Di certo una fata aveva seminato, in quell’anima piccola, i semi della tristezza. Aveva trovato terreno fertile, humus poco adatto alla dimenticanza. Era arrivata di notte, ascoltando il pianto di una bimba bisognosa dell’abbraccio della sua mamma.
Aveva piantato i suoi semi perché crescesse forte e tristezza l’aiutasse a essere sempre coerente con sé stessa, e riuscisse sempre a trovare soluzioni alla sua sopravvivenza.
Imparò presto che non era con le bugie che si ricostruivano le storie e che la coerenza era un frutto raro e solo in pochi la coltivavano con responsabilità. Imparò che il mondo offre mille occasioni per adattare le proprie idee a nuove situazioni, e che al mondo non si deve per forza essere tutti uguali per volersi bene. Imparò che la diversità è una landa che ha bisogno di essere irrorata di rispetto, scambio generoso e disinteressato, prudenza e occhi buoni per vedere fin dove ci si può spingere. Imparò che le parole sono importanti: sono loro che aprono i cuori o li serrano con i catenacci del disaggio e dell’incomprensione.
La fata non era più andata a trovarla, ma, di tanto in tanto, l’avvertiva tra i cinguettii gioiosi dei passerotti che si fermavano sul suo balcone, distraendola mentre, immobile, osservava alcuni palazzoni di cui non sentiva il respiro e le limitavano la vista: dietro c’era il mare.