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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Archivi tag: Malfa

Pollara-Malfa e ritorno

03 domenica Apr 2022

Posted by paolina campo in Salina

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Malfa, mare, miscuglio, Pollara

L’odore dei limoni appena raccolti, sbucciati e tagliati, si è diffuso per tutta la casa. Il vento fuori soffia forte e agita i rami degli alberi che quest’anno hanno dato buoni frutti. In lontananza il mare si tinge di strisce bianche e azzurre, mentre le onde sembrano vogliano divorare il cielo. Su una cucina, di quelle antiche, con lo sportellino da aprire per alimentare il fuoco con la legna, una pentola borbotta, mentre zucchero e polpa di limoni si amalgamano e si addensano. E raccontano.

Arrivava il giorno per andare a fare la spesa. Due sacchi di juta, gli scarponi, le scarpe buone, una bustina di limoni appena raccolti, una bustina vuota, e via, tutto era pronto. Dal piccolo centro abitato, costruito sulla roccia di un vulcano che per metà era precipitato in mare, la gente partiva e s’incamminava lungo una strada che odorava di terra e di mare, ammantata da un alone di magia dove gli occhi incontravano l’infinito. Si partiva presto, indossando gli scarponi e portando sulle spalle i sacchi di juta. L’andamento svelto e sicuro, cedeva man mano alla stanchezza che diventava la buona opportunità per fermarsi a raccogliere delle verdure selvatiche e guardare l’orizzonte, il mare e il sole che seguiva il loro cammino. Troppo spesso si pensa di essere soli, che la vita, il respiro del mondo finisce là dove si coltivano i propri interessi. In quella strada la gente che andava a fare la spesa incontrava una miriade di creature, uno sfavillare di colori, un’interminabile susseguirsi di odori e a ogni passo poteva capitare di parlare a un uccello come a un  ragnetto e di sorridere grato per un ciuffo di finocchietto selvatico. Il percorso, non certo agevole e a volte anche pericoloso, copriva ben due ore di quella giornata. Si arrivava quindi alla meta e la prima casa dove potersi fermare era quella di compare Giovanni. Lui, padrone di un grosso veliero, che aveva viaggiato per mare ed era approdato in porti lontani, sapeva che l’accoglienza era un valore importante da custodire. In quella casa la gente trovava ristoro: un bicchiere d’acqua, due chiacchiere e una sedia dove riposarsi un po’ e potersi cambiare le scarpe.

Tutto si svolgeva secondo l’antico rito dell’ospitalità, secondo l’antica xenia dei greci che di queste sponde ne conoscevano le genti e le risorse. Secondo il rispetto reciproco tra ospitante e ospite. Chi arrivava alla casa di compare Giovanni era certo di trovare accoglienza e in cambio donava al padrone di casa e alla sua famiglia i limoni raccolti al mattino e la verdura selvatica messa insieme nella bustina durante il tragitto. Un saluto, un arrivederci e subito ci si avventurava tra le stradine, si entrava nei negozi come case dove oltre a fare compere ci si scambiava notizie sulla famiglia e il lavoro nei campi. Esaudite tutte le necessità descritte dalla lista della spesa tirata fuori dalla tasca della giacca, si andava a riprendere e indossare gli scarponi e con i sacchi pieni di roba, si tornava indietro. Il percorso era ora più faticoso, i sacchi erano pesanti e il passo diventava più lento. Il sole, ancora alto, illuminava la strada fino alla piccola polis di casette bianche sparse su quel mezzo cratere sopravvissuto all’ antica eruzione.

Qualcuno un giorno pensò di aprire un negozio di generi alimentari a Pollara: pensava di offrire un servizio più comodo. Ma fu ben presto costretto a chiudere. La gente non rinunciò mai al viaggio lungo il costone roccioso affacciato sul mare.

Chissà se qualcuno, rapito dal vento, era stato costretto ad abbandonare il suo sacco di juta per mescolarsi alle altre creature e respirare intensamente quell’aria salmastra fino a diventare esso stesso elemento e rivivere la sua esistenza diventando qualcos’altro. Un miscuglio di vento e di aria, di mare e di terra, che qualche fata leggera aveva plasmato ben bene affidandogli un nome nuovo, adatto all’insieme di principi diversi che si abbracciano e si fondono insieme.  Un po’ come la mia marmellata che non è più limoni e neanche zucchero; è “marmellata”. E’ una cosa nuova e profuma di buono e di antiche storie condite di occhi e di cuore, di fuoco e vapori, di aria e di vento, di sole e di luna.

Un buio luminoso

23 sabato Gen 2021

Posted by paolina campo in libri, Salina

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A FINE GIORNATA, Malfa, pubblicazione 2015, Salina

A fine giornata, ci si sedeva tutti su poltrone reclinabili disposte in fila sul terrazzo, a guardare il cielo. Si spegnevano le luci a neon che illuminavano anche il giardino antistante e in silenzio si osservavano le stelle. In silenzio. Fino a quando, spinti forse dalla necessità di ascoltarsi, cominciavamo a leggere ad alta voce quel cielo stellato, indicando  l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore, puntando lo sguardo sui disegni che si potevano tracciare, trasformando l’indice della mano in una matita allungabile fino a toccare quelle stelle come se fossero punti su un foglio da disegno. Poi, di nuovo in silenzio, ognuno  seguiva con la mente una strada attraverso quel cielo. Una strada lunga, larga, di dimensioni infinite che raccoglieva i ricordi, le speranze e li portava lontano, mentre ci sentivamo osservati, e forse anche protetti, da quella casa enorme alle nostre spalle che, come una grande nave ci aveva accompagnati nell’avventura su un’isola che ci regalava ogni sera quel cielo stellato e dove ognuno cercava una strada che conservava nel cuore e nella mente, larga duecento chilometri e anche di più. Non so gli altri: il silenzio garantiva ad ognuno la segretezza intima e speciale di un incontro che poteva essere fatto solo con sé stessi, per correre su binari predefiniti, individuali, particolari. Ognuno viaggiava sul suo treno, come se non si dovesse più tornare indietro. Eppure, la casa-nave ci guardava, e sapeva che anche in quella corsa ci sarebbe stato un momento in cui i binari avrebbero invertito la marcia e ci avrebbero riportato, in un modo o in un altro,  lì da dove eravamo partiti. Io mi sentivo catturata da un particolare bagliore che tracciava una strada che pulsava di vita, di vite che andavano e tornavano come in quei disegni dove cascate, nastri, figure iniziavano il loro cammino e poi tornavano irrimediabilmente al loro punto di partenza. I miei ricordi cominciarono a dilatarsi, a intrecciarsi a storie di un tempo che scoprii essere immenso. Fu così che, nell’evanescenza di un mondo pulsante di luce, mi trovai tra i fantasmi della memoria, desiderando sempre più di perdermi tra le pieghe di quel buio luminoso dove potevo incontrare stelle che, dopo avere percorso la lunga strada della loro evoluzione, erano destinate a pulsare e brillare per sempre.

Ho sentito parlare di una malattia che spegne i ricordi nella mente di chi viene colpito da un morbo inesorabile che colpisce i neuroni del cervello e, come colui che ha deciso di percorrere un lungo corridoio per l’ultima volta, spegne man mano le luci delle stanze che a esso  accedono, ne chiude le porte e alla fine disattiva l’interruttore generale e va via, si dilegua. Per sempre. Ma le cose? Le cose possono soffrire di quella malattia? Possono essere attaccate dal tarlo di un tempo che non le riconosce più, che non le fanno più parlare? Arrivava dal mare una fata che lanciò una maledizione: tutte le luci che illuminavano quei ricordi si sarebbero spente per sempre e sarebbero state avvolte da un sonno perenne.

Era ormai passato tanto tempo da quando scrutavo il cielo su una di quelle poltrone sul terrazzo. Ma era come non fosse passato neanche un attimo da quando quella casa-nave mi afferrò e rimasi prigioniera di un sogno che voleva splendere e pulsare all’infinito. Ero tornata da sola in quella casa che ormai sembrava colpita da quella strana malattia e qua e là erano visibili zone di abbandono, di degenerazione: il tetto perdeva l’intonaco, la muffa si impadroniva di muri e il pavimento era roso dall’incuria. Andai a letto presto e scelsi di dormire su un vecchio letto in ferro nero, con fregi dipinti su entrambe le testate su cui tentavano di brillare dei frammenti di madreperla. I dipinti raffiguravano dei paesaggi notturni lontani, quasi irreali: un castello, un albero dalla chioma ben definita, sembrava pettinata, una riva calma, più da lago che da mare. Scelsi di dormire lì, su quel letto alto, quasi presuntuoso che odorava di antica stima, di passate amicizie coltivate all’interno di un progetto di lavoro che richiedeva tenacia, entusiasmo, passione.

Quella notte ebbi paura dei fantasmi che avrebbero potuto ostacolare il mio sonno e che invece io disturbavo, cercandoli per mischiarmi a loro, alle loro storie. Eppure mi addormentai e mi trovai altrove.

La Divina Proporzione

24 mercoledì Mag 2017

Posted by paolina campo in libri, Salina

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bellezza, dipinto chiesa di San Lorenzo, Divina Proporzione, Malfa, Virgilio lo Schiavo

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-Guarda…sta sistemando delle fascette di legno, una accanto un’altra…-

-Sì, le tiene attaccate una all’altra con altri pezzi di legno. Quanti chiodi sta piantando? Fa come mastro Peppino quando mette le tavole per costruire un lastrico…-

-Guarda… sembra un uovo sodo senza il  tuorlo…-

-E ogni fascetta è colorata…che bei colori! Compare pittore avrà osservato per tanto tempo la bellezza dei colori del tramonto di Pollara per riprodurli così bene…

I ragazzi osservavano il giovane artista, nascondendosi dietro la porta d’ingresso, appena socchiusa, del laboratorio dove Virgilio Lo Schiavo stava costruendo la struttura in legno che anticipava il lavoro nell’abside della chiesa di Malfa. Il compare distolse all’ improvviso l’attenzione al suo lavoro e si girò come se sentisse di essere osservato. Non vide nessuno. Si alzò e si avvicinò alla porta. I due giovani, intanto si erano fatti vicini, vicini: la spiata stava per essere scoperta!

-Che fate lì fuori? Perché non entrate?-

-Non vogliamo disturbare…-

-Dai, su, entrate! Avevamo preso un appuntamento, non è vero Assunta?-

-Sì…i legni…ma, cosa fa con quei legni?-

-E’ bella la vostra curiosità… adesso vi spiego. Spesso non ci rendiamo conto di come guardiamo le cose. Soprattutto non ci rendiamo conto di come la natura ci abbia abituati alla bellezza delle forme e le cose che noi definiamo belle obbediscono a un rapporto speciale che si rifà a un rapporto che viene ricordato come sezione aurea.-

-Aurea? Sta costruendo una cosa d’oro? Non di legno?-

-No, no! Ascoltatemi bene. Se, per esempio, Assunta vuole fare il ritratto a Vincenzo, non disegnerà mai la testa più lunga di un braccio o una gamba più corta di un dito…-

-Mamma mia! E che era un mostro?-

-Visto! Ogni piccola parte del corpo deve essere proporzionata a tutto il corpo, altrimenti il disegno è brutto. La sezione aurea è proprio questo: è un rapporto esteticamente piacevole. Nel ‘500 grandi maestri, come Michelangelo, sfuttarono l’antico teorema del segmento di retta diviso in media e estrema ragione…-

Ai ragazzi sembrava che il pittore fosse un po’ strano: forse era uscito di senno? Ma di che cosa stava parlando? Maestro Cincotta parlava di geometria, punti, segmenti, rette e qualcosa avevano capito. Ma quello che diceva compare pittore non si capiva per niente!

-Vi ho disorientati…scusate, torniamo alle fascette di legno…-

-C’è disegnata una faccia…- osservava Assunta finalmente liberata dai discorsi intellettuali del suo importante amico– qui c’è un angelo… e qui in centro c’è san Lorenzo.-

-Tutto questo verrà riprodotto nella nostra chiesa, in alto, sopra l’altare.-

-Ma è troppo piccolo! Ci vorrà un binocolo per vedere questi disegni!-

-Non ti preoccupare…li farò grandi. Ogni fascetta di legno corrisponde a una parte di volta su cui riprodurrò in scala queste figure.-

-Certo, ci vuole la scala…- commentò pensierosa Assunta.

Virgilio rise e guardò con tenerezza quell’ingenua ragazza che voleva capire mentre con il pensiero inciampava su concetti fuori dalla sua umile comprensione.

I lavori iniziarono qualche giorno dopo e a nessuno fu concesso di entrare in chiesa, dove l’artista aveva fatto montare alti ponteggi.

Era l’estate del 1931 e per le strade del piccolo paesino dell’isola di Salina la vita trascorreva come sempre. La gente, adattando il tempo del proprio lavoro quotidiano al mutare del vento, passava davanti alla facciata della chiesa con curiosità mista a mistero, rispetto, soggezione, devozione che si mischiavano come i colori del tramonto di Pollara. Si aggiunse poi lo stupore, quando compare pittore terminò i suoi lavori e tutti poterono ammirare il Santo protettore di Malfa, San Lorenzo, ritratto in tutto il suo splendore.

A FINE GIORNATA

Vespe, api e…malvasia

20 mercoledì Lug 2016

Posted by paolina campo in Salina

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api, Eolie, lavoro dei contadini, Malfa, Salina, vendemmia, vespe

Se ami la terra, questa ti da soddisfazione

Così mi disse una volta un contadino mentre con orgoglio mi mostrava un campo di rigogliose piante di ortaggi, viti e alberi da frutto. Amare la terra significa innanzitutto rispettare l’avvicendarsi delle stagioni che scandiscono le feste comandate e  il lavoro  nei campi: c’è un tempo per zappare, uno per concimare e uno per seminare. A Malfa, piccolo comune dell’isola di Salina, nell’arcipelago delle Eolie, con forti e ricche tradizioni contadine, dopo Natale si potano le viti e si ammausa.  Ammausare  nel gergo eoliano significa legare i tralci buoni delle viti che, dopo la potatura, sono stati lasciati appositamente nella pianta perché questa si rigeneri. L’arte di ammausare, che volendo azzardare un’etimologia della parola potrebbe proprio significare usare le mani, è affidata alle donne. Un tempo uomini e donne andavano insieme nella vigna tra gennaio e febbraio: gli uomini avanti a potare e dietro le donne per ammausare. Con l’arrivo della primavera, i tralci si moltiplicano sostenendo i primi racimoli d’uva vestiti di grossi pampini.  Il sole d’agosto completa il periodo di colorazione dell’uva che ora si mostra nera, bianca o dorata e il contadino ha un’altro appuntamento: trascorso il tempo di festa per il santo patrono di Malfa, San Lorenzo, il 10 di agosto, si torna alla vigna per spogliare i grappoli ormai consistenti e mostrarli finalmente a quel sole che li farà completamente maturare. Arriva quindi il tempo della vendemmia, dal latino vindemia, parola formata da vinus, vino e demia, forma del verbo demere, levare via, prendere. Prendendo il vino, si segna il passaggio dall’estate all’autunno e si fa festa per dire arrivederci al caldo sole estivo. L’uva, sistemata nei cuofani, grandi ceste di canne intrecciate, viene portata nei palmenti per essere pigiata e trasformata in mosto. Tutta l’uva, tranne quella dorata, l’uva malvasia, arrivata a Salina nel XVI secolo insieme al culto di Santa Marina.

cuofanu

Questa, una volta raccolta, viene stesa con cura sui cannizzi, letti di canne intrecciate che permettono agli acini un’ottima aerazione durante l’esposizione al sole.

malvasia

Arriveranno le vespe e poi le api. Dopo, l’uva stesa al sole è pronta.

Altra nota di saggezza contadina, appresa mentre passavo da una delle case storiche di Malfa e rimasi incantata dalle rose che circondavano il giardino. I romani piantavano rose in fondo alla vigna per attirare gli insetti perché avevano capito che erano proprio loro a migliorare il vino. Vespe e api sono molto simili tra loro ma hanno delle caratteristiche fondamentali che le distinguono. La differenza che qui interessa a proposito dell’uva è che le vespe sono onnivore, e quindi dotate di forti mandibole, mentre le api succhiano sostanze dolci. Uno studio condotto presso l’istituto di microbiologia dell’Università di Firenze¹, ha dimostrato che i lieviti di fermentazione del vino non sono presenti nelle cantine, ma vengono trasportati da vespe e calabroni nei loro intestini e depositati sugli acini. Le vespe bucano l’acino e rilasciano lieviti di fermentazione. Intanto le api iniziano i loro voli di perlustrazione e quando le loro cugine hanno finito il lavoro di bucare tutti gli acini, tornano all’alveare e segnalano alle compagne il luogo dove trovare abbondante cibo. Un giro a destra e poi a sinistra; testa in giù, testa in su; movimento svelto dell’addome e poi ancora un giro, e le api ballerine indicano la sorgente del cibo, considerata la distanza dall’alveare e la posizione del sole . Il grande filosofo greco, Aristotele, aveva scoperto la danza delle api ma non ne aveva capito il motivo. La danza delle api è un ingegnoso scambio di segnali che lo scienziato Karl von Frisch studiò a fondo, tanto che le sue ricerche gli valsero il premio Nobel nel 1973 proprio per gli studi condotti sul comportamento dei pesci e delle api. Ma torniamo sui nostri cannizzi dove arrivano sciami di api che trovano l’acino rotto e succhiano la soluzione zuccherina permettendo all’acino di rinsecchire invece di marcire. La Natura sa quello che fa. Il contadino può quindi ritirare i cannizzi e quell’uva dorata è pronta per diventare il nettare tanto apprezzato, la Malvasia,  che sa di sole, di mare e di terra vulcanica.²

Dopo la vendemmia, si torna tra i filari e si svecchia, si libera la vite dai tralci vecchi per ricominciare un’altro ciclo dell’uva, di vespe e di api. Ma solo dopo Natale.

L’antica casa eoliana circondata da rose stupende è la casa di Antonio Alizzi che con orgoglio continua a fare tesoro dei consigli del padre che, come tanti altri sull’isola, aveva un rapporto speciale con la terra.

¹http://www.corriere.it/16_gennaio_22/vespe-calabroni-senza-loro-impossibile-fare-vino

²Le foto sono di Antonio Brundu, responsabile culturale della Biblioteca Comunale di Malfa, sempre disponibile e attento sostenitore della diffusione della cultura eoliana.

La magia del patio storico della Biblioteca Comunale di Malfa.

27 sabato Giu 2015

Posted by paolina campo in Salina

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Tag

biblioteca, magia, Malfa, patio antico, presentazione libro A FINE GIORNATA

paolina-campo

Presentare il mio ultimo libro A FINE GIORNATA nel patio storico della Biblioteca Comunale di Malfa, era un appuntamento a cui non potevo mancare. Un luogo familiare, amico, dove ogni mia pubblicazione è stata accolta con affetto ed entusiasmo. C’è un non so che di magico in quel terrazzo, specie in questo periodo dell’anno. Un albero centenario libera a terra piccoli frutti, piccolissimi, minuscoli mandarini, per diffondere nell’aria il profumo di un caldo abbraccio. Gli uccellini che non possono costruire il nido tra quei rami profumati perché timorosi dei topi predatori, non cercano altri alberi dove nidificare ma si adattano sopra una lampada posta in alto sulla parete dove si apre la porta che dal patio antico si va in biblioteca. E tutto parla di un dono, quello di don Giovannino Marchetti, parroco di Malfa dal 1905 al 1955, che offrì la sua opera e i suoi averi al suo paese, compresa la palazzina con il patio dove regna sovrano il mandarino centenario. Tra ricordi, profumi e cinguettii di uccelli si aggira Antonio Brundu, appassionato delle storie del suo paese, attento bibliotecario e custode di ciò che nella storia di Salina ha generato bellezza, commozione, cultura, impegno, sapienza. Quando mi mostrò il modello in legno del disegno preparatorio all’opera che Virgilio Lo Schiavo avrebbe realizzato nella volta absidale della chiesa di san Lorenzo, risalente all’anno 1931, rimasi stupita. Crebbe in me l’entusiasmo di continuare a scrivere il romanzo dei dipinti che la chiesa madre di Malfa custodisce e che parlano ancora una volta di un dono.

Antonio Brundu, autore della foto che ho scelto come copertina, nonché della presentazione in quarta di copertina, ha curato ogni particolare perché nel patio venisse creata l’atmosfera giusta per parlare di un artista che “ha scelto la nuova chiesa della sua Malfa, a depositaria dei suoi primi lavori in Arte sacra”[1].  Le rose, le letture e l’attenzione di Melina Ciccolo, anche lei grande estimatrice della storia di Malfa, hanno dato un tocco di eleganza alla serata dello scorso 20 giugno. Un pubblico attento ha ascoltato le mie storie, spesso individuando nei personaggi i volti di gente di cui aveva sentito parlare o di cui aveva condiviso le esperienze.  Credo che ho ancora tanto da raccontare di quest’isola che ha scolpito nel mio animo la gioia di emozionarmi e sapermi stupire anche per le piccole cose che la vita mi offre.

“A fine giornata, abbracciai le storie che viaggiavano lungo le note del campanile disegnato sull’azzurro del cielo e il verde della montagna dei Porri, e mi rifugiai nel silenzio che parla e raccoglie l’energie di vite che con la morte si erano compiute , lasciandosi dietro una scia luminosa…

…Do, re… il mondo esiste cantandolo e per cantare bisogna vivere, amare, non dimenticare”[2]

[1] Don Giovannino Marchetti , Bollettino parrocchiale di Malfa, 12 dicembre 1934.

[2] Paolina Campo, A fine giornata, Bonanno editore, Acireale, 2015, pag. 96-97

I miei libri

era
vi racconto
l'uomo di
A fine giornata
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