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amareilmare

~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Donne ch’avete

08 martedì Mar 2022

Posted by paolina campo in poesia

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Dante Alighieri, donne, Vita Nova

Donne ch’avete intelletto d’amore,

i’ vo con voi la mia donna dire,

non perch’io creda sua laude finire,

ma ragionar per isfogar la mente.

Io dico che pensando il suo valore,

Amor sì dolce mi si fa sentire,

che s’io allora non perdessi ardire,

farei parlando innamorar la gente.

E io non vo’ parlar sì altamente,

ch’io divenisse per temenza vile;

ma tratterò del suo stato gentile

a respetto di lei leggeramente,

donne e donzelle amorose, con vui,

chè non è cosa da parlarne altrui.

Dante Alighieri, Vita Nova

Fammi strada-Una donna lo sa (14)

29 lunedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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donne, maternità, pizze siciliane, quattordicesimo capitolo, Zafferana, zafferano

“Tu non sei più vicina a Dio/di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende/benedette le mani./Nascono chiare in te dal manto,/luminoso contorno:/io sono la rugiada, il giorno,/ma tu, tu sei la pianta.” Rainer Maria Rilke, LE MANI DELLA MADRE.

UNA DONNA LO SA

-C’è una lettera per te.-

Salvatore era appena rientrato e posò distrattamente la busta sul tavolo della cucina. Erano passati già alcuni mesi da quando si erano trasferiti a Zafferana, in una casa modesta: una cucina, un bagno e una camera da letto.

-Dove vai?-

-Devo vedere una persona stasera. Lavoro.-

Salvatore usciva di buon’ora la mattina. Lavorava in un panificio insieme alla madre e a un fratello. Spesso non tornava a pranzo e la sera, dopo cena, andava a letto presto.

-Aspetto un bambino. Mi sento tanto sola.-

-Non sei l’unica ad aspettare un bambino.-

-Mi sento tanto sola.-

Ma lui non aveva tanto tempo per ascoltare la solitudine della sua compagna. La guardò appena e si distese sul divano.

Cettina abbassò la testa, capì che non era quello il modo per farsi ascoltare. Pensare di ricevere attenzioni da Salvatore commiserandosi, era una battaglia persa già prima di cominciarla. Si sedette su una poltrona, in silenzio, mentre fuori ormai era buio e per le strade non si vedeva nessuno. Prese tra le mani la lettera di Nunzia. Quanto era felice per lei! Leggeva e rileggeva, immergendosi tra i colori, i suoni e gli odori di una città che le aveva regalato affetto, tenerezza, serenità. No, non avrebbe risposto a quella lettera. Perché rispondere? Per darle un dispiacere? Per “lamentarsi” di una vita che, con rabbia, aveva scelto lei? Forse un giorno si sarebbero riviste o forse no. Adesso ognuno percorreva percorsi diversi e lei, Cettina, procedeva su una strada difficile.

La mattina dopo decise che sarebbe andata a fare una passeggiata al Belvedere, come faceva sempre quando le giornate erano più calde. Le strade erano coperte di cenere e fuliggine piovute dal vulcano durante la notte e il paese assumeva un aspetto fatato, antico, quasi surreale. Camminava lentamente, percorrendo la piazza che si trovava su quella linea retta su cui insistevano, come punti inconfondibili, l’Etna, il Duomo e il mare di Catania. Lì, lungo quella fantomatica linea, tutto sembrava cospirare contro la malinconia  che le attanagliava il cuore a cominciare dal nome Zafferana, che evocava il colore giallo delle arancine tanto decantate dalla nonna. E poi laggiù il mare, Catania: dov’era Cibali? Dov’era sua madre? Perché non la cercava? Perché non arrivava?

-Aiutami Gesù mio!-

Arrivarono in suo soccorso grosse lacrime che come anelli di una grossa catena portavano fuori la sua amarezza e le alleggerivano il cuore: “basta, basta” sembravano dirle quelle gocce accarezzandole il viso, “non ti amareggiare ancora! Asciuga la tua tristezza.” Si riprese da quei brutti pensieri e riuscì a sentire un delicato odore di fritto. A Zafferana non facevano le arancine di riso colorato di giallo. Lì, ai piedi del vulcano, si friggevano le “siciliane”, enormi calzoni, pizze chiuse dove all’interno ribolliva come magma bianco la tuma, un formaggio pecorino tipico del catanese, accompagnata da olive nere, cipolla e acciuga. Cettina si lasciò andare a una considerazione, una sorta di digressione rispetto ai pensieri sulla sua vita nel paese etneo: ciò che a Palermo era femmina nel catanese era maschio e viceversa. La tuma, formaggio rigorosamente femmina si contrapponeva al “primo sale”, formaggio maschio usato largamente nel capoluogo siciliano, come l’arancino stava all’arancina dove lo zafferano, maschio, diventava Zafferana, di genere femminile, per dare un nome al paese etneo. Scrollò le spalle, non capiva neanche lei di cosa si stava occupando la sua mente. Rivolse lo sguardo alla cupola del duomo che si ergeva maestosa e, nel cielo terso di quella mattina, era come se fosse stato possibile poterne tracciare i contorni, mentre altèra, rimaneva all’ascolto della Muntagna che le stava accanto come una cara amica brontolona. 

Cettina aveva fatto amicizia con una signora che viveva in una graziosa casa dai balconcini in ferro battuto e fioriere straripanti di fiori di ogni colore, proprio di fronte alla sua abitazione. Si erano timidamente salutate da dietro i vetri delle loro finestre. La signora le aveva rivolto un sorriso tenero e Cettina aveva alzato la mano in segno di saluto. Sorriso dopo sorriso, si scambiarono qualche parola e anche un invito a prendere un caffè insieme.

-Domani faccio le siciliane, vuoi venire a vedere come si fa?-

Accettò l’invito e si trovò con un grembiule legato alla vita e le maniche della camicetta alzate fino ai gomiti.

-Allora, cominciamo. Pesa mezzo chilo di questa farina. Tieni.-

Sorriso dopo sorriso, iniziarono a impastare la farina con il lievito sciolto in acqua tiepida e del burro fuso.

-Aggiungiamo un altro poco di acqua. L’impasto deve risultare bello morbido.-

Poi fecero dei panetti e li coprirono per farli lievitare.

-Lavati le mani. Il tempo che i panetti sono pronti, noi ci prendiamo un bel caffè in terrazza. Oggi c’è un bel sole e l’Etna è tranquilla.-

Aveva trascorso una splendida giornata con quella donna che viveva da sola in una grande casa piena di ricordi.

-Non potrei vivere in un altro posto. Il vulcano non mi fa paura, anzi è un caro amico. Al mattino quando mi sveglio, il mio primo pensiero è andare a salutare ‘a Muntagna, e penso che la bellezza che mi regala ogni giorno può darmi la forza per affrontare tutto, anche la mia solitudine.-

Parlarono di tante cose e quando l’orologio del duomo ricordò loro che erano passate già due ore, scesero svelte in cucina, dalle loro pagnottelle.

-Adesso bisogna spianarle ben bene con il mattarello. Ecco così, brava! Su una metà spalmiamo l’olio e sull’altra mettiamo tanta tuma, olive e alcuni filetti di acciuga.-

-Adesso la chiudo?-

-Sì. Con la forchetta fissa bene i bordi che bagnerai appena con un miscuglio di olio e acqua.-

La signora mise sul fuoco una padella con tanto olio che, dopo pochi minuti, cominciò a fare le prime bollicine, segno che era abbastanza caldo per poter cominciare a friggere le focacce. Una dopo l’altra le siciliane assunsero il loro colore dorato e in tutta la casa si diffuse un odore buono, conviviale, allegro, avvolgente come un abbraccio. Ne assaggiarono subito una: era buonissima!

-Ecco, guarda, queste le porti a casa.-

-Grazie, ma non doveva!-

Cettina non aveva detto alla sua nuova amica di aspettare un bambino, ma la signora la guardava come se sapesse, perché le donne sanno come si cambia, quale luce si accende negli occhi di colei che genera una nuova vita  e sviluppa il calore di un amore nuovo. Una donna lo sa.

-Ti raccomando, stai serena. Pensa a cose buone, affidati a ricordi belli e fatti sconvolgere dalla bellezza che trovi anche nelle piccole cose. La vita ti sorriderà sempre.-

Sorriso dopo sorriso, si salutarono con il cuore pieno di gratitudine.

Fammi strada-Gente di mare (8)

17 mercoledì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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antica canzone, cantiere di Acitrezza, capitolo ottavo, donne, Galileo, mastri pincituri, natura

“Ma ecco la natura, favorevole al nostro bisogno e desiderio, ci somministra due condizioni insigni, e differenti non men che ‘l moto e la quiete, e sono la luce e le tenebre, cioè l’esser per natura splendidissimo, e l’esser oscuro e privo di luce.” Galileo Galilei, DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI, OscarMondadori, Milano, 2010, pag. 277

GENTE DI MARE

Durante quella giornata con il mare appena arruffato, le donne stavano sull’uscio delle loro case appoggiate ai gozzi degli uomini su cui poggiavano i loro arnesi da lavoro: tele, aghi, stampe disegnate. E ricamavano.

-Angelina, porta a pignata e macari tu Giuseppina! Iù pronta sugnu![i]–

A gridare tanto era Rosalia, una donna alta, robusta, con i capelli arruffati raccolti da una grossa forcina. Davanti la porta della sua casa, appariva imponente, avvolta nel suo ampio grembiule colorato, con rammendi variopinti che apparivano qua e là, sbucando dal lembo tirato fino alla cintura. Rosalia aveva una grande cucina a legna capace di cuocere più pietanze nello stesso tempo. Al mattino, la donna sceglieva la legna da ardere: prima i rametti secchi, poi dei rami più grossi e alla fine alcuni tronchetti. Sudava Rosalia, teneva una mano dietro la schiena che con gli anni mal sopportava il carico di quel donnone piegato a sistemare la legna. Quel focherello che partiva timido all’inizio, con un crepitio leggero e poi si alzava gioioso fagocitando rami, tronchi e foglie secche, le dava una certa soddisfazione. Le donne del borgo preparavano le loro pentole e le portavano a Rosalia che sulla piastra della sua cucina faceva posto a tutte: zuppa di pesce, patate a spezzatino, zuppa di legumi, piselli con le uova, tutto vicino in un mescolamento di odori che raggiungeva ogni angolo della baia.

-Apposto! Ora assittamunni fora. Iù aiu du cosi di cusiri.[ii]–

I pescatori pulivano le barche e preparavano le reti per la prossima pesca. Era appena finita la guerra e quelli che erano riusciti a tornare dalla trincea portavano sulle spalle il fardello pesante del ricordo di giorni, mesi, anni di disperazione. Inspiravano grati l’aria salmastra del borgo e spesso rimanevano chiusi nella gabbia dei loro pensieri: quello che avevano visto, che avevano sofferto, riusciva a ferirli ancora. Qualcuno si lasciava andare a un pianto liberatorio e le parole che descrivevano quel tempo maledetto , si sovrapponevano una sull’altra in una cascata di dolore indescrivibile. La garitta sulla pietra salpa[iii] era avvolta dal silenzio di una pace rivendicata dal mare, dalla roccia, dai cuori che quella guerra l’avevano dovuta subire.

Gli anziani restavano spesso in silenzio, guardando il mare, in attesa. Mimmo osservava quel luogo che somigliava molto al porticciolo di Ognina: le barche dei pescatori addossati agli usci delle case, la piccola spiaggia, il mare così vicino alla gente. Anche lì c’era una garitta, più grande. Il ragazzo pensava poi che la gente di mare è uguale ovunque. Non aveva incontrato altri pescatori oltre quelli catanesi e questi di Santa Maria la Scala ma si fece l’idea che quella gente lì, i pescatori, fossero fatti della stessa natura del mare: pacati, ma sempre attenti ai segnali del vento; burrascosi, forti e tenaci quando bisognava misurarsi con le avversità della vita; profondi come quel mare per conservare saggezza, insegnamenti, per mantenere sempre lo sguardo fiero e coriaceo.

Rosetta era rimasta con le altre donne, con quelle che aiutavano gli uomini a cucire le reti. Era bella, e forte. Aveva lunghi capelli neri come la sciara su cui era stata costruita la garitta e anche gli occhi erano neri. Mimmo cominciò ad avere soggezione di quella bellezza selvaggia, sembrava sovrastarlo più della falesia che superba si calava dritta tra gli scogli del golfo acese. Sentiva un fremito attraversargli il corpo che pulsava e ardeva di desiderio. Il suo cuore cominciava a battere come impazzito e provava vergogna per qualcosa che con gli amici si parlava in maniera sconcia, usando un linguaggio allusivo, con ammiccamenti degli occhi, smorfie e gomitate complici di qualcosa che bisognava tenere segreto perché poteva destare scandalo. Era qualcosa che rientrava nella categoria delle vastasarie[iv]. Eppure succedeva a tutti i maschi. Scoprì che guardando Rosetta gli capitava di essere vastasu e tutto sotto i pantaloni si muoveva e lo faceva tremare.

Le donne abbandonarono il cucito sulle sedie per controllare le loro pentole, e i pescatori imbandirono una tavola con una tovaglia cerata a grossi quadri rossi. Accesero un braciere e quando il carbone divenne rosso e ardente, arrostirono le salpe che era facile pescare vicino allo scoglio dove sorgeva la garitta. Fiaschi di vino accompagnarono il pranzo e il sole prese il colore di quei visi dionisiaci ormai votati alla gioia di stare insieme, dimenticando le tristezze del passato.

-Prendi il mandolino! Canta!-

Un uomo accettò con un sorriso l’invito  e si avviò verso la sua casa. Tornò accompagnato dalle note decise delle corde tese del suo strumento e con passo lento avanzò cantando:  

Mi votu e mi rivotu suspirannu,
passu li notti ‘nteri senza sonnu,
e li biddizzi tòi vaiu cuntimplannu,
li passu di la notti nzinu a gghiornu,
Pi tia non pozzu ora cchiu arripusari,
paci non havi chiù st’afflittu cori.
Lu sai quannu ca iu t’aju a lassari
Quannu la vita mia finisci e mori.[v]

-Vieni, balliamo.-

Un ragazzo alto, dalla pelle abbronzata prese per mano Rosetta e le cinse la vita con un braccio. Le note dell’antica canzone mossero i loro passi, mentre gli occhi verdi di Luigi riflettevano la magia della Timpa, ammaliatrice e sensuale.

La gente del borgo si lasciava cullare da quella atmosfera serena che accarezzava il cuore, mentre già il pomeriggio cominciava a lasciare il posto alla sera. Il sole raccoglieva le stelle che aveva sparso sulla superficie del mare e, mentre iniziava a tendersi verso l’orizzonte, tracciava i contorni della vita di quel borgo marinaro. Ecco, lì, dove l’ombra aveva segnato i confini con la luce intensa del giorno, giovani donne osservavano la coppia danzare, abbandonandosi a romantici pensieri, a storie d’ amore appassionate che gonfiavano i cuori di travolgenti passioni; sedute al limitare di un uscio, un gruppo di comari sbirciavano i passi di danza e discutevano su quei giovani che sembrava si stringessero forte, ma poi, come trascinate dal vento, si trovavano a imbastire un discorso di gente lontana e di affari domestici; appoggiati a dei gozzi, uomini forti dalle mani robuste affidavano i loro pensieri alla musica antica e guardavano il mare, dove ogni storia nasceva e doveva finire. In un angolo, sotto una tenda, al riparo del sole, stava un vecchietto seduto su un’ altrettanta vecchia sedia. Teneva una mano su una gamba e con l’altra si appoggiava a un bastone che gli garantiva un equilibrio ormai compromesso: i capelli bianchi e arruffati e dei folti baffi arsi negli anni da un sole amico di tante giornate trascorse sul gozzo, circondavano un viso sereno di chi sa che il suo tempo comincia a contare i giorni al contrario. Dei bambini giocavano a rincorrersi, nascondendosi dietro i gozzi mentre intanto arrivava la sera e le madri richiamano i figli alle loro case.

Un’ultima nota, un ultimo raggio di sole e Luigi sciolse le braccia di Rosetta che raggiunse le donne.  

-Allora, domani si parte presto, prima che sorga il sole. Adesso andiamo a caricare le reti su Marunnuzza. Tu, Mimmo, vieni con noi.-

Marunnuzza era una grossa barca di legno costruita ad Acitrezza. Il padre di Luigi l’aveva commissionata a un importante maestro d’ascia che aveva ereditato l’arte di costruire barche di legno dal padre. Esisteva da tempo il cantiere peschereccio ad Acitrezza, da prima che arrivasse la guerra, prima ancora che scoppiasse la prima grande guerra. I Rodolico si erano distinti nella costruzione di barche e pescherecci e il loro lavoro era apprezzato in tutto il Mediterraneo. Per far costruire Marunnuzza la famiglia di Luigi si era “impegnata anche gli occhi”, come si usava dire quando lo sforzo economico era tale da imporre notevoli sacrifici e stringere la cinghia era necessario per potere realizzare qualcosa di importante.

La consegna della barca e il conseguente varo era stato una festa e una soddisfazione per tutto il borgo di Santa Maria La Scala.

-Vicè, chi bella varca ca facisti fari!!-

-E bravu a Vicè! Cu sta varca non ci su pisci ca non si ponnu piscari, non c’è mari ca non si po’ passari-

-Calma, calma! U mari è sempri u nostru patruni!-

-Cu ta tinciu?-

-Mastru pincisanti Giovannino-[vi]

Mastru pincisanti Giovannino era un bravo decoratore di barche e lavorava presso il cantiere Rodolico da quando era un ragazzo. Si era specializzato nell’arte di decorare Santi e Madonne, motivi floreali e geometrici seguendo la tradizione che era tipica dei carretti siciliani. In questi prevalevano scene tratte dai cicli della Chanson de geste: paladini che si sfidavano a duello, dame contese e scene di guerre cristiane dove si esaltavano le virtù di un paladino. Nei gozzi i Santi protettori dei pescatori, Madonne e sirene si inserivano a prua, tra le strisce decorate lungo le fiancate e anticipavano due occhi, dipinti ai lati del dritto di prua, che osservavano il mare perché facessero da sentinella.

Padron Vicè volle che la sua barca fosse tutta verde, come la Timpa che signoreggiava sul piccolo porto di Santa Maria La Scala, con una striscia gialla sul fasciame superiore.

-E ora, cca, Mastru Giovanninu, ci vogghiu na Marunnuzza. E di cca, na sirena. E du occhi ca tenunu accura a nui piscaturi.[vii]–

Mentre parlava gli si accendevano gli occhi, la sua voce vibrava di emozione, fremeva di impazienza.

La sua barca. Ora aveva una barca sua.


[i] Porta una pentola anche tu, Giuseppina.  Io sono pronta.

[ii] Ora sediamoci fuori. Io ho due cose da cucire.

[iii] Garitta posta durante la seconda guerra mondiale su una pietra lavica ai piedi della Timpa di Acireale, detta “pietra salpa” perché lì abbondavano le salpe. Questi pesci, appartenenti alla famiglia delle occhiate, saraghi e orate, pascolano in branchi, brucando la flora del litorale costiero. La notte si rifugiano all’interno dei moletti illuminati che presentano bassi fondali e numerosi nascondigli creati dalle stesse barche all’ormeggio.

[iv] Atteggiamenti vergognosi

[v] Canzone d’amore della tradizione popolare siciliana. Molto apprezzata l’interpretazione di Rosa Balistreri, cantautrice e cantastorie scomparsa nel 1990.

[vi] –Vicè, che bella barca ti sei fatta fare!-

-E bravo Vicè! Con questa barca non ci sono pesci che non si possono pescare, non c’è mare che non si può attraversare!

  –Calma, calma! Il mare è sempre il nostro padrone!-

   –Chi l’ha dipinta?-

   –Mastro pincisanti Giovannino.-

[vii] E ora, qua, Mastro Giovannino, ci voglio una Madonnina. E qua, una sirena. E due occhi che proteggono noi pescatori.

La festa delle donne

25 lunedì Nov 2019

Posted by paolina campo in libri, storia

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Aristofane, donne, poeta greco

Suvvia, con piede leggero, formiamo un cerchio e teniamoci per mano; tutte insieme seguendo il ritmo della danza. Su, su, con passi veloci. E il coro si disponga in modo da volgere l’occhio tutt’intorno da ogni parte.

E insieme tutte cantiamo, e onoriamo nella danza scatenata la stirpe degli dei Olimpi.

E se qualcuno si aspetta che in questo tempio, perché siamo donne, parliamo male degli uomini, si sbaglia.

Ma bisogna innanzitutto, nella danza in tondo, trovare subito un passo armonioso.

Avanti dunque, e celebriamo il dio dalla splendida lira e la vergine regina, la cacciatrice Artemide. Salute, dio che saetti di lontano, concedici vittoria. E poi com’è giusto celebriamo Era, protettrice dei matrimoni, che gode di tutte le danze, e custodisce le chiavi delle nozze.

Aristofane, LA FESTA DELLE DONNE, 411 a.C.

Venera

24 lunedì Ott 2016

Posted by paolina campo in Salina

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donne, guerra, incrociatore Bolzano, mare, pesca

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-Oh Madonna Santa! Chi fu?-

-Oh Maria Santissima! Le bombe!-

Era appena sorto il sole quando si sentì un forte boato. Istintivamente le donne raccolsero i bambini in un abbraccio per proteggerli da quel fragore che sapeva di guerra, di morte e aveva scosso il sonno, i sogni e le pareti delle loro case. Aspettarono un poco prima di uscire fuori, nel patio, e guardare il mare. Perché dal mare veniva quel terribile botto. Videro, non lontano, una nave in fiamme e soldati che annaspavano nell’acqua. Soldati, uomini, forse i loro uomini che quella stupida guerra aveva portato via. Corsero svelte alla battigia e, tirate su le gonne, spinsero i gozzi in acqua.

-Remate, forza, remate!- e la voce di ognuna si alzava a dispetto della guerra, del caldo asfissiante, della nafta che aveva macchiato il mare e minacciava un grande incendio. Si avvicinarono alle zattere a cui erano appesi i soldati. Esausti, feriti, alcuni in fin di vita trovarono rifugio nei gozzi, accolti da braccia forti di donne giovani e meno giovani che andavano per mare e ne conoscevano la forza.

Era il 13 agosto del 1942 e l’incrociatore Bolzano, della Regia Marina, veniva silurato da un sommergibile inglese rimanendo incagliato nei bassi fondali di Lisca Bianca, in quella frazione di Mediterraneo che guarda l’isola di Panarea abitata, allora, da anziani, bambini e donne su cui gravava la miseria e la tristezza, la solitudine e il coraggio di affrontare il mare e la campagna dove si aggiravano fantasmi, speranze e credenze.

Dee, streghe, fate, donne. Mare.

Si muovono leggere come piccole onde

avanzano tenaci come il mare in tempesta

e vedono e sentono  cose che nessuno riesce a percepire.

Quando la guerra finì, dalla costa orientale della Sicilia tornavano a partire i pescherecci degli acitani. Erano i pescatori che dalla costa catanese di Acireale raggiungevano il mare dell’arcipelago eoliano ricco di secche, e quindi particolarmente pescoso, e si fermavano soprattutto a Lipari, l’isola più grande delle Eolie. Dai piccoli porti di Santa Maria la Scala, Stazzo e Capo Mulini, borghi marittimi ai piedi della Riserva naturale della Timpa, si muovevano le barche con un equipaggio che contava anche alcune giovani donne intraprendenti. Su una di queste barche si imbarcò Venera, una ragazza che nelle vene le scorreva un sangue caldo e furente come quella lava che tante volte aveva visto scendere da una delle bocche dell’Etna. Venera era pratica nella pesca e sapeva come muoversi su un peschereccio. La sua era una famiglia di pescatori che, spingendosi oltre lo stretto di Messina, decise di non fermarsi a Lipari. Proseguirono alla volta di Salina, isola verde, abitata per lo più da contadini. Tutti possedevano un vuzzu, un gozzo per andare a pescare quando il tempo era buono, quando si era liberi dagli impegni in campagna o quando si voleva uscire per trascorrere qualche ora a mare con gli amici. C’erano comunque delle differenze: Rinella, Santa Marina, Lingua sorti su una striscia di terra prospiciente il mare, godevano di un porticciolo e di spiagge facili da raggiungere. Malfa, Leni, Pollara e Valdichiesa, situati in collina o nelle valli, avevano un accesso più difficile al mare, dove si arrivava a piedi, percorrendo sentieri e scalinate, oppure in groppa a un un asinello. La famiglia di Venera decise di stabilirsi a Rinella dove la sabbia era nera e le barche potevano essere tirate a secco su una battigia protetta dalla montagna. Dove le case odoravano di mare e bastava tendere una mano per sentirne la brezza. Venera andava a pesca con gli uomini della famiglia e con loro imparò a conoscere le leggi del mare e a rispettarle. Poi era lei che sistemava i pesci nei cesti di vimini e con questi caricati sopra il capo, percorreva, scalza, trazzere e scale su per la collina che da Rinella portava a Leni. Raggiungeva quindi la piazzetta della chiesa e vendeva il pesce alla gente che ogni mattina l’aspettava. Venera sapeva pescare, conosceva il mare e aveva una clientela appassionata. Ad un certo punto decise di mettersi in proprio: andava a pescare da sola con il suo gozzo e, sempre scalza, raggiungeva la piazzetta di Leni e vendeva il suo pesce. Saliva e scendeva, andava e tornava. Come un’onda del mare.

“Donne che hanno imparato a dare il nome ai venti, a misurare la distanza dalle loro case e a presagire la potenzialità dell’onda rabbiosa nel mare lungo, come qualunque altro navigante.”  (Macrina Marilena Maffei, Donne di mare, Pyngitopo editore, 2013, pag. 16)

Maria

12 martedì Apr 2016

Posted by paolina campo in libri, Salina

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donne, mare, Salina

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Sembrava così facile! La casa, il lavoro, Maria, sua madre. Due anime diverse legate dall’affetto, dal dolore di una situazione che non avevano previsto. Le giornate scorrevano lente e pesanti. La madre di Maria, aveva trovato lavoro come domestica presso la casa di una ricca signora. Finito il suo lavoro, si occupava della casa e poi sembrava che tutto le cadesse addosso all’improvviso. Si lasciava andare a crisi di pianto oppure rimaneva immobile davanti al televisore, una stupida scatola che parlava, parlava ed intanto avvolgeva tutto di un silenzio disarmante. Maria continuava i suoi studi. Era di maturità quell’anno. Quanto era cambiata però la sua vita! Il suo ruolo di figlia era subordinato ai problemi della madre, una donna sempre più sola e con l’animo ferito e maltrattato. Una notte fu svegliata dai suoi singhiozzi. La trovò seduta a metà del suo letto chiedendo perché a quel crocifisso d’ottone che la guardava pietoso dal capezzale del letto.« Non mi so adeguare a questa situazione, Gesù mio. Vorrei, vorrei poter pretendere di guardare le stelle e sognare. Vorrei guardare negli occhi mia figlia e trasmetterle nuova bellezza, nuove speranze, ma non mi so adeguare e soffro». Pregava con voce sommessa, con le mani strette una contro l’altra coprendo appena la bocca. Avvertiva dolori al petto e si sentiva priva di forze. Quando vide sua figlia si abbandonò tra le lenzuola umide di pianto. Maria  cercò di sollevarla dal cuscino e le diede dell’acqua. Si tranquillizzò. Il giorno dopo decisero di andare dal medico. Era evidente che quella donna aveva bisogno di cure. Maria non era mai stata dal medico. Da piccola i suoi genitori l’avevano portata da un pediatra per le vaccinazione che si fanno a tutti i bambini. Era stata sempre una ragazzina forte e sana. Adesso si trovava in un ambulatorio, seduta in una di quelle sedie di plastica disposte in fila lungo le mura della sala d’attesa. Le prese uno strano torpore, mentre osservava altri pazienti che sembravano i protagonisti di una scena pirandelliana. «Chi nasce soffre e chi muore trova pace» . Accidenti, quello stava peggio di sua madre! Era un uomo alto, grasso e con due stampelle che lo aiutavano a reggersi in piedi. Era entrato in quella sala con un’aria cupa ed aveva preso posto su una delle sedie di plastica addossate alla parete. Nonostante le sue difficoltà a deambulare, sembrava aggredito da una strana irrequietezza. La donna che lo seguiva (forse la moglie) stava seduta in silenzio, con lo sguardo abbassato in un atteggiamento remissivo. Lui, intanto, aveva aperto una discussione sulle sue disgrazie ed una signora pazientemente lo ascoltava.                                                                       «Non è giusto, è una carognata!» Un vocione si levava all’improvviso, uscendo d’impeto da una grande bocca con denti cavallini e labbra grosse che a stento dei baffoni ispidi riuscivano a coprire. Era la voce di un uomo dalle sopraciglia folte, foltissime dove era possibile immaginare lo sviluppo di una società di microindividui, organizzati in villaggi di capsule di peli da cui entravano e uscivano per pulire i resti di pelle secca o il grasso di foruncoletti che si erano gonfiati come piccoli vulcani. Uno sguardo spiritato tradiva una grande agitazione ed i suoi occhi vagavano a destra e poi a  sinistra per controllare tutto e tutti. C’era sempre qualcuno che voleva fare il furbo e con la scusa della semplice richiesta per un farmaco, scavalcava gli altri pazienti e passava avanti. Ecco la carognata! L’infermiera che prendeva gli appuntamenti e ascoltava gli improperi degli ospiti dell’ambulatorio, cercava di tranquillizzarlo. Arrivò, finalmente, il turno di Maria e sua madre che furono invitate ad entrare nello studio del medico. Si accomodarono su poltrone in pelle marrone. Il dottore portava un paio di occhiali dalla montatura trasparente che giaceva su un grosso naso leggermente arrossato. Aveva dei grandi occhi azzurri o forse erano gli occhiali da miope ad ingrandirli. Ascoltò la sua paziente sorridendole con fare paterno.   «Ecco, ragazza mia, hai bisogno di stare tranquilla. Queste pillole ti potranno aiutare. Sai, sono di quelle pastiglie che conciliano il sonno e sembra abbiano scritto dentro che la vita è bella. Nonostante tutto.» Uscirono dall’ambulatorio. Maria accompagnò sua madre a casa e poi corse alla spiaggetta. Era stanca ed era sicura che l’anima del mare avrebbe allentato la sua tensione.

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(Paolina Campo, L’uomo di scalo Galera, A&B, Acireale, 2012, pag.97)

 

 

 

 

Elcie Wyse

08 martedì Mar 2016

Posted by paolina campo in pensieri, Salina

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Australia, donne, guerra, ospedale per donne e bambini

 

Elcie si arruolò come pilota all’Air Base del Queensland e lasciò Sydney e i suoi spasimanti, per impegnarsi nell’ importante ruolo di Flight-Lieutenant. Una mattina venne raggiunta dal suo comandante. Lo vide agitato e nervoso. Pensò che doveva prepararsi a una missione, che bisognava intervenire in aiuto di qualche aereo in difficoltà. Si alzò di scattò, fece il saluto di rito e si mise sull’attenti in attesa di un nuovo ordine.

-C’è un artista che sta facendo degli ottimi disegni e dice di essere il suo fidanzato.-

Alzò poi all’improvviso la voce.

– Ma si trova nel no-go zone del nostro Military Air Base! Se davvero è il suo fidanzato, gli dica di smettere subito! E’ un ordine, Flight-Lieutenant Wyse!-

-Sì, signore! Certo, Signore…- ( Palina Campo, A fine giornata, A&B, Acireale, 2015, pag.71)

Quando cominciai ad interessarmi della vita del pittore eoliano Virgilio Lo Schiavo, le mie ricerche mi portarono alla scoperta dell’interessante mondo della moglie dell’artista, Elcie Wyse. La madre, di origine irlandese, era emigrata in Australia sul finire del XIX secolo e aveva acquistato una grande fattoria nella Yass Valley, non lontano da Canberra. Elcie, quindi, nacque e visse in Australia dove frequentò prima il St Vincent’s College, Potts Point e si laureò poi in medicina seguendo le orme di donne come Harriet Biffin e Lucy Gallett  che fondarono a Sydney il primo ospedale gestito da donne e per donne e bambini. In un articolo datato luglio 1950

 Rachel Forster Hospital for Women and Children

SYDNEY, N. S. W., AUSTRALIA

Mary C. Puckey, M. D.

si ripercorrono le tappe che portarono all’apertura dell’ospedale, che nacque dalla collaborazione tra donne che spesero tutte le loro energie in quell’opera.

Durante la prima guerra mondiale, l’American Medical Women’s Association grazie a una donazione dell’American Women’s Hospital, mise a disposizione della Federazione Australiana delle Donne Medico una somma di denaro a favore di donne che avevano prestato il loro servizio come medici al fronte e avevano riportato gravi ferite. Di quella somma solo una parte fu necessaria allo scopo originario. Con il consenso dei donatori, l’importo residuo fu diviso in parti uguali  tra il Queen Victoria Memoria Hospital, a Melbourne, e il Rachel Forster Hospital. Dalle pagine dell’articolo di Mary C. Puckey del 1950 si legge:

TWENTY-EIGHT YEARS AGO Dr. Lucy Gullett returned from Melbourne after attending the twenty-fifth annual meeting of the Queen Victoria Memorial Hospital (a hospital founded and staffed by women for women and children) full of enthusiasm for their work and a burning ambition to follow in their footsteps. Dr. Gullett and Dr. Bif in, two of Sydney’s best known women physicians.

…………………………………………………………………………………………………………………..

In 1925 the first Resident Medical Officer, Dr.Leonie Amphlett, and the first resident Matron,
Miss Livingstone, were appointed. The need for accommodation for in-patients was becoming more urgent and, in 1926, Lady Denison opened a new wing free of debt, which would accommodate six patients and the necessary nursing and domestic staff. Additions were made to the out-patient department to cope with the rapidly growing yearly attendances, now 19,086.
By 1931 the hospital was recognized as a public hospital under the Hospitals Act of 1929, a big
step forward.

Questi solo alcuni passi delle cinque pagine dell’articolo sulla storia dell’ospedale e delle donne che ne hanno seguito e voluto la realizzazione.

L’ospedale di Sidney si avvaleva anche dell’importante aiuto della moglie dell’allora Governatore Generale d’Australia Henry William  Forster, lady Rachel Forster a cui sarà intitolata la struttura nata con pochi letti e tanta buona volontà nel 1922 grazie alle pioniere della medicina australiana. La donazione servì ad ingrandire l’ospedale acquistando letti e attrezzature, aprendo così nuovi reparti. Nel 1949 l’Università di Sydney assegnò al Forster il riconoscimento a divenire il primo ospedale in Australia ad essere abilitato come scuola per l’insegnamento clinico di studenti in medicina. Molte donne hanno contribuito allo sviluppo dell’ospedale e la dottoressa Elcie Wyse fu tra queste. Nel 1952 aprì un reparto unico nel suo genere in Australia, facendo arrivare direttamente dall’America l’attrezzatura per lo screening mammario grafico, per la prevenzione del tumore al seno.

Pilota, medico, presidente del Medical Womens’ Association, direttore della sua clinica chirurgica privata. Ma anche moglie e madre attenta e appassionata. Seguì sempre il suo Virgilio nel desiderio di tornare di tanto in tanto nella sua isola, apprezzando i colori e i profumi di quell’ambiente così magico da sentirne il richiamo fino alla fine dei propri giorni.

Elcie e Virgilio partirono dall’Australia alla volta di Roma, dove la loro figlia risiedeva già da qualche anno. Si imbarcarono quindi per le Eolie e trascorsero l’estate su quell’isola che l’artista aveva nelle vene e che si era portato in giro per il mondo. Respirò ancora una volta l’azzurro del mare e del cielo, si circondò dei ricordi della terra vulcanica ricoperta di capperi, di quel lido dove il nonno aveva messo alla prova la potenza del suo giovane corpo e rivide la scena tra le ciocche dorate del sole al tramonto.

 -Forza ragazzo! Tira, tira forte! Afferra bene coi denti la corda!-

A fine giornata Oceano lo andò a trovare, e gli mostrò come tra impetuose onde aveva conservato  i pianti e le gioie della sua gente. E intanto a Salina i giorni trascorrevano e quando fu tempo di salire ancora sulla nave, la guardò scivolare lontano.

 -Andiamo, entriamo in cabina. Non si vede più.-

Virgilio Lo Schiavo morì a Roma, pochi giorni dopo. (Ibid., pag.95)

Era il 1971.

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Donne

24 mercoledì Feb 2016

Posted by paolina campo in pensieri

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D'Annunzio, donne, Marquez, Mazzantini, Proust

…Ursula si chiedeva se non era forse meglio sdraiarsi una buona volta nella tomba e che le gettassero sopra la terra, e chiedeva a Dio, senza timore, se credeva davvero che la gente fosse fatta di ferro per potere sopportare tante pene e mortificazioni; e chiedendo e chiedendo andava attizzando la sua stessa esacerbazione, e sentiva un’irreprimibile voglia di lasciarsi andare a imprecare come un forestiero, e di concedersi finalmente un istante di ribellione, l’istante tante volte anelato e tante volte rimandato di mettersi la rassegnazione nei fondelli, e mandare una buona volta tutto in merda, e togliersi dal cuore le infinite montagne di parolacce che aveva dovuto trangugiare in tutto un secolo di sopportazione… (Gabriel Garcìa Marquez, Cent’anni di solitudine, Oscar Mondadori, Milano, 2015, pag.224)

…Qualche ora dopo, Françoise poté per l’ultima volta, e senza che ne soffrissero, pettinarle i bei capelli che ingrigivano appena ed erano parsi, fino a quel momento, meno anziani di lei. Adesso, invece, erano i soli ad imporre la corona della vecchiaia a un viso ridiventato giovane, dal quale erano scomparse la mollezze, le rughe, le contrazioni, le pesantezze, le tensioni aggiunte, in tanti anni, dalla sofferenza. Come ai tempi lontani in cui i suoi genitori le avevano scelto uno sposo, la purezza e la sottomissione segnavano il contorno delicato dei suoi lineamenti, le guance brillavano d’una casta speranza, d’un sogno di felicità, persino d’un’innocente allegria che gli anni, gradatamente, avevano distrutti. La vita, andandosene, aveva portato con sé le disillusioni della vita… (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto-La parte di Guermantes, Oscar Mondadori, Milano, 2011, pag.416)

…….                                                                                                                                                                           IL MIETITORE, aggrappato alle sbarre.  – Pecoraio, pecoraio Aligi,  – ti piace alle tue sposalizie tenerti la pecora marcia,  -la pecoraccia scabbiosa?  -Bada che non t’infetti il tuo branco,-e a mòglieta non dia contagione.   -Candia della Leonessa,  -sai tu chi ricetti in tua casa  – con la tua nuora novella?  – La figlia di Iorio, la figlia -del mago di Codra alle Farne, – bagascia di fratta e di bosco, -putta di fenile e di stabbio, – Mila, intendi?, Mila di Codra, -la svergognata che fece -da bandiera a tutte le biche. (Gabriele D’Annunzio, La figlia di Iorio, Garzanti Editore, 1995, pag.64)

«La prima rata all’inizio della gestazione, la seconda al quinto mese, la terza alla consegna…»………..Rimasi alle sue spalle, le guardai le natiche, i fianchi, come si guarda un animale. Non era fatta male, aveva muscoli lunghi, caviglie sottili. Non aveva nessun difetto fisico, nessuna anomalia. Era neutra…ecco cos’era. Non era allegra e non era triste, non era bella ma nemmeno brutta, non aveva un gran calore umano ma non era scostante…era una di quelle creature indefinite che non lasciano segno, un’agnella nel gregge. Era scomparsa da tre secondi e già non conservavo alcun ricordo di lei. Andava bene…anzi, forse era perfetta perché non era nessuno. Era la signora nessuno. Il cerchio disegnato sulla carta.  (Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, Mondadori, Milano, 2008, pag. 231-233)

Donne.

Affaticata ma forte, Ursula, matriarca della famiglia Buendìa, vivrà fino all’età di 115-122 anni, dimostrando sempre una grande forza d’animo, lavorando tanto, sopportando tutto quello che la sua lunga vita le proponeva con estrema determinazione,  reprimendo ogni forma di ribellione per salvaguardare, con il silenzio, gli equilibri di una famiglia già difficile, complicata e pesantemente numerosa. Ma non si stancava di nulla Ursula, tranne che di quella lunga vita che le era toccata di vivere e che fino alla fine la costringeva ad accusare i colpi di situazioni e vicende sempre difficili e complicate.

Poi c’è lei, la nonna dell’elegante Marcel. Donna descritta da Proust con grande tenerezza, che ha vissuto la sua vita appassionandosi alla lettura, come se tra le pagine dei suoi amati libri riuscisse a trovare il rifugio di quella grazia e di quella semplicità che le era difficile anche solo percepire nei salotti della buona società francese. Come se, leggendo, desse voce a una ribellione sopita da sempre per avere accettato nella vita di seguire una strada che non era quella segnata dai suoi sogni. Una vita che si concentra tutta in quell’attimo di morte, dove la nonna sembra tornare fanciulla.

Ma eccola Mila, la giovane Mila che ha una grande colpa: quella di essere figlia di un mago. Vittima di pregiudizi, sente pesantemente il peso di colpe ataviche che lievitano all’interno di comunità povere e arretrate. Allora lei, la figlio di Iorio il mago di Codra alle Farne, subisce ingiurie e persecuzioni perché ritenuta una strega malefica. Come può liberarsi da questo infame fardello? Accusandosi di essere davvero una strega, sacrificando sé stessa al fuoco purificatore, che le farà gridare la fiamma è bella. Salverà l’uomo che ama e da vittima si trasformerà in eroina.

Tereza e Gemma, due donne che della gravidanza, del modo tutto speciale di essere madre, hanno due esperienze tristi e diverse. Tereza, sfatta e sciupata, è una macchina per fare soldi. Dopo avere studiato ingegneria, cade nelle grinfie di un uomo che su di lei aveva costruito il suo business più proficuo. Gemma, invece, non può avere figli dall’uomo che ama e, dopo varie difficoltà incontrate per adottare un bambino, opta per un utero in affitto: è solo una questione di soldi, con i soldi si può fare tutto.Ossessionata dal desiderio di essere madre, diventa cinica e anche lei guarda Tereza come una macchina, una sforna bambini. Ma un brivido le percorre la schiena quando si accorge di come il marito di Tereza pregusta il guadagno, sfregandosi le mani sui pantaloni, visibilmente soddisfatto di avere concluso l’affare.

Donne.

Forza, determinazione, sacrificio, dolore. Gioia, tenerezza, amore, perseveranza. Pennellate a tinte sgargianti di chi nella vita combatte, cade e si rialza. Tratti disegnati su una grande tela di chi sente quel brivido lungo la schiena, sente l’umiliazione, la rabbia di pregiudizi, soprusi,  discriminazioni che si sono stratificati e che riemergono inesorabili anche quando si crede di essere amate e che abbia un senso la bellezza e la tenerezza di essere donna; soprattutto quando una donna decide di sciogliere i nodi di un amore malato.                                       dipinto2

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A fine giornata
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