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Ambulanze,  vecchio telefono a gettoni, un cellulare collegato a una presa di corrente e poggiato a terra, distributore di bibite, panchine. Vie di accesso, vie di uscita. Gente, tanta gente. Ecco la scena è pronta. Che entrino i personaggi.

-Mia madre è entrata tre ore fa e ancora non mi hanno fatto sapere nulla.

Messaggio che rimbalza da una bocca a un’altra. Si imbastiscono storie, considerazioni, in una sorta di gara a chi è stato più sfortunato in quell’attesa che sembra non finire mai.

Una ragazza non partecipa alle discussioni. Si fa spazio, si siede e poi, di scatto, si alza. Fa un giro dentro e fuori la sala d’attesa del Pronto Soccorso, mantenendo sempre uno sguardo rabbioso. Piccola di statura, minuta, ostenta l’aggressività silenziosa di una tigre. Indossa un paio di stivali neri, con un grosso tacco e una vistosa fibbia dorata. Una gonnellina di un rosa acceso, leggera, con due drappeggi sul davanti si impone allo sguardo come una grossa mattonella incollata su una parete scura: un giubbino nero, in similpelle, completa la mise. Tutto sembra in ordine, impeccabile come le righe del pelo della tigre: strisce nere su manto arancione come i suoi capelli piastrati, con due trecce che, partendo dalle tempie vanno a chiudersi dietro le orecchie. Si alza di scatto, raggiunge il distributore, prende un pacco di patatine e le divora.

-Il vaccino! Non l’avrei mai fatto!

-Il covid! Che brutta cosa!

Un gruppo di donne e uomini trovano posto sulle panche disposte lungo un corridoio secondario. Ognuno racconta le proprie esperienze pandemiche. Sembrano vecchi amici. Mentre il tempo  scorre, non si accorgono dell’attesa e si scambiano i numeri dei cellulari. Uno di loro è chiamato per il controllo medico. Scompare dietro la porta della degenza e poi torna dai suoi nuovi amici. Lo richiamano ancora una, due, tre volte. La solerzia dei medici nei suoi confronti diventa motivo di scherzo per la nuova comitiva mentre, su un’altra panca, un uomo monta la sua rabbia mentre ha ingaggiato una lotta contro le zanzare. Non lo hanno chiamato neanche una volta. Gli sta accanto la moglie, bionda, che dice di avere un dolore al ginocchio.

-Mio marito si scoccia a venire al pronto soccorso- e intanto cerca qualcuno con cui parlare e lamentarsi del cattivo servizio: lei ha male al ginocchio, caspita!

Una signora si presta ad approfondire la questione. Era stata tre giorni prima al pronto soccorso ed era andato tutto bene. Oggi i medici sembra non abbiano voglia di lavorare.

-Un cracker?

-No, grazie.

-Una caramella?

-No, grazie.

É arrivato il turno di Lavinia. Entra. Lungo il corridoio non trova nessuno, i pazienti sono sistemati in camere su delle lettighe, in attesa di ricovero. Nella stanza dove attende il risultato delle analisi che le hanno fatto, c’è anche lei che dorme come fosse a casa, nel suo letto. Per tutto il pomeriggio è entrata e uscita dalle stanze del pre-ricovero con una tale padronanza, che se non fosse stato per l’abbigliamento, si poteva scambiare per un’addetta ai lavori.

Cappello di lana maculato grigio e arancione su dei lunghi capelli neri e lisci; vestaglietta rosa tempestata di cuori di colore grigio chiaro; calzettoni neri; pantofole rosso fuoco. E smalto bordeaux semipermanente alle unghia.

Distesa sulla SUA lettiga, dorme ma sembra infastidita. Ha caldo. Nessun problema. Toglie le calze.

É notte ormai. Un uomo con le gambe nude passa davanti la sala dei medici. É disinvolto e sorride. Passeggia lungo il corridoio, mentre con una mano tiene il pannolone da dietro e con l’altra il tubo del catetere appeso a una sacca piena di urina. Esce di scena.

Bisogna andare.

Si chiude il sipario, mentre lo spettacolo continua dietro le quinte di un mondo tragico, attraversato da scene tratte dall’eterna commedia della vita.