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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Fammi strada-Parole in movimento (3)

09 martedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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il racconto continua, le parole e la storia, mercati storici, Palermo

Renato Guttuso-La Vucciria

Ricordo, cuore mio, che mia madre, quando si litigava e volavano parole grosse, se ne usciva con una sentenza affilata come una spada: ‘a lingua unn’ avi ossa, ma rumpi l’ossa, la lingua non ha ossa, ma rompe le ossa. La sentenza era potente, come potente il messaggio della forza della parola. La mia era una famiglia molto rumorosa: si parlava, si litigava, si ricordava e in tutto questo trambusto, le parole circolavano attraverso le finestre del passato e quelle del presente, come valigie cariche delle cose più importanti che ognuno si portava dietro per tutta la durata della parentesi di respiro che è la vita.

PAROLE IN MOVIMENTO

-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

-Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!

Il viaggio era stato lungo e in quel vagone di seconda classe faceva tanto caldo. Il treno si era infilato tra colline arse dal sole e tonde come i grandi seni delle lavandaie di piazza Buonadies.  Le greggi vagavano stanche e, lungo i piccoli rivoli d’ acqua che segnavano il territorio, guizzavano bisce nere, mentre i corvi andavano ad abbeverarsi. Chissà quali altri uccelli e rettili potevano vivere in quella landa desolata! La sua mente aveva allungato lo sguardo fino alla casa da dove aveva visto fuggire via suo fratello. Da quando la mamma aveva trovato lavoro, le cose erano cambiate. Lei non era una lavandaia e non era catanese. Un’improvvisa frenata del treno l’aveva riportata al tempo del suo viaggio. Una mucca stava lentamente attraversando i binari e tranquillamente, come se il treno fosse solo una figura immaginaria, si era fermata a brucare qualche ciuffo d’erba che spuntava tra le rotaie. I passeggeri si erano affacciati dai finestrini, alcuni divertiti, altri stanchi, accaldati e insofferenti:

-Ci mancava solo la vacca! Domani arriviamo!!-

Cettina e sua sorella avevano lasciato il loro posto sul treno. Raggiunsero quindi un vagone, da dove potevano osservare meglio quella creatura che sembrava saltata fuori da una favola, per rompere la monotonia di quel sudore che inesorabile colava dalla fronte, dal collo e da tutto il corpo.

-Ma guardala ch’è tranquilla! Se ne sta proprio fregando del treno e di noi!-

E ridevano, partecipando di quella naturale disinvoltura.

Finalmente la mucca aveva lasciato i binari, lentamente, con calma. Era una mucca siciliana, pensarono tutti, unni ci chiovi, ci sciddica[i], non l’aveva scomposta niente e nessuno:

-Fino a che non la tocca qualcuno!- sentenziò uno dei passeggeri.

Il treno aveva ripreso il viaggio e sembrava proseguire con lo stesso andamento dell’animale che prima l’aveva bloccato. Sarebbero mai arrivati a destinazione?

Erano arrivate, dopo molte ore, non sapevano quante, tanta era la stanchezza che avevano smesso di contare il tempo del viaggio.

Alla stazione era andata la zia ad accoglierle: baci, abbracci, scrosci di labbra su guance sudate e felici.

-E Mimmo? Dov’è Mimmo?-

Cettina non aveva voluto raccontare della fuga del fratello. Lei e sua sorella pensarono che era meglio non dire nulla, avrebbero dato un gran dispiacere alla zia e alla nonna. Avrebbero trascorso i due mesi di vacanza con quel segreto nel cuore, regalando solo la gioia di renderle felici.

 -Oggi andiamo a Mondello, al mare! Come andiamo col filobus o con la carrozza?-

Era quasi scontato che il mezzo più divertente era la carrozza e per questo la zia faceva la vaga. Siccome non arrivava risposta, si decise a pensare di proporre, come una sfida, il filobus. Sul viso delle ragazzine si disegnò un sorriso rassegnato ma grato: cosa pretendere ancora?

-Va bene, preparatevi. Indossate il costume e un prendisole e andiamo. Avete portato il costume, vero?-

-Sì, quello dell’anno scorso. E’ un poco piccolo, ma ancora va bene.-

La donna guardò con tenerezza le sue nipoti e decisa le portò fuori, in strada per raggiungere a piedi la stazione.

-Dai salite!-

-Ma è una carrozza! Non dovevamo andare con il filobus?-

-Se vi siete portati il costume di quando avevate due anni, dobbiamo passare da Sant’Agostino per prenderne uno che vi stia bene e quindi andiamo in carrozza. Il filobus lo prendiamo dopo.-

Attraversarono via Roma sprizzando felicità da tutti i pori, mentre il vento scompigliava i capelli e portava via ogni pensiero triste che si affacciava alla mente. Il cavallo sembrava un po’ anziano o forse era il caldo che lo faceva galoppare con fatica. Arrivarono all’altezza di piazza San Domenico, da dove arrivavano le voci del mercato della Vucciria, e scesero dalla carrozza. Salutarono lo gnuri, il cocchiere, e a piedi proseguirono per via Bandiera e la percorsero tutta con il naso all’in su, stupite dalla magnificenza di antichi palazzi nobiliari. Attraversarono via Maqueda e finalmente si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva, come un venticello allegro, un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?- Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui, con un gesto della mano, non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino in spiaggia- disse la zia, ormai immersa nell’idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

Quel giorno era trascorso come il soffio del vento di quella stagione che le aveva portate lì i primi giorni di luglio. Con la zia avevano visitato altri posti: erano andate a giocare al Foro Italico e una volta, c’era anche la nonna, erano andate a messa in cattedrale: bella, bellissima! Erano arrivate a piedi, attraversando via Maqueda e arrivando al Cassaro, per i quattro canti, incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele. Il Duomo a Catania era immerso nella vita cittadina, la gente viveva quella grande struttura come una realtà giornaliera: il Duomo, l’Etna, l’elefantino di pietra lavica con l’obelisco, la pescheria, la fontana dell’Amenano. Tutto viveva ogni giorno insieme ai catanesi. La Cattedrale di Palermo sembrava vivere una vita a parte. Sontuosamente ricca, antica e lontana nel tempo, si poteva avvertire ancora l’odore e il fruscio di vestiti di dame e regine che avanzavano in corteo lungo la navata centrale; ci si sentiva attraversati dalla dignità austera di vescovi e re d’altri tempi. Faceva quasi soggezione.

Finita la messa, avevano continuato la loro passeggiata attraverso il mercato del Papireto e poi su per piazza Indipendenza dove presero una carrozza per tornare a casa. La nonna, oltre ad avvertire un po’ di stanchezza, aveva fretta di tornare a casa. Doveva cucinare la pasta con i tenerumi. Buonissima! La mattina, prima che la casa si svegliasse del tutto, in silenzio aveva pulito le cime delle zucchine lunghe: le foglie più tenere, i gambi più freschi, i fiori bianchi ancora aperti, qualche zucchina pelosa appena ingrossata. Aveva poi lavato tutto per bene e messo in un colapasta. Al ritorno, indossò un grembiule e, preso un coltello dal cassetto del tavolo della cucina, iniziò a tagliare la zucchina lunga più di mezzo metro.

-Nonna, questa zucchina sembra la moglie di braccio di ferro!-

La donna mise sul fornello una grossa pentola con dell’acqua, sorridendo sorniona a sua nipote e continuò a tagliare l’ortaggio a cubetti e , quando l’acqua iniziò a bollire, vi immerse le cime e “la moglie di braccio di ferro”.

Intanto che la verdura cuoceva nella pentola, in una padella fece soffriggere tre spicchi di aglio fatti a pezzettini e vi aggiunse dei pomodorini tagliati a metà. Si sviluppò un odore per tutta la casa che l’appetito ne fu subito stuzzicato.

-Tieni, sminuzza gli spaghetti. Mettili in uno strofinaccio e strapazzali, così si spezzano meglio.-

Cettina ubbidì: sistemò la pasta cruda dentro la pezza e, mentre con una mano ne teneva ben fermi i quattro angoli, con l’altra iniziò un movimento come stesse impastando.

-Basta, basta così! Altrimenti diventa mollica!-

La nonna prese il fagotto e versò il contenuto nella pentola. Mescolò per bene e, quando la pasta era quasi cotta, aggiunse il soffritto di pomodoro. Mescolò ancora e aggiunse del pepe nero. La pasta era pronta. Ne mangiarono un piattone ciascuno.

-Quella che resta la mangiamo stasera. Fredda è la fine del mondo!-

Il tempo della vacanza palermitana trascorreva veloce, allegro anche se a giorni gioiosi si alternavano notti insonni. Era proprio la notte che i fantasmi nascosti durante il giorno nella mente e nel cuore, legati al desiderio di cacciarli per sempre e trovargli un posto, magari all’inferno, si liberavano dalle catene della gioia. Nella cameretta buia dove Cettina e sua sorella Rosetta dormivano insieme alla zia, si muovevano figure, sfrecciavano tormenti. Una notte sentì gridare sua sorella nel sonno. La zia la svegliò e la rassicurò. Il giorno dopo chiese alle nipoti della mamma, di papà e del fratello e, senza umiliarle con sentenze tristi e irritanti come sale su una ferita, disse loro che tornate a casa dovevano impegnarsi a studiare. Presto avrebbe parlato con la loro mamma per farle rimanere per sempre  a Palermo. Lei si sarebbe presa cura di loro, così avrebbero potuto continuare gli studi con più serenità. Prese in disparte Cettina e le confidò di avere ricevuto una lettera da sua madre. Non le dava nessuna notizia di Mimmuzzo. Tra quelle righe, dove le parole sembravano navigare impetuose, c’era qualcosa che riguardava proprio lei, Cettina, la sua vita, il suo ritorno a Catania.  

-Vi raccomando, non lasciatevi trasportare dalla follia di vostro padre. Continuate ad andare a scuola e insistete sul vostro diritto di guardare al futuro con fiducia.-

Con queste parole le riaccompagnò alla stazione. La vacanza era finita. Salirono sul treno con le raccomandazioni della zia che pesavano come una promessa già non mantenuta. Un grido del capostazione e tutto si dileguò tra le colline dorate e arse dal sole di fine agosto.


[i] La pioggia le scivola sopra

Fammi strada-Via da Cibali (2)

08 lunedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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Catania, Etna, il racconto continua, lavatoio, piazza Bonadies

Credevo, cuore mio, che avere cura di ciò che ti è più vicino, che amare i luoghi, l’aria, le acque dove ti è toccato nascere e crescere, credere fortemente nella conservazione dei valori, delle tradizioni della propria terra, potesse contribuire alla bellezza della diversità di ogni territorio, di ogni popolo, di ogni uomo. Potesse, come dire, alimentare la gioia nell’ incontrare l’altro e donare e ricevere per arricchirsi, per essere grati. Forse è così, cuore mio, o forse no. Intanto fammi strada, aiutami a raccontare.

VIA DA CIBALI

Era successo di nuovo. Ancora una volta aveva litigato con suo padre che lo aveva trascinato fuori, nel balcone di casa, gridandogli dietro tutta la sua rabbia.

-Hai bisogno di aria? Ecco qua. Accontentato! Puoi goderti tutta l’aria che vuoi, per tutta la notte.-

Aveva chiuso quindi le imposte con un giro di chiavi, continuando a blaterare e minacciare la moglie di non azzardarsi ad aprire quel balcone. Poi il silenzio.  Ancora una volta la sua intraprendenza, il suo entusiasmo erano stati puniti, ancora una volta doveva subire l’umiliazione di dovere tacere e sopportare l’aggressione di quel padre pazzo, fuori di testa.

-Mimmuzzu, di nuovo là sei?-

-Chi cumminasti?-

Sentiva la gente del quartiere discorrere di quel padre eccessivamente severo e burbero in casa, che però aveva amici con i quali scherzava e beveva al bar. Ascoltava i commenti e avvertiva la commiserazione di chi si accorgeva di lui, costretto a passare la notte con la testa bassa dalla vergogna. Lui non era stato fortunato come il suo amico Peppe u siccu, che quando litigava con il padre si andava a rifugiare nella stalla di don Alfonso, il proprietario della bellissima villa che dominava la borgata di Cibali. Ianu, lo stalliere, quando vedeva il suo piccolo amico in difficoltà, con una scusa qualsiasi lo chiamava e si inventava qualche servizio per il suo figlioccio.  

-Vieni, Pippuzzu! Dormi qua stasera, se no tuo padre ti fa la festa e domani ti svegli tutto rotto.-

Mimmuzzu poteva contare solo sull’ aiuto della Madonnina del Conforto, che, con occhi pietosi, lo guardava dalla sua cappelletta, che si trovava proprio all’angolo della stradina che si allungava dietro casa sua, e sembrava intercedere presso il Padre Eterno per toglierlo presto da quella situazione. Un vecchietto gli aveva detto che era chiamata anche Madonna del pane cotto, chissà perché poi! Forse perché il pane cotto era il conforto della povera gente che pativa la fame, e lui aveva tanta fame!

Faceva caldo e si sentiva l’odore che arrivava da una delle fornaci dove ancora si lavorava l’argilla.

Un gruppo di uomini in un angolo di piazza Bonadies aveva sistemato delle sedie sgangherate per giocare a carte.

-Tira! Vieni tu! Stonato, ma a chi pensi? Gioca!- gridava uno con una canottiera dai bordi logori e gialli di sudore. Lo “stonato”, un vecchietto magro, dai capelli radi, grigi di polvere oltre che di vecchiezza, dimostrava, con un sorriso dimesso, gratitudine a quell’omone che, nonostante la sua “stonataggine”, lo spronava e gli altri giocatori si accorgevano di lui.

-Mastru ‘Iachino, si fattu vecchiu!- e risate accompagnavano pacche sulle spalle che destabilizzavano la figura esile, mentre sul viso si apriva un sorriso menomato di incisivi e molari.  

Le donne stavano davanti le porte delle loro case a godersi l’aria fresca della sera, chiacchierando con le vicine sulla biancheria che avevano lavato quella giornata e di quanti fili avevano legato ai rami degli alberi, per stendere i panni e farli asciugare presto. Spesso la piazza si riempiva di lenzuola, tovaglie, calze e pigiami svolazzanti al vento che dalla Montagna scendeva allegro, animando quei tessuti che, se avessero avuto una voce, avrebbero raccontato di quanto erano stati strapazzati nell’acqua del lavatoio. A Cibali tutte le donne, o quasi, erano lavandaie e la piazza era circondata dalle loro piccole case abitate da sei, sette, dieci familiari: padre, madre, nonno, nonna, bambini che nelle sere d’estate si sparpagliavano lungo il piazzale, spandendo per l’aria afosa forti risate o grida di stizza. C’era stato un funerale quella mattina e le donne avevano un gran parlare. Era morto una specie di mafioso. No di quelli veri. Uno che era nel giro di chi si sporca le mani e l’anima per i boss che impiegano il loro tempo a studiare strategie di morte e potere. Il corteo funebre si era fermato in tutti i posti abituali frequentati in vita dall’estinto. Prima tappa, davanti il cancello del lavatoio dove andava a prendere la madre che lavava i panni di un barone di Ognina. Si fermava poi davanti al panificio, al bar e ogni volta si lanciavano fiori a segnare il passaggio e una voce si levava affannata:

-Ah, il fratello mio! Quanto era rispettato!-

Gli avevano sparato un colpo alla testa il giorno prima. Si diceva che aveva messo gli occhi addosso a una donna maritata e se l’era portata a letto.

Quella notte l’Etna tuonava e tirava lapilli e cenere rossa, segnava col fuoco il cratere maggiore e lingue di lava scendevano lente sui fianchi della Montagna. Mimmuzzu ne aveva sentite tante di storie sul vulcano. La gente raccontava di un’ eruzione così violenta che era arrivata fino a Ognina, fino al porticciolo, e la lava aveva coperto strade e quartieri, anche quello da cui provenivano quelli che poi avevano popolato quel borgo.

-Se non era per il vescovo, morivamo tutti o di fame o bruciati-

La piazza su cui sporgeva il balcone dove il ragazzo scontava la sua punizione, era intitolata al vescovo Michelangelo Bonadies, grande benefattore che i cantastorie ricordavano con i loro cartelloni e con la loro musica.

         -Scinnia ‘nfuocato u ciumi da Muntagna

         E botti e terra niura sputava di li cianchi.[i]

I cantastorie raccontavano di quando, nel 1699, l’apertura dei crateri sui Monti Rossi aveva scatenato una terribile eruzione che aveva colpito Misterbianco, comune alle porte di Catania, coprendo il fiume Amenano che lo attraversava e distruggendo il monastero dei monaci che indossavano il saio bianco. I profughi, aiutati dal sacerdote Giuseppe Leucatia, dal Protomedico Conte Nicolò Tezzano e dal canonico Martino Cilestri, furono ospitati in parte dal vescovo nel palazzo episcopale. Trovarono poi rifugio nella collina di Cìfuli, secondo il detto catanese, dove era facile arrivare e dove l’acqua non mancava e dove il buon vescovo pensò di fare sistemare quella gente a cui il vulcano aveva rubato tutto. Avevano lasciato le case, fuggendo dal fuoco e portando con loro, in processione, il quadro della loro amatissima Patrona, la Madonna delle Grazie che divenne la Patrona della collina di Cìfuli.

A ottobre ci sarebbe stata la festa in onore della Madonna e a Mimmuzzu piaceva andare in giro con gli amici e ascoltare le storie degli anziani. C’era don Saru, il barbiere che si sganasciava dalle risate per le barzellette che sentiva raccontare nel suo salone e che provava una certa soddisfazione a recitare la sera in piazza mentre i suoi compari lo ascoltavano attenti e divertiti; c’era don Bastianu, ‘u stazzunaru, che si vantava della maestria che aveva nel lavorare l’argilla, e che sognava per il figlio un futuro a Santo Stefano di Camastra dove, lui c’era stato, con l’argilla si facevano cose meravigliose: statuette, vasi e canestri colorati, e poi mattonelle di arte fina per le case dei signori. E poi c’era Cicciu ‘u siccu, un ragazzino lungo e secco che con una scatola appesa al collo vendeva bomboloni e cannellini per tutti i gusti.

Quella sera Mimmo era troppo arrabbiato, offeso e pensava che il vulcano gli stesse parlando, gli stesse dicendo di tirare fuori quella rabbia che gli bolliva dentro e finalmente trovare il coraggio di scappare. Aveva fatto tardi, certo. Con un gruppo di amici era stato a Ognina, dove dei pescatori stavano preparando la barca per andare a pescare. Riparavano le reti e intanto guardavano la Montagna

-Oggi non si esce- sentenziava uno di loro- u mari vugghi!-

– Che significa?-

 -Bolle, bolle! Che fa, non capisci il catanese?-

Tutti risero, anche lui, Mimmuzzu, che comunque continuava a non capire.

-Quando l’Etna lancia fuoco e fiamme, il mare di sotto si agita perché arrivano le correnti.-  

Si era fatto tardi, quella sera avrebbe dormito sul pavimento del balcone. Dalla piazza arrivavano le voci delle donne che cominciavano a entrare le sedie in casa e, salutandosi tra loro, chiudevano le imposte e andavano a dormire, insieme ai bambini e agli anziani, in quella camera affollata di letti dove una scorreggia del nonno sviluppava risa o indignazione, ma poi ci si girava di fianco e si dormiva con la pace di tutti.   

Gli uomini ancora resistevano al sonno: alcuni, ubriachi di vino a buon mercato che avevano comprato alla bottega di fronte la fontana, si erano abbandonati al torpore dell’alcol e della notte e, allungatisi sulle panche della piazza, avrebbero trascorso lì tutta la notte. Altri, accompagnavano mastru ‘Iachinu a casa, per poi ritirarsi anche loro. Era calato il silenzio sulla piazza, si sentiva solo il vulcano.

-Mimmo, ho preso le chiavi-

La voce di sua sorella attraversò il buio, lo raggiunse.

 -Sei pazza! Ti ammazzerà di botte!-

  -Zitto, non parlare!-

Cettina aprì il balcone e accompagnò suo fratello alla porta e lo abbracciò.

-Ora vattene! Scappa via da qui! E’ quasi l’alba e fra un po’ nostro padre si sveglia e inizia l’inferno. Tieni, ho preso anche questi soldi. Vai via!-

-Tu sei davvero pazza! Dove vado?-

-Hai tanti amici. Vai verso il mare, vai a Ognina dai tuoi amici pescatori. Scappa!-

Era estate e lei sarebbe partita presto quella mattina per andare a trovare la nonna a Palermo. Lo vide uscire e poi correre giù, per via Cifali. Si mise subito a letto e, dopo qualche ora, la madre chiamò lei e la sorella più piccola per accompagnarle alla stazione ferroviaria.


[i] Scendeva infuocato il fiume della Montagna/e botti e terra nera sputava dai fianchi

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A fine giornata
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