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~ la musica del mare: onda dopo onda, nota dopo nota. Un adagio e poi, con impeto, esplode la passione.

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Il telaio di Agatina

26 giovedì Gen 2023

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, San Berillo, speculazione edilizia, tessitori

30 Aprile 1795. In via del Pozzo, il vescovo Corrado Maria Donati Moncada dichiarava fondata la chiesa di san Berillo. Un groviglio di strade, traverse, case e casette si erano moltiplicate, espandendosi fino a formare un vero e proprio quartiere a ridosso del centro storico di Catania. Era quindi necessaria una parrocchia che accogliesse tutti i fedeli della nuova comunità. La chiesa, umile costruzione posta nelle vicinanze di un pozzo, era stata intitolata a San Berillo, primo vescovo della città etnea. Anche il quartiere prese il nome dell’antico patriarca e fu caratterizzato dalla presenza di tessitori, uomini e donne, che lavoravano a domicilio su vecchi telai, producendo manufatti di alta qualità.

Via dei Tessitori era collegata alla via dei Setaioli che poi incrociavano via Pastore, via Rocca del Vento, via delle Belle.

– Sei una poco di buono! Chi credi di essere?

– Maledetto! Vai via! Non ho tempo da perdere con uno squattrinato come te!

In via delle Belle si praticava il mestiere più antico del mondo: lì approdavano uomini giovani e meno giovani, ricchi e benestanti, poveri e malandati. Tutti in cerca di una dose d’amore. A pagamento.

            In via dei Tessitori viveva Agatina, una donna piccola con gli occhi profondi come il mare. Lavorava sul suo telaio antico che era stato di sua madre e prima ancora di sua nonna, preferendo i filati che raccontavano il blu, l’azzurro, il celeste del mare e del cielo.

            – Questo telaio è la mia vita, ne avrò cura per sempre! Avissi annurbari di tutti e du occhi.

 Una promessa per la vita.

            Si svegliava presto e prima di iniziare il suo lavoro, passava dalla chiesetta per le lodi mattutine, andava a prendere l’acqua nel pozzo, scambiava due parole con le vicine e tornava a casa. Rimaneva ore seduta al suo telaio, con i capelli raccolti dentro un fazzoletto di cotone e un grembiule che le copriva bene il petto e le gambe dove si raccoglievano pelucchi e fili rotti e poi, via: una mano avanti e una indietro, instancabilmente, nonostante certi giorni la luce nella stanza arrivava appena e all’imbrunire il bagliore di una candela non bastava a illuminare il telaio.

–Avissi annurbari di tutti e du occhi

            Ma i suoi occhi si ammalarono e Agatina divenne orba di tutti e due gli occhi. Disperata giurava di non meritare quel castigo, che lei avrebbe voluto ancora lavorare e mostrare cosa sapeva fare. Si fece portare un grande pennello e delle latte di colore blu, azzurro, celeste, indaco e iniziò a dare colpi di colore alle pareti, ai mobili, al telaio. Giorno dopo giorno, colore su colore fino a quando qualcuno la portò in via degli Ammalati dove era sorto un grande edificio per il ricovero di gente che come lei aveva perso il senno.

            Trascorsero gli anni, il quartiere, nonostante la laboriosità dei suoi abitanti, andò incontro a notevoli difficoltà: i grandi imprenditori non avevano più tempo da perdere dietro i buoni manufatti e si dedicarono ai guadagni più veloci che venivano dall’edilizia.

Agatina morì prima che arrivassero le ruspe che, come bestie inferocite, sventrarono il quartiere e distrussero il suo telaio.

Per saperne di più: Incontri, la Sicilia e l’altrove – Anno VI N.22 – pag.41

Luce

30 sabato Apr 2022

Posted by paolina campo in pensieri

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Catania, Etna, Sicilia

Cerco,

tra le mille luci della città,

la risposta

alle mie paure,

alla mia solitudine.

Cerco,

il motivo delle mie convinzioni,

il perché

certe cose,

ai miei occhi,

sono di una bellezza sconvolgente,

da curare.

Perché

il desiderio di abbracciare con forza

ciò che mi appartiene

è così radicato in me,

tanto da farmi male?

E mi sento piccola,

un puntino

perso in questo angolo di universo

che ho tanto amato

e che tanto amo ancora.

Il grande albero

30 giovedì Dic 2021

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Catania, meraviglia, piazza Asmundo, storia, via della Mecca

Un grande albero osserva me mentre io osservo il dispiegarsi della storia. Ne ascolto il battito, il respiro, immaginando di leggere tra le pieghe del paesaggio, osservando ogni pietra, ogni elemento da cui evaporano parole e immagini. Una colata di asfalto raggiunge antichi basolati in pietra. Corde tese scorrono attraverso carrucole, in un andare e venire di bucato che profuma di pulito e di futuro: vestiti stesi al sole, rigeneratore di vita, raccontano di bambini che popoleranno la piazza nel pomeriggio, quando saranno liberi dai loro impegni scolastici. Non è grande questo scrigno circondato di storia che si perde nei secoli. In queste ore del mattino, il palazzo Asmundo, che da’ il nome alla piazza ed è uno splendido esempio del barocco catanese, resta all’ombra come una vecchia signora che ha paura di esporsi alla luce del sole: guarda con orgoglio la via Crociferi che le sta di fronte ( tra vecchie e nobili signore ci si intende) e si fa espressione di quella rinascita cittadina avvenuta dopo il terribile terremoto del 1693. Da un lontanissimo passato sento lo scalpitio rumoroso e cadenzato dei cavalli del conte Ruggero, al cui seguito la famiglia Asmundo aveva raggiunto la Sicilia. Originari di Pisa, ricoprirono importanti ruoli nella storia politica e culturale dell’isola. 1434: Adamo Asmundo, insieme a Battista Platamone, membro di un’altra famiglia prestigiosa nel ‘400, fondava l’Università degli studi di Catania, una delle più antiche d’Italia e del mondo.

Cosa nasconde l’ albero che continua a guardarmi, che continua a stuzzicare la mia curiosità? Un edificio, grande, maestoso e severo alle sue spalle odora di rigore e sapienza: un antico monastero dei gesuiti ormai dismesso, dimenticato. Le imponenti finestre si affacciano su via della Mecca e consegnano all’ albero le voci sapienti dei monaci che nel ‘700 popolavano il convento. Via della Mecca. No, non è un riferimento ad antiche religioni orientali, ma al grande sogno di un uomo che agli inizi del ‘900, aveva pensato a una casa cinematografica, l’ Etna Film, che nell’ idea di don Alfredo Alonzo doveva essere guardata come un miraggio, come un grande esempio per tutto il mondo.

Tra i rami del grande albero maturano storie e leggende e come frutti ormai troppo maturi, aspettano che qualcuno le raccolga e ne apprezzi il sapore.

Devo andare.

Fammi strada-Via da Cibali (2)

08 lunedì Giu 2020

Posted by paolina campo in libri

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Catania, Etna, il racconto continua, lavatoio, piazza Bonadies

Credevo, cuore mio, che avere cura di ciò che ti è più vicino, che amare i luoghi, l’aria, le acque dove ti è toccato nascere e crescere, credere fortemente nella conservazione dei valori, delle tradizioni della propria terra, potesse contribuire alla bellezza della diversità di ogni territorio, di ogni popolo, di ogni uomo. Potesse, come dire, alimentare la gioia nell’ incontrare l’altro e donare e ricevere per arricchirsi, per essere grati. Forse è così, cuore mio, o forse no. Intanto fammi strada, aiutami a raccontare.

VIA DA CIBALI

Era successo di nuovo. Ancora una volta aveva litigato con suo padre che lo aveva trascinato fuori, nel balcone di casa, gridandogli dietro tutta la sua rabbia.

-Hai bisogno di aria? Ecco qua. Accontentato! Puoi goderti tutta l’aria che vuoi, per tutta la notte.-

Aveva chiuso quindi le imposte con un giro di chiavi, continuando a blaterare e minacciare la moglie di non azzardarsi ad aprire quel balcone. Poi il silenzio.  Ancora una volta la sua intraprendenza, il suo entusiasmo erano stati puniti, ancora una volta doveva subire l’umiliazione di dovere tacere e sopportare l’aggressione di quel padre pazzo, fuori di testa.

-Mimmuzzu, di nuovo là sei?-

-Chi cumminasti?-

Sentiva la gente del quartiere discorrere di quel padre eccessivamente severo e burbero in casa, che però aveva amici con i quali scherzava e beveva al bar. Ascoltava i commenti e avvertiva la commiserazione di chi si accorgeva di lui, costretto a passare la notte con la testa bassa dalla vergogna. Lui non era stato fortunato come il suo amico Peppe u siccu, che quando litigava con il padre si andava a rifugiare nella stalla di don Alfonso, il proprietario della bellissima villa che dominava la borgata di Cibali. Ianu, lo stalliere, quando vedeva il suo piccolo amico in difficoltà, con una scusa qualsiasi lo chiamava e si inventava qualche servizio per il suo figlioccio.  

-Vieni, Pippuzzu! Dormi qua stasera, se no tuo padre ti fa la festa e domani ti svegli tutto rotto.-

Mimmuzzu poteva contare solo sull’ aiuto della Madonnina del Conforto, che, con occhi pietosi, lo guardava dalla sua cappelletta, che si trovava proprio all’angolo della stradina che si allungava dietro casa sua, e sembrava intercedere presso il Padre Eterno per toglierlo presto da quella situazione. Un vecchietto gli aveva detto che era chiamata anche Madonna del pane cotto, chissà perché poi! Forse perché il pane cotto era il conforto della povera gente che pativa la fame, e lui aveva tanta fame!

Faceva caldo e si sentiva l’odore che arrivava da una delle fornaci dove ancora si lavorava l’argilla.

Un gruppo di uomini in un angolo di piazza Bonadies aveva sistemato delle sedie sgangherate per giocare a carte.

-Tira! Vieni tu! Stonato, ma a chi pensi? Gioca!- gridava uno con una canottiera dai bordi logori e gialli di sudore. Lo “stonato”, un vecchietto magro, dai capelli radi, grigi di polvere oltre che di vecchiezza, dimostrava, con un sorriso dimesso, gratitudine a quell’omone che, nonostante la sua “stonataggine”, lo spronava e gli altri giocatori si accorgevano di lui.

-Mastru ‘Iachino, si fattu vecchiu!- e risate accompagnavano pacche sulle spalle che destabilizzavano la figura esile, mentre sul viso si apriva un sorriso menomato di incisivi e molari.  

Le donne stavano davanti le porte delle loro case a godersi l’aria fresca della sera, chiacchierando con le vicine sulla biancheria che avevano lavato quella giornata e di quanti fili avevano legato ai rami degli alberi, per stendere i panni e farli asciugare presto. Spesso la piazza si riempiva di lenzuola, tovaglie, calze e pigiami svolazzanti al vento che dalla Montagna scendeva allegro, animando quei tessuti che, se avessero avuto una voce, avrebbero raccontato di quanto erano stati strapazzati nell’acqua del lavatoio. A Cibali tutte le donne, o quasi, erano lavandaie e la piazza era circondata dalle loro piccole case abitate da sei, sette, dieci familiari: padre, madre, nonno, nonna, bambini che nelle sere d’estate si sparpagliavano lungo il piazzale, spandendo per l’aria afosa forti risate o grida di stizza. C’era stato un funerale quella mattina e le donne avevano un gran parlare. Era morto una specie di mafioso. No di quelli veri. Uno che era nel giro di chi si sporca le mani e l’anima per i boss che impiegano il loro tempo a studiare strategie di morte e potere. Il corteo funebre si era fermato in tutti i posti abituali frequentati in vita dall’estinto. Prima tappa, davanti il cancello del lavatoio dove andava a prendere la madre che lavava i panni di un barone di Ognina. Si fermava poi davanti al panificio, al bar e ogni volta si lanciavano fiori a segnare il passaggio e una voce si levava affannata:

-Ah, il fratello mio! Quanto era rispettato!-

Gli avevano sparato un colpo alla testa il giorno prima. Si diceva che aveva messo gli occhi addosso a una donna maritata e se l’era portata a letto.

Quella notte l’Etna tuonava e tirava lapilli e cenere rossa, segnava col fuoco il cratere maggiore e lingue di lava scendevano lente sui fianchi della Montagna. Mimmuzzu ne aveva sentite tante di storie sul vulcano. La gente raccontava di un’ eruzione così violenta che era arrivata fino a Ognina, fino al porticciolo, e la lava aveva coperto strade e quartieri, anche quello da cui provenivano quelli che poi avevano popolato quel borgo.

-Se non era per il vescovo, morivamo tutti o di fame o bruciati-

La piazza su cui sporgeva il balcone dove il ragazzo scontava la sua punizione, era intitolata al vescovo Michelangelo Bonadies, grande benefattore che i cantastorie ricordavano con i loro cartelloni e con la loro musica.

         -Scinnia ‘nfuocato u ciumi da Muntagna

         E botti e terra niura sputava di li cianchi.[i]

I cantastorie raccontavano di quando, nel 1699, l’apertura dei crateri sui Monti Rossi aveva scatenato una terribile eruzione che aveva colpito Misterbianco, comune alle porte di Catania, coprendo il fiume Amenano che lo attraversava e distruggendo il monastero dei monaci che indossavano il saio bianco. I profughi, aiutati dal sacerdote Giuseppe Leucatia, dal Protomedico Conte Nicolò Tezzano e dal canonico Martino Cilestri, furono ospitati in parte dal vescovo nel palazzo episcopale. Trovarono poi rifugio nella collina di Cìfuli, secondo il detto catanese, dove era facile arrivare e dove l’acqua non mancava e dove il buon vescovo pensò di fare sistemare quella gente a cui il vulcano aveva rubato tutto. Avevano lasciato le case, fuggendo dal fuoco e portando con loro, in processione, il quadro della loro amatissima Patrona, la Madonna delle Grazie che divenne la Patrona della collina di Cìfuli.

A ottobre ci sarebbe stata la festa in onore della Madonna e a Mimmuzzu piaceva andare in giro con gli amici e ascoltare le storie degli anziani. C’era don Saru, il barbiere che si sganasciava dalle risate per le barzellette che sentiva raccontare nel suo salone e che provava una certa soddisfazione a recitare la sera in piazza mentre i suoi compari lo ascoltavano attenti e divertiti; c’era don Bastianu, ‘u stazzunaru, che si vantava della maestria che aveva nel lavorare l’argilla, e che sognava per il figlio un futuro a Santo Stefano di Camastra dove, lui c’era stato, con l’argilla si facevano cose meravigliose: statuette, vasi e canestri colorati, e poi mattonelle di arte fina per le case dei signori. E poi c’era Cicciu ‘u siccu, un ragazzino lungo e secco che con una scatola appesa al collo vendeva bomboloni e cannellini per tutti i gusti.

Quella sera Mimmo era troppo arrabbiato, offeso e pensava che il vulcano gli stesse parlando, gli stesse dicendo di tirare fuori quella rabbia che gli bolliva dentro e finalmente trovare il coraggio di scappare. Aveva fatto tardi, certo. Con un gruppo di amici era stato a Ognina, dove dei pescatori stavano preparando la barca per andare a pescare. Riparavano le reti e intanto guardavano la Montagna

-Oggi non si esce- sentenziava uno di loro- u mari vugghi!-

– Che significa?-

 -Bolle, bolle! Che fa, non capisci il catanese?-

Tutti risero, anche lui, Mimmuzzu, che comunque continuava a non capire.

-Quando l’Etna lancia fuoco e fiamme, il mare di sotto si agita perché arrivano le correnti.-  

Si era fatto tardi, quella sera avrebbe dormito sul pavimento del balcone. Dalla piazza arrivavano le voci delle donne che cominciavano a entrare le sedie in casa e, salutandosi tra loro, chiudevano le imposte e andavano a dormire, insieme ai bambini e agli anziani, in quella camera affollata di letti dove una scorreggia del nonno sviluppava risa o indignazione, ma poi ci si girava di fianco e si dormiva con la pace di tutti.   

Gli uomini ancora resistevano al sonno: alcuni, ubriachi di vino a buon mercato che avevano comprato alla bottega di fronte la fontana, si erano abbandonati al torpore dell’alcol e della notte e, allungatisi sulle panche della piazza, avrebbero trascorso lì tutta la notte. Altri, accompagnavano mastru ‘Iachinu a casa, per poi ritirarsi anche loro. Era calato il silenzio sulla piazza, si sentiva solo il vulcano.

-Mimmo, ho preso le chiavi-

La voce di sua sorella attraversò il buio, lo raggiunse.

 -Sei pazza! Ti ammazzerà di botte!-

  -Zitto, non parlare!-

Cettina aprì il balcone e accompagnò suo fratello alla porta e lo abbracciò.

-Ora vattene! Scappa via da qui! E’ quasi l’alba e fra un po’ nostro padre si sveglia e inizia l’inferno. Tieni, ho preso anche questi soldi. Vai via!-

-Tu sei davvero pazza! Dove vado?-

-Hai tanti amici. Vai verso il mare, vai a Ognina dai tuoi amici pescatori. Scappa!-

Era estate e lei sarebbe partita presto quella mattina per andare a trovare la nonna a Palermo. Lo vide uscire e poi correre giù, per via Cifali. Si mise subito a letto e, dopo qualche ora, la madre chiamò lei e la sorella più piccola per accompagnarle alla stazione ferroviaria.


[i] Scendeva infuocato il fiume della Montagna/e botti e terra nera sputava dai fianchi

Filippo ‘u rizzu

04 mercoledì Mar 2020

Posted by paolina campo in Etna, Sicilia

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Catania, cibali, Etna

-Chi fu? Una bomba? Sì, sì! Una bomba!-

-Calmati, stai tranquillo. Prendi un po’ d’acqua. Ecco, così. E’ l’Etna che ha la voce grossa stasera.-

Da quanto tempo era lì, come un lapillo lanciato dal vulcano. Da quanto tempo rimaneva immobile a guardare il soffitto, mentre ancora ardeva di passione per il tempo che l’aveva attraversato e ora, inesorabilmente, si riavvolgeva, per dissolversi piano, piano, per sempre.

-Tutto mi ricordo, tu lo sai! Ho tutto qua, nella testa.-

-Sì, lo so.-

-Sono cento anni che vivo qua e ricordo tutti, mi ricordo di tutti.-

-Sì, sì lo so. Vuoi che prendo i fogli e continuiamo a scrivere la storia di questo tuo borgo? Abbiamo già raccolto tanti racconti, sai?-

-Prendili, voglio scrivere io qualcosa.-

-Ma non vedi bene!-

-Io conosco i segni della scrittura a memoria. Me li ricordo, anche quelli ricordo.-

Cent’anni che era lì e per tanti di quegli anni aveva riparato biciclette in una piccola bottega di un’ antica e nobile villa in piazza Bonadias, nel quartiere di Cibali, a Catania. Filippo “u rizzu”, per via dei suoi capelli ricci, riparava biciclette da una vita, da quella vita che ora ormeggiava nei porti del passato e lanciava le cime negli approdi di un futuro che aveva il dovere di ricordare.

Cent’anni che era lì e in tutti quegli anni aveva tappezzato le mura della sua casa di fogli di giornali, di ritratti di gente che aveva camminato con lui tra le macerie di una città distrutta dalle bombe che ancora turbavano il suo sonno. Riusciva a sentire, attraverso quei ritratti, le voci delle donne che stendevano i panni sotto gli alberi della piazza; quelle degli uomini che sotto quegli alberi chiacchieravano, giocavano a carte; quelle dei giovani, figli di un tempo che doveva voltare pagina. Poi c’era una foto, in bianco e nero anche quella. Ritraeva due ragazzini, Mimmo e Cettina, che erano scappati da casa e non erano più tornati a Cibali.

-Volevo tanto bene a quei ragazzi. La guerra era finita, ma loro continuavano ad averla in casa.-

Cominciò a tossire, il fiato era sempre più pesante, gli occhi vagavano in cerca di un sostegno. Afferrò la mano di Rosaria.

-Ricordati sempre di me. Scrivi.-

Si calmò, si addormentò stanco e Rosaria iniziò a scrivere, immaginando di essere seduta lì, davanti la vecchia bottega di suo padre, osservando la gente che intrecciava le fila della vita sotto gli alberi di piazza Bonadies.

L’arte del torrone

04 martedì Feb 2020

Posted by paolina campo in Sicilia

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arte, Catania, colore, folclore, sant'Agata, torrone

Lo scorso anno era così.

L’importante è il fuoco…l’importante sono i coltelli…l’importante sono le mandorle, le nocciole….

Insomma, a tutto l’elenco delle cose importanti sta, come una proporzione matematica, la buona riuscita di un profumato torrone di Sant’Agata. Tra il trambusto della folla, le note folcloristiche delle bande a seguito delle candelore e le voci concitate dei devoti, si erge il silenzio di un uomo che della preparazione del torrone ne ha fatto un’arte. 

-Ho imparato da ragazzino. Avevo visto fare il torrone da un parente e volevo provare a farlo. Allora, quando in casa non c’era nessuno, provavo e riprovano e tante volte sono stato costretto a buttare tutto.-

Dentro una pentola di alluminio pulita e lucida ribolle il caramello che Paolo mescola con cura, utilizzando un grande cucchiaio di legno. Il caramello ordina, lui esegue.

-Aggiungi un pochino di farina.

-Diminuisci il fuoco.

-Aumenta il fuoco.

-Aggiungi una parte di nocciole. Mescola.

-Aggiungi l’altra parte di nocciole. E ancora farina. Poca.

Quando dentro il pentolone tutto si è ben amalgamato, le parti si invertono. Ora il signore dell’impasto è lui, Paolo, l’Efesto del torrone. Su un marmo lindo e bianco come la neve, forgia quel magma dolce maneggiando con destrezza due grossi coltelli: assembla gli elementi, li gira e li rigira, li stende, li compatta. Poi i coltelli sollevano l’impasto caldo facendolo saltare, prima con piccoli balzi, poi con onde più alte. 

Leviga e divide il foglio di torrone ancora caldo. Lo spettacolo è finito, il lavoro si è concluso, i colori e il gusto esultano.

Eliodoro

03 lunedì Feb 2020

Posted by paolina campo in Sicilia

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Catania, elefante, leggenda, mago Eliodoro

Catania – piazza Duomo

Scorazzava per le vie del capoluogo etneo, cavalcando un elefante che aveva forgiato con la lava del vulcano. Eliodoro era un mago dispettoso. Trasformava gli uomini in bestie, comprava merci con monete d’oro e pietre preziose che si trasformavano poi in sassi, distraeva i fedeli durante una messa, tirava la stola al vescovo e si faceva trasportare da spiriti diabolici da Catania a Costantinopoli e ritorno, per scampare alla prigione o a una condanna a morte. I catanesi erano continuamente molestati dal mago burlone che a cavallo del suo elefante magico si divertiva a far crescere i capelli ai calvi, a far spuntare corna di cervo sulla testa di qualcuno o la barba di montone ad un altro. Ma un coraggioso vescovo, il vescovo Leone, esorcizzò il mago coprendolo con la sua stola. Eliodoro, allora, cadde in una fossa infuocata e morì. L’elefante du Liodoru, prese il nome di Liotru e, posto al centro della piazza del duomo, con un grosso obelisco sul dorso per impedirne il movimento, diventò il simbolo di Catania.

Maggio dei libri

26 domenica Mag 2019

Posted by paolina campo in libri

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Catania, evento, maggio dei libri 2019, Palazzo della Cultura, parole, presentazione

 

 

invito nto

Maggio è il mese dedicato alla Madonna. E’ il mese delle rose, dei tramonti rosati e delle albe fresche e romantiche. Maggio è anche il mese dei libri.

Il Palazzo della cultura è conosciuto a Catania anche come Palazzo Platamone dal nome della ricca famiglia che, nel XV secolo, affidò la costruzione dell’imponente struttura ai migliori architetti del tempo. Edificato vicino la marina, per potere controllare meglio gli importanti affari commerciali della famiglia, il Palazzo, dopo il terremoto del 1693, venne donato ai religiosi del monastero di San Placido.  Oggi è proprietà del Comune di Catania ed è sede di importanti eventi culturali, mostre e concerti. Quest’anno, in occasione del MAGGIO DEI LIBRI 2019, evento culturale e letterario organizzato  a partire dalla GIORNATA MONDIALE DEI LIBRI, che si è svolta il 23 aprile scorso, in una delle sale del Palazzo ho avuto il piacere e l’onore di presentare il mio ultimo libro,  ‘NTO SCURARI.  Pubblicato alla fine dello scorso anno da A&B del GRUPPO EDITORIALE BONANNO, ‘NTO SCURARI continua a seguire quel  percorso nostalgico, e a tratti malinconico, che tende a una tenerezza affettuosa verso quel bagaglio di ricordi e tradizioni che reclamano il loro ruolo di maestri di vita.

Pag.5

‘NTO, NEL DIALETTO SICILIANO, TRADUCE LA PREPOSIZIONE ARTICOLATA NEL: ‘NTO PUZZU-NEL POZZO; ‘NTO LETTU-NEL LETTO, INDICANDO QUALCOSA CHE È DENTRO QUALCOS’ALTRO. QUANDO ‘NTO PRECEDE UN VERBO, ASSUME IL SIGNIFICATO DI MENTRE, AVVERBIO TEMPORALE, PER ESPRIMERE UNA PROPOSIZIONE TEMPORALE: ‘NTO LAVARI-MENTRE LAVO, ‘NTO CANTARI-MENTRE CANTO. ‘NTO SCURARI-MENTRE STA PER ARRIVARE LA SERA, ALL’IMBRUNIRE, QUANDO IL SOLE È GIÀ SCESO DIETRO L’ORIZZONTE, LE NUVOLE SI FANNO BELLE PER ACCOGLIERE LA LUNA, E L’ANIMO, COME UNA CASETTA DAGLI OCCHI DI CIELO, SI IMMERGE ‘NTO SILENZIO DELLA SERA E LIBERA PENSIERI, SOGNI, RICORDI FATTI DI PAROLE, FRASI, IMMAGINI.  CI SI TROVA IMMERSI  IN UN MOMENTO DELLA GIORNATA, MENTRE QUESTO MOMENTO AVVIENE…

Ci si trova immersi in un mare di parole che svelano pensieri, che giocano a costruire immagini, storie…sogni. Questo è ‘NTO SCURARI: un navigare tra le parole di una donna che ricorda e si emoziona. Sono nata a Palermo, sono cresciuta a Salina, ho trascorso la mia adolescenza e gli anni dell’università a Palermo e da più di trenta anni vivo a Catania con la mia famiglia. Di parole ne ho viste viaggiare tante legate ai diversi idiomi della nostra isola e le ho praticate tutte, con grande curiosità. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani.

Pag.53

CUSCIUTA, ERA CUSCIUTA. SÌ, UNA VOLTA. LE PIACEVA CUSCIULIARI, IMBARCARSI SULLE SUE COSCE E ANDARE IN GIRO AD ASCOLTARE VOCI CHE AVEVANO SEMPRE TANTO DA RACCONTARE.

Cusciuta, nel dialetto palermitano indica chi va spesso in giro per le strade. A Catania si dice Strataria. Cusciulera è il termine usato nell’agrigentino per dire la stessa cosa. Cusciuliari ne è il verbo.

Immagini, parole, fantasia.

Cos’è la fantasia? E’ qualcosa dove ci piove dentro, come spiegava Calvino nelle Lezioni americane, nella sezione dedicata alla Visibilità, riprendendo un verso di Dante tratto dal XVII canto del Purgatorio: – O imaginativa…chi muove te, se il senso non ti muove?-

E la fantasia, l’immaginazione si muove attraverso le parole, le immagini. Come quelle che mi ha regalato Harry, giovane inglese che è piovuto dentro la mia fantasia e ho immaginato su una nave alla volta di Vulcano, nelle isole Eolie. E poi c’è Fedicei, nome strano che è piovuto sempre nella mia fantasia componendosi di cielo e felicità per raccontare i movimenti di gente, contadini, pescatori che arrivavano a Salina, isola verde dell’arcipelago eoliano, partendo dalle altre isole minori o dalle vicine coste siciliane, attirati dalla pescosità di quel mare e dalla ricchezza che aveva portato la coltivazione della malvasia fino a quando non arrivò la fillossera e l’emigrazione si spostò verso l’Australia e l’America.

Cavuru, cavuru è! E’ caldo, caldo. Cosa? Lo sfincione palermitano, una specie di pizza soffice coperta da tanta cipolla, salsa di pomodoro e formaggio. Un profumo pazzesco che attraversava i mercati di Ballarò e della Vucciria. Con la parola sfincione a Catania si indica una crispella di riso cosparsa di zucchero, una vera delizia.

Poi c’è Milurè, che cantava anche quando durante la guerra si pativa la fame; Venera che decide di mettersi in proprio e vende i pesci che lei stessa pesca; Etta, che sogna un viaggio sulla luna. E il cavaliere Alfredo Alonso che sogna di far nascere a Catania una grande casa cinematografica, l’Etna Film.

Aiu un cappidduzzu, tantu sapuritu! Quannu mi l’aia mettiri? Quannu mi fazzu zitu!

Ho un cappellino tanto carino! Quando lo devo mettere? Quando mi fidanzo!

Un semplice cappellino, carino, con un significato importante, una promessa per la vita, un fidanzamento.

CU NASCI TUNNU ‘UN PO’ MORIRI QUATRATU

(CHI NASCE TONDO NON PUO’ MORIRE QUADRATO)

TUNNU, cioè tondo. QUATRATU, quadrato. E’ tondo il sole, la luna, la terra, i pianeti e le stelle. Quadrato è un campo che i contadini coltivano, la faccia di un cubo, un tavolo da cucina, una cornice, una foto. TUNNU può essere un uomo che ama fantasticare, che sfugge alle regole pratiche della vita, quindi difficile da capire, ma anche un semplicione. QUATRATU, uno che ama misurare, tracciare progetti, costruire case o capanne, quindi affidabile, impostato secondo i criteri della vita pratica, inquadrato, con i piedi per terra.

CCHIU’ SCURU DI MEZZANOTTI NON PO’ FARI

(PIU’ BUIO DI MEZZANOTTE NON PUO’ FARE)

La vita ci mette davanti a tante difficoltà, ma fino a quando saremo capaci di interpretare i passaggi della nostra vita saremo anche capaci di costruire speranza, luce mentre scura e agghiorna, mentre fa buio e poi fa giorno, in un susseguirsi di storie, di immagini, di quadretti di vita.

E’ importante riflettere sulle parole? Credo sia il solo modo per riuscire a guardarsi dentro e scoprire, come scriveva Fernando Pessoa, poeta portoghese del secolo scorso, che…

Non sono niente, non sarò mai niente, non posso volere d’essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.-

Fernando Pessoa,  LA TABACCHERIA, 1928

Grazie e… buon scurari!

Cittadini

07 mercoledì Feb 2018

Posted by paolina campo in Sicilia

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Catania, devozione, festa, sant'Agata, speranza

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Devoti in processione-5 febbraio-Sant’Agata-Catania

Cittadini! Siti tutti devoti, tutti! Cittadini! Cittadini!

Fino allo scorso anno era così. La pandemia ha fermato tutto. Per quest’ anno

Li vedi correre, sostare, pregare, inneggiare per via Etnea.

Li vedi ardere di passione per una festa che esplode con forza come lava dal vulcano.

Li vedi bruciare di devozione per una Santuzza che ascolta le loro preghiere.

-Sant’ Aituzza, porterò sempre un cero più grande, più pesante perché grande è stata la grazia che ho ricevuto.-

-Sant’ Aituzza, ascoltami. Dammi la forza, dammi il coraggio di continuare il mio lavoro nonostante le difficoltà. Sant’ Aituzza, fa che nessuno mi costringa ad abbassare la saracinesca.-

-Sant’ Aituzza, sono giovane e voglio restare a vivere in questa terra che sembra maledetta e che tanto bisogno ha dei suoi figli.-

-Sant’ Aituzza, sono una donna costretta ad abbassare la testa. Sono una madre che in silenzio sopporta le angherie di un uomo, il padre dei miei figli.-

Cittadini! Siti tutti devoti tutti? Cittadini! Cittadini!

Li vedi stremati, alla fine della festa, coperti di cera come le strade che per due giorni hanno attraversato.

Sono i cittadini di Sant’ Agata: donne, uomini, bambini che affollano le strade, le piazze con il fuoco della speranza nel cuore.

Cittadini! Viva Sant’Agata!

Cettina

10 lunedì Lug 2017

Posted by paolina campo in libri, Sicilia

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Catania, dialetto, Palermo

albe

-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

-Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

-Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

 -Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

Arrivate a Palermo, Cettina e sua sorella furono travolte dall’affetto della nonna e della zia.

-Oggi si va a Mondello! Ma prima facciamo un giro in carrozza!-

Attraversarono via Roma sprizzando felicità da tutti i pori mentre il vento scompigliava i capelli e portava via ogni pensiero triste che si affacciava alla mente. Il cavallo sembrava un po’ anziano o forse era il caldo che lo faceva galoppare con fatica. Giunte nei pressi di piazza San Domenico, da dove arrivavano le voci del mercato della Vucciria, scesero dalla carrozza. Salutarono lo gnuri, il cocchiere, e a piedi proseguirono per via Bandiera e la percorsero tutta con il naso all’ in su, stupite dalla magnificenza di antichi palazzi nobiliari. Attraversarono via Maqueda e finalmente si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva, come un venticello allegro, un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sficione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini della provincia di Messina. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?- Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia lo invitammo a prendere quella foto, sembrava ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero di cuore. Quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

Quel giorno era trascorso come il soffio di vento di quella stagione che le aveva portate lì i primi giorni di luglio. Con la zia avevano visitato altri posti: erano andate a giocare al Foro Italico e una volta, c’era anche la nonna, erano andate a messa in cattedrale: bella, bellissima! Erano arrivate a piedi, attraversando via Maqueda fino al Cassaro, ai quattro canti, incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele, U Cassaru, appunto. Il Duomo a Catania era immerso nella vita cittadina, la gente viveva quella grande struttura come una realtà giornaliera: il Duomo, l’Etna, l’elefantino di pietra lavica con l’obelisco, la pescheria, la fontana dell’Amenano. Tutto viveva ogni giorno insieme ai catanesi. La Cattedrale di Palermo sembrava vivere una vita a parte: sontuosamente ricca, antica e lontana nel tempo, sembrava di avvertire ancora l’odore e il fruscio di vestiti di dame e regine, le onorificenze di vescovi e re: faceva quasi soggezione. Finita la messa, avevano continuato la loro passeggiata attraverso il mercato del Papireto e poi su per piazza Indipendenza dove presero una carrozza per tornare a casa.

Il tempo della vacanza palermitana trascorreva veloce, allegro anche se a giorni gioiosi si alternavano notti insonni. Era proprio la notte che i fantasmi nascosti durante il giorno nella mente e nel cuore, legati dal desiderio di cacciarli per sempre e trovargli un posto, magari all’inferno, si liberavano dalle catene della gioia. Nella cameretta buia dove Cettina e sua sorella Rosetta dormivano insieme alla zia, si muovevano figure, sfrecciavano tormenti. Una notte sentì gridare sua sorella nel sonno. La zia la svegliò e la rassicurò. Il giorno dopo chiese alle nipoti della mamma, di papà e del fratello e, senza umiliarle con sentenze tristi e irritanti come il sale su una ferita, disse loro che tornate a casa dovevano impegnarsi a studiare. Presto avrebbe parlato con la loro mamma per farle rimanere per sempre  a Palermo. Lei si sarebbe presa cura di loro e così avrebbero potuto continuare gli studi con più serenità. Prese in disparte Cettina e le confidò di avere ricevuto una lettera da sua madre. Non le dava nessuna notizia di Mimmuzzo, il fratello di Cettina. Tra quelle righe dove le parole sembravano navigare impetuose, c’era qualcosa che riguardava proprio lei, Cettina, la sua vita, il suo ritorno a Catania.

-Vi raccomando, non lasciatevi trasportare dalla follia di vostro padre. Continuate ad andare a scuola e insistete sul vostro diritto di guardare al futuro con fiducia.-

Con queste parole le riaccompagnò alla stazione. La vacanza era finita. Salirono sul treno con le raccomandazioni della zia che pesavano come una promessa già non mantenuta. Un grido del capostazione e tutto si dileguò tra le colline dorate e arse dal sole di fine agosto.

 

 

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