
“Ma ecco la natura, favorevole al nostro bisogno e desiderio, ci somministra due condizioni insigni, e differenti non men che ‘l moto e la quiete, e sono la luce e le tenebre, cioè l’esser per natura splendidissimo, e l’esser oscuro e privo di luce.” Galileo Galilei, DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI, OscarMondadori, Milano, 2010, pag. 277
GENTE DI MARE
Durante quella giornata con il mare appena arruffato, le donne stavano sull’uscio delle loro case appoggiate ai gozzi degli uomini su cui poggiavano i loro arnesi da lavoro: tele, aghi, stampe disegnate. E ricamavano.
-Angelina, porta a pignata e macari tu Giuseppina! Iù pronta sugnu![i]–
A gridare tanto era Rosalia, una donna alta, robusta, con i capelli arruffati raccolti da una grossa forcina. Davanti la porta della sua casa, appariva imponente, avvolta nel suo ampio grembiule colorato, con rammendi variopinti che apparivano qua e là, sbucando dal lembo tirato fino alla cintura. Rosalia aveva una grande cucina a legna capace di cuocere più pietanze nello stesso tempo. Al mattino, la donna sceglieva la legna da ardere: prima i rametti secchi, poi dei rami più grossi e alla fine alcuni tronchetti. Sudava Rosalia, teneva una mano dietro la schiena che con gli anni mal sopportava il carico di quel donnone piegato a sistemare la legna. Quel focherello che partiva timido all’inizio, con un crepitio leggero e poi si alzava gioioso fagocitando rami, tronchi e foglie secche, le dava una certa soddisfazione. Le donne del borgo preparavano le loro pentole e le portavano a Rosalia che sulla piastra della sua cucina faceva posto a tutte: zuppa di pesce, patate a spezzatino, zuppa di legumi, piselli con le uova, tutto vicino in un mescolamento di odori che raggiungeva ogni angolo della baia.
-Apposto! Ora assittamunni fora. Iù aiu du cosi di cusiri.[ii]–
I pescatori pulivano le barche e preparavano le reti per la prossima pesca. Era appena finita la guerra e quelli che erano riusciti a tornare dalla trincea portavano sulle spalle il fardello pesante del ricordo di giorni, mesi, anni di disperazione. Inspiravano grati l’aria salmastra del borgo e spesso rimanevano chiusi nella gabbia dei loro pensieri: quello che avevano visto, che avevano sofferto, riusciva a ferirli ancora. Qualcuno si lasciava andare a un pianto liberatorio e le parole che descrivevano quel tempo maledetto , si sovrapponevano una sull’altra in una cascata di dolore indescrivibile. La garitta sulla pietra salpa[iii] era avvolta dal silenzio di una pace rivendicata dal mare, dalla roccia, dai cuori che quella guerra l’avevano dovuta subire.
Gli anziani restavano spesso in silenzio, guardando il mare, in attesa. Mimmo osservava quel luogo che somigliava molto al porticciolo di Ognina: le barche dei pescatori addossati agli usci delle case, la piccola spiaggia, il mare così vicino alla gente. Anche lì c’era una garitta, più grande. Il ragazzo pensava poi che la gente di mare è uguale ovunque. Non aveva incontrato altri pescatori oltre quelli catanesi e questi di Santa Maria la Scala ma si fece l’idea che quella gente lì, i pescatori, fossero fatti della stessa natura del mare: pacati, ma sempre attenti ai segnali del vento; burrascosi, forti e tenaci quando bisognava misurarsi con le avversità della vita; profondi come quel mare per conservare saggezza, insegnamenti, per mantenere sempre lo sguardo fiero e coriaceo.
Rosetta era rimasta con le altre donne, con quelle che aiutavano gli uomini a cucire le reti. Era bella, e forte. Aveva lunghi capelli neri come la sciara su cui era stata costruita la garitta e anche gli occhi erano neri. Mimmo cominciò ad avere soggezione di quella bellezza selvaggia, sembrava sovrastarlo più della falesia che superba si calava dritta tra gli scogli del golfo acese. Sentiva un fremito attraversargli il corpo che pulsava e ardeva di desiderio. Il suo cuore cominciava a battere come impazzito e provava vergogna per qualcosa che con gli amici si parlava in maniera sconcia, usando un linguaggio allusivo, con ammiccamenti degli occhi, smorfie e gomitate complici di qualcosa che bisognava tenere segreto perché poteva destare scandalo. Era qualcosa che rientrava nella categoria delle vastasarie[iv]. Eppure succedeva a tutti i maschi. Scoprì che guardando Rosetta gli capitava di essere vastasu e tutto sotto i pantaloni si muoveva e lo faceva tremare.
Le donne abbandonarono il cucito sulle sedie per controllare le loro pentole, e i pescatori imbandirono una tavola con una tovaglia cerata a grossi quadri rossi. Accesero un braciere e quando il carbone divenne rosso e ardente, arrostirono le salpe che era facile pescare vicino allo scoglio dove sorgeva la garitta. Fiaschi di vino accompagnarono il pranzo e il sole prese il colore di quei visi dionisiaci ormai votati alla gioia di stare insieme, dimenticando le tristezze del passato.
-Prendi il mandolino! Canta!-
Un uomo accettò con un sorriso l’invito e si avviò verso la sua casa. Tornò accompagnato dalle note decise delle corde tese del suo strumento e con passo lento avanzò cantando:
Mi votu e mi rivotu suspirannu,
passu li notti ‘nteri senza sonnu,
e li biddizzi tòi vaiu cuntimplannu,
li passu di la notti nzinu a gghiornu,
Pi tia non pozzu ora cchiu arripusari,
paci non havi chiù st’afflittu cori.
Lu sai quannu ca iu t’aju a lassari
Quannu la vita mia finisci e mori.[v]
-Vieni, balliamo.-
Un ragazzo alto, dalla pelle abbronzata prese per mano Rosetta e le cinse la vita con un braccio. Le note dell’antica canzone mossero i loro passi, mentre gli occhi verdi di Luigi riflettevano la magia della Timpa, ammaliatrice e sensuale.
La gente del borgo si lasciava cullare da quella atmosfera serena che accarezzava il cuore, mentre già il pomeriggio cominciava a lasciare il posto alla sera. Il sole raccoglieva le stelle che aveva sparso sulla superficie del mare e, mentre iniziava a tendersi verso l’orizzonte, tracciava i contorni della vita di quel borgo marinaro. Ecco, lì, dove l’ombra aveva segnato i confini con la luce intensa del giorno, giovani donne osservavano la coppia danzare, abbandonandosi a romantici pensieri, a storie d’ amore appassionate che gonfiavano i cuori di travolgenti passioni; sedute al limitare di un uscio, un gruppo di comari sbirciavano i passi di danza e discutevano su quei giovani che sembrava si stringessero forte, ma poi, come trascinate dal vento, si trovavano a imbastire un discorso di gente lontana e di affari domestici; appoggiati a dei gozzi, uomini forti dalle mani robuste affidavano i loro pensieri alla musica antica e guardavano il mare, dove ogni storia nasceva e doveva finire. In un angolo, sotto una tenda, al riparo del sole, stava un vecchietto seduto su un’ altrettanta vecchia sedia. Teneva una mano su una gamba e con l’altra si appoggiava a un bastone che gli garantiva un equilibrio ormai compromesso: i capelli bianchi e arruffati e dei folti baffi arsi negli anni da un sole amico di tante giornate trascorse sul gozzo, circondavano un viso sereno di chi sa che il suo tempo comincia a contare i giorni al contrario. Dei bambini giocavano a rincorrersi, nascondendosi dietro i gozzi mentre intanto arrivava la sera e le madri richiamano i figli alle loro case.
Un’ultima nota, un ultimo raggio di sole e Luigi sciolse le braccia di Rosetta che raggiunse le donne.
-Allora, domani si parte presto, prima che sorga il sole. Adesso andiamo a caricare le reti su Marunnuzza. Tu, Mimmo, vieni con noi.-
Marunnuzza era una grossa barca di legno costruita ad Acitrezza. Il padre di Luigi l’aveva commissionata a un importante maestro d’ascia che aveva ereditato l’arte di costruire barche di legno dal padre. Esisteva da tempo il cantiere peschereccio ad Acitrezza, da prima che arrivasse la guerra, prima ancora che scoppiasse la prima grande guerra. I Rodolico si erano distinti nella costruzione di barche e pescherecci e il loro lavoro era apprezzato in tutto il Mediterraneo. Per far costruire Marunnuzza la famiglia di Luigi si era “impegnata anche gli occhi”, come si usava dire quando lo sforzo economico era tale da imporre notevoli sacrifici e stringere la cinghia era necessario per potere realizzare qualcosa di importante.
La consegna della barca e il conseguente varo era stato una festa e una soddisfazione per tutto il borgo di Santa Maria La Scala.
-Vicè, chi bella varca ca facisti fari!!-
-E bravu a Vicè! Cu sta varca non ci su pisci ca non si ponnu piscari, non c’è mari ca non si po’ passari-
-Calma, calma! U mari è sempri u nostru patruni!-
-Cu ta tinciu?-
-Mastru pincisanti Giovannino-[vi]
Mastru pincisanti Giovannino era un bravo decoratore di barche e lavorava presso il cantiere Rodolico da quando era un ragazzo. Si era specializzato nell’arte di decorare Santi e Madonne, motivi floreali e geometrici seguendo la tradizione che era tipica dei carretti siciliani. In questi prevalevano scene tratte dai cicli della Chanson de geste: paladini che si sfidavano a duello, dame contese e scene di guerre cristiane dove si esaltavano le virtù di un paladino. Nei gozzi i Santi protettori dei pescatori, Madonne e sirene si inserivano a prua, tra le strisce decorate lungo le fiancate e anticipavano due occhi, dipinti ai lati del dritto di prua, che osservavano il mare perché facessero da sentinella.
Padron Vicè volle che la sua barca fosse tutta verde, come la Timpa che signoreggiava sul piccolo porto di Santa Maria La Scala, con una striscia gialla sul fasciame superiore.
-E ora, cca, Mastru Giovanninu, ci vogghiu na Marunnuzza. E di cca, na sirena. E du occhi ca tenunu accura a nui piscaturi.[vii]–
Mentre parlava gli si accendevano gli occhi, la sua voce vibrava di emozione, fremeva di impazienza.
La sua barca. Ora aveva una barca sua.
[i] Porta una pentola anche tu, Giuseppina. Io sono pronta.
[ii] Ora sediamoci fuori. Io ho due cose da cucire.
[iii] Garitta posta durante la seconda guerra mondiale su una pietra lavica ai piedi della Timpa di Acireale, detta “pietra salpa” perché lì abbondavano le salpe. Questi pesci, appartenenti alla famiglia delle occhiate, saraghi e orate, pascolano in branchi, brucando la flora del litorale costiero. La notte si rifugiano all’interno dei moletti illuminati che presentano bassi fondali e numerosi nascondigli creati dalle stesse barche all’ormeggio.
[iv] Atteggiamenti vergognosi
[v] Canzone d’amore della tradizione popolare siciliana. Molto apprezzata l’interpretazione di Rosa Balistreri, cantautrice e cantastorie scomparsa nel 1990.
[vi] –Vicè, che bella barca ti sei fatta fare!-
-E bravo Vicè! Con questa barca non ci sono pesci che non si possono pescare, non c’è mare che non si può attraversare!
–Calma, calma! Il mare è sempre il nostro padrone!-
–Chi l’ha dipinta?-
–Mastro pincisanti Giovannino.-
[vii] E ora, qua, Mastro Giovannino, ci voglio una Madonnina. E qua, una sirena. E due occhi che proteggono noi pescatori.