato lo sguardo fino alla casa da dove aveva visto fuggire via suo fratello. Da quando la mamma aveva trovato lavoro, le cose erano cambiate. Lei non era una lavandaia e non era catanese. Un’improvvisa frenata del treno l’aveva riportata al tempo del suo viaggio. Una mucca stava lentamente attraversando i binari e tranquillamente, come se il treno fosse solo una figura immaginaria, si era fermata a brucare qualche ciuffo d’erba che spuntava tra le rotaie. I passeggeri si erano affacciati dai finestrini, alcuni divertiti, altri stanchi, accaldati e insofferenti:
-Ci mancava solo la vacca! Domani arriviamo!!-
Cettina e sua sorella avevano lasciato il loro posto sul treno. Raggiunsero quindi un vagone, da dove potevano osservare meglio quella creatura che sembrava saltata fuori da una favola, per rompere la monotonia di quel sudore che inesorabile colava dalla fronte, dal collo e da tutto il corpo.
-Ma guardala ch’è tranquilla! Se ne sta proprio fregando del treno e di noi!-
E ridevano, partecipando di quella naturale disinvoltura.
Finalmente la mucca aveva lasciato i binari, lentamente, con calma. Era una mucca siciliana, pensarono tutti, unni ci chiovi, ci sciddica[i], non l’aveva scomposta niente e nessuno:
-Fino a che non la tocca qualcuno!- sentenziò uno dei passeggeri.
Il treno aveva ripreso il viaggio e sembrava proseguire con lo stesso andamento dell’animale che prima l’aveva bloccato. Sarebbero mai arrivati a destinazione?
Erano arrivate, dopo molte ore, non sapevano quante, tanta era la stanchezza che avevano smesso di contare il tempo del viaggio.
Alla stazione era andata la zia ad accoglierle: baci, abbracci, scrosci di labbra su guance sudate e felici.
-E Mimmo? Dov’è Mimmo?-
Cettina non aveva voluto raccontare della fuga del fratello. Lei e sua sorella pensarono che era meglio non dire nulla, avrebbero dato un gran dispiacere alla zia e alla nonna. Avrebbero trascorso i due mesi di vacanza con quel segreto nel cuore, regalando solo la gioia di renderle felici.
-Oggi andiamo a Mondello, al mare! Come andiamo col filobus o con la carrozza?-
Era quasi scontato che il mezzo più divertente era la carrozza e per questo la zia faceva la vaga. Siccome non arrivava risposta, si decise a pensare di proporre, come una sfida, il filobus. Sul viso delle ragazzine si disegnò un sorriso rassegnato ma grato: cosa pretendere ancora?
-Va bene, preparatevi. Indossate il costume e un prendisole e andiamo. Avete portato il costume, vero?-
-Sì, quello dell’anno scorso. E’ un poco piccolo, ma ancora va bene.-
La donna guardò con tenerezza le sue nipoti e decisa le portò fuori, in strada per raggiungere a piedi la stazione.
-Dai salite!-
-Ma è una carrozza! Non dovevamo andare con il filobus?-
-Se vi siete portati il costume di quando avevate due anni, dobbiamo passare da Sant’Agostino per prenderne uno che vi stia bene e quindi andiamo in carrozza. Il filobus lo prendiamo dopo.-
Attraversarono via Roma sprizzando felicità da tutti i pori, mentre il vento scompigliava i capelli e portava via ogni pensiero triste che si affacciava alla mente. Il cavallo sembrava un po’ anziano o forse era il caldo che lo faceva galoppare con fatica. Arrivarono all’altezza di piazza San Domenico, da dove arrivavano le voci del mercato della Vucciria, e scesero dalla carrozza. Salutarono lo gnuri, il cocchiere, e a piedi proseguirono per via Bandiera e la percorsero tutta con il naso all’in su, stupite dalla magnificenza di antichi palazzi nobiliari. Attraversarono via Maqueda e finalmente si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva, come un venticello allegro, un forte e invitante odore di sfincione.
-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.
-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-
-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-
Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.
-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?- Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui, con un gesto della mano, non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-
Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.
-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino in spiaggia- disse la zia, ormai immersa nell’idea di realizzare una giornata fantastica.
E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.
Quel giorno era trascorso come il soffio del vento di quella stagione che le aveva portate lì i primi giorni di luglio. Con la zia avevano visitato altri posti: erano andate a giocare al Foro Italico e una volta, c’era anche la nonna, erano andate a messa in cattedrale: bella, bellissima! Erano arrivate a piedi, attraversando via Maqueda e arrivando al Cassaro, per i quattro canti, incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele. Il Duomo a Catania era immerso nella vita cittadina, la gente viveva quella grande struttura come una realtà giornaliera: il Duomo, l’Etna, l’elefantino di pietra lavica con l’obelisco, la pescheria, la fontana dell’Amenano. Tutto viveva ogni giorno insieme ai catanesi. La Cattedrale di Palermo sembrava vivere una vita a parte. Sontuosamente ricca, antica e lontana nel tempo, si poteva avvertire ancora l’odore e il fruscio di vestiti di dame e regine che avanzavano in corteo lungo la navata centrale; ci si sentiva attraversati dalla dignità austera di vescovi e re d’altri tempi. Faceva quasi soggezione.
Finita la messa, avevano continuato la loro passeggiata attraverso il mercato del Papireto e poi su per piazza Indipendenza dove presero una carrozza per tornare a casa. La nonna, oltre ad avvertire un po’ di stanchezza, aveva fretta di tornare a casa. Doveva cucinare la pasta con i tenerumi. Buonissima! La mattina, prima che la casa si svegliasse del tutto, in silenzio aveva pulito le cime delle zucchine lunghe: le foglie più tenere, i gambi più freschi, i fiori bianchi ancora aperti, qualche zucchina pelosa appena ingrossata. Aveva poi lavato tutto per bene e messo in un colapasta. Al ritorno, indossò un grembiule e, preso un coltello dal cassetto del tavolo della cucina, iniziò a tagliare la zucchina lunga più di mezzo metro.
-Nonna, questa zucchina sembra la moglie di braccio di ferro!-
La donna mise sul fornello una grossa pentola con dell’acqua, sorridendo sorniona a sua nipote e continuò a tagliare l’ortaggio a cubetti e , quando l’acqua iniziò a bollire, vi immerse le cime e “la moglie di braccio di ferro”.
Intanto che la verdura cuoceva nella pentola, in una padella fece soffriggere tre spicchi di aglio fatti a pezzettini e vi aggiunse dei pomodorini tagliati a metà. Si sviluppò un odore per tutta la casa che l’appetito ne fu subito stuzzicato.
-Tieni, sminuzza gli spaghetti. Mettili in uno strofinaccio e strapazzali, così si spezzano meglio.-
Cettina ubbidì: sistemò la pasta cruda dentro la pezza e, mentre con una mano ne teneva ben fermi i quattro angoli, con l’altra iniziò un movimento come stesse impastando.
-Basta, basta così! Altrimenti diventa mollica!-
La nonna prese il fagotto e versò il contenuto nella pentola. Mescolò per bene e, quando la pasta era quasi cotta, aggiunse il soffritto di pomodoro. Mescolò ancora e aggiunse del pepe nero. La pasta era pronta. Ne mangiarono un piattone ciascuno.
-Quella che resta la mangiamo stasera. Fredda è la fine del mondo!-
Il tempo della vacanza palermitana trascorreva veloce, allegro anche se a giorni gioiosi si alternavano notti insonni. Era proprio la notte che i fantasmi nascosti durante il giorno nella mente e nel cuore, legati al desiderio di cacciarli per sempre e trovargli un posto, magari all’inferno, si liberavano dalle catene della gioia. Nella cameretta buia dove Cettina e sua sorella Rosetta dormivano insieme alla zia, si muovevano figure, sfrecciavano tormenti. Una notte sentì gridare sua sorella nel sonno. La zia la svegliò e la rassicurò. Il giorno dopo chiese alle nipoti della mamma, di papà e del fratello e, senza umiliarle con sentenze tristi e irritanti come sale su una ferita, disse loro che tornate a casa dovevano impegnarsi a studiare. Presto avrebbe parlato con la loro mamma per farle rimanere per sempre a Palermo. Lei si sarebbe presa cura di loro, così avrebbero potuto continuare gli studi con più serenità. Prese in disparte Cettina e le confidò di avere ricevuto una lettera da sua madre. Non le dava nessuna notizia di Mimmuzzo. Tra quelle righe, dove le parole sembravano navigare impetuose, c’era qualcosa che riguardava proprio lei, Cettina, la sua vita, il suo ritorno a Catania.
-Vi raccomando, non lasciatevi trasportare dalla follia di vostro padre. Continuate ad andare a scuola e insistete sul vostro diritto di guardare al futuro con fiducia.-
Con queste parole le riaccompagnò alla stazione. La vacanza era finita. Salirono sul treno con le raccomandazioni della zia che pesavano come una promessa già non mantenuta. Un grido del capostazione e tutto si dileguò tra le colline dorate e arse dal sole di fine agosto.
[i] La pioggia le scivola sopra