Il canto del mare
29 domenica Nov 2020
Posted mare, silenzio
in29 domenica Nov 2020
Posted mare, silenzio
in27 venerdì Nov 2020
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Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare mi fecero arrivare, poscia chele dee mi portarono sulla via molto celebrata che per ogni regione guida l’uomo che sa. ………………… L’asse nei mozzi mandava un suono sibilante, tutto in fuoco ( perché premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra) allorché si slanciarono le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte, a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli. ……… La dea mi accolse benevolmente con la mano la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole: -O giovane che insieme a immortali guidatrici giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano, salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via ( perché in verità è fuori del cammino degli uomini), ma un divino comando e la giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze bisogna giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.- Sulla natura, vv. 1-32, in I Presocratici, vol.I, pp.269-70Parmenide, filosofo presocratico nato ad Elea, sulle coste dell’attuale Campania, immagina di fare un viaggio verso la luce, verso la verità. Le figlie del Sole lo portano al cospetto di Dike, la dea della giustizia, che gli rivelerà quale sia la vera conoscenza che, per il filosofo eleatico, è quella razionale, quella che si identifica con la “ben rotonda verità”, come la sfera, uguale in tutte le parti e per questo omogenea. La conoscenza rivelata dalla dea è diversa da quella seguita dai mortali, basata sull’ opinione, sulla doxa, sempre mutabile e per questo destinata a fallire. Dike, per i greci, indicava la giustizia, la misura invisibile che regola tutte le cose, qualcosa originariamente nascosto e poi si rivela, come il sole al suo sorgere. Dike è figlia di Nomos, la legge, ma non c’ è coincidenza tra loro. Le leggi sono scritte dagli uomini e l’ esistenza della legge è un’ evidenza che non c’è giustizia a questo mondo dove gli uomini realizzano un diritto coerente con certe loro premesse.
27 venerdì Nov 2020
Posted Sicilia
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Cominciai la mia avventura scolastica a Palermo proprio nei pressi del mercato storico di Ballarò, cuore pulsante di un quartiere normanno il cui nome, Albergheria, indica una terra a mezzogiorno, illuminata da un sole raggiante. Albergheria, da Albahar, nome con cui i saraceni chiamarono “mare” quel lago così grande e vasto dentro la città, probabilmente formato dall’incontro di due fiumi, il Papireto e il Kemonia, ricco di pesci e circondato da un muro adorno di barchette d’oro e d’argento. Il mercato era allora frequentato da mercanti arabi che da Bahlara, villaggio nei pressi di Monreale, popolavano ogni giorno il quartiere dell’ Albergheria per vendere, comprare, litigare e scendere a patti.
Quanto basta per immaginarsi in una storia da Mille e una notte.
Nel XVIII secolo, in una delle case dell’antico rione nasceva Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro. Figlio di un mercante di stoffe, fu alchimista, mago, avventuriero, falsario, guaritore e, durante il secolo dei lumi, trascorse la sua vita girovagando in lungo e in largo per le corti di tutta Europa. La sua vita e la sua morte sono avvolte dal mistero e, secondo una leggenda popolare che circolava tra le vie del quartiere dell’ Albergheria, il suo corpo era arrivato in Sicilia e sepolto in una nicchia delle catacombe dei Cappuccini a Palermo.
Frequentavo la scuola media del Protonotaro che si trovava su una strada stretta, un cordone di congiunzione tra il quartiere dell’Albergheria da sempre popolata da mercanti, maghi, donne vocianti per le strade, e il Cassaro, elegante e signorile, ricco di palazzi, chiese e monasteri. Questo budello di congiunzione tra le due facce più emblematiche di Palermo portava lo stesso nome della scuola.
Il Protonotaro era un personaggio potentissimo in epoca normanna e sveva, con incarichi importanti. Era un consulente del re. Come non pensare a Pier della Vigna, protonotaro alla corte di Federico II di Svevia che Dante immagina di incontrare nel secondo girone del VII cerchio dell’Inferno. Il nome di questa via non ricorda lo sfortunato personaggio dantesco, ma don Ignazio Papè, Protonotaro del Regno delle due Sicilie verso la metà del 1700, che proprio lì aveva la sua sontuosa residenza, con ampi saloni e affaccio sul Cassaro.
Andavo e tornavo da scuola a piedi, attraversando voci, colori, misteri conditi dai profumi di una tradizione che resisteva al tempo; ascoltando le storie che da ogni angolo, da ogni pietra sembravano sgorgare; osservando stupita le bancarelle del mercato cariche di frutta, verdure, spezie e aromi che si alternavano a quelle del pesce, della carne, delle olive, delle conserve, del pane. Tra la baraonda di parole abbanniate che saltellavano scoppiettanti tra la merce esposta, se ne sentiva qualcuna che, attraversando il mercato con flemma indicibile, portava con sé un odore forte, come di pizza riccamente condita.
-Cavuru, cavuru è!²-
Ma come? Faceva già caldo! Un uomo trainava a mano il suo carretto e ignaro del trascorrere delle stagioni, attirava la gente con la sua voce e il forte odore di focaccia, salsa di pomodoro, cipolla, formaggio, mollica. Un ciavuru, un odore che attraversava le narici e inebriava la mente tanto che, anche in estate, lo sfincione si preferiva al cono gelato.
E poi panelle e crocchette di patate gialle come il sole e panini con la milza cotta nella sugna bollente come la terra di mezzogiorno… lanciavano il loro invito da bottegucce affollate di gente, che ogni giorno transitava per il mercato di Ballarò.
-Che mangiamo stasera?-
-Niente, vai a Ballarò e prendi quattro panini con panelle e crocchè.-
E quel niente si condiva di forti sapori e intensi profumi. Niente, solo un po’ di storia e tanta vita.
23 lunedì Nov 2020
Posted Sicilia
inLa famiglia del lattaio viveva in una di quelle case a piano terra con una porta d’ingresso che poteva fungere anche da finestra. Chiusa la parte inferiore, dalla parte superiore della porta si sporgeva il mezzo busto di una signora con uno sciallino di lana, lavorato all’uncinetto che le copriva le spalle per buona parte dell’anno. Affacciata all’apertura della sua casa, la donna svogliatamente seguiva il passaggio della gente, aspettando che succedesse qualcosa che la scuotesse dalla monotonia della sua giornata.
-Buongiorno! Mi da’ dieci uova?-
La moglie del lattaio apriva quindi anche la parte inferiore della porta. Le uova si trovavano dentro una credenza addossata ad un divano sul quale, spesso, stava seduto un ragazzo altissimo e magrissimo: lo chiamavano Cocò, forse per ricordare le galline o forse per trovare un appellativo veloce che raggiungesse presto la sua attenzione. Col trascorrere degli anni, il ragazzo si allungava, la sua figura si assottigliava spalmandosi lungo i suoi muscoli e le sue ossa, arrivando a superare i due metri. La donna cercava una bustina dove mettere le uova, Cocò non proferiva parola e il lattaio trafficava tra i suoi bidoni d’alluminio, sparsi per la stanza. Cocò non guardava nessuno. Il viso scarno, gli occhi affossati e un grosso naso aquilino erano incorniciati da una liscia capigliatura. A Palermo si era soliti parlare per similitudine e Cocò era paragonato, riguardo al suo aspetto fisico, a una canna per stendere i panni, di quelle che si vedevano lungo i marciapiedi dei quartieri più popolari della città. Le donne che si affacciavano a mezzo busto, stendevano i panni su una corda legata a due chiodi piantati da una parte ad un’altra della facciata della casa a piano terra. La canna, che inforcava la corda nel suo punto di mezzo, veniva posizionata sul muro per tenere in alto i panni. Più era lunga la canna, più lenta doveva essere la corda e più panni si potevano stendere. Cocò era così: fermo e rigido nella sua lunghezza, come ‘na canna pi stenniri, secca e tesa, aggrappato al suo muro di esistenza.
19 giovedì Nov 2020
Posted Senza categoria
in17 martedì Nov 2020
Posted pensieri
inUn ominide lancia un osso in aria, segnando l’inizio dell’evoluzione dell’uomo (Stanley Kubrik, 2001-Odissea nello spazio). Il linguaggio e la capacità di numerare saranno gli strumenti essenziali per muoversi e progredire. Attraverso il linguaggio l’uomo ha potuto trasmettere emozioni, desideri, segnalare un pericolo, discutere della validità o falsità di un’ipotesi (funzione argomentativa di cui parla Popper).
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’ oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.
Genesi, 11,1
Secondo la Genesi, gli uomini, agli albori della loro civiltà, usavano tutti le stesse parole, si esprimevano tutti con lo stesso linguaggio. Fino a quando non iniziarono a costruire una Torre, con la quale avrebbero voluto toccare il cielo. Il Signore punì la loro presunzione, disperdendoli su tutta la terra e confondendo la loro lingua.
Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra
Genesi,11,1
Questa premessa mi apre alla possibilità di parlare della ricchezza delle parole e della diversità dei modi di dire nel percorso triangolare Palermo-Salina-Catania, percorso a me molto familiare.
Io – Iò – Iù, pronome personale soggetto, prima persona singolare, nell’ordine: a Palermo, a Salina, a Catania
Est, verbo essere, terza persona singolare, usata nell’antica Roma ma anche oggi a Salina.
Muriu-murù-mossi, tre parole per dire “è morto” a Palermo, a Salina, A Catania.
Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme, in Sicilia come in tutte le parti del mondo. Come non pensare alle colonizzazioni, all’America, all’Australia dove i nostri emigranti hanno adattato i loro dialetti, costruendo altre parole. Apri una parola e ci trovi gli spagnoli, i francesi, i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi, i sicani, i latini, gli etruschi. E’ importante riflettere sulle parole? Credo proprio di sì. Credo sia importante per riuscire a guardarsi dentro e scoprire che oltre quello che ascoltiamo, vediamo, oltre quello che i nostri sensi ci offrono c’è un mare di storie, volti, paesaggi tutti da interpretare.
Ammausari, vinnigna, cuofani, valliri: un dipinto di parole che descrivono campi, filari di viti, pampini, uva, uomini e donne che lavorano alacremente tutto l’anno. Siamo a Salina.
Ammausari è un termine che indica la tecnica di legare i tralci buoni delle viti che, dopo la potatura, sono stati lasciati appositamente nella pianta perché questa si rigeneri. Volendo azzardare un’etimologia della parola ammausari, potremmo pensare proprio al significato di usare le mani per legare i tralci buoni, lavoro spesso affidato alle donne.
Vinnigna, vendemmia, dal latino vindemia, parola formata da vinus-vino e demia, forma del verbo demere, cioè levare via, togliere. Prendendo il vino, si segna il passaggio dall’estate all’autunno e si fa festa per dire arrivederci al caldo sole estivo. L’uva, sistemata nei cuofani, grandi ceste di canne intrecciate, viene portata nei palmenti per essere pigiata e trasformata in mosto. Tutta l’uva, tranne quella dorata, l’uva malvasia che, una volta raccolta, viene stesa con cura sui cannizzi, letti di canne intrecciate, che permettono agli acini un’ottima aerazione durante l’esposizione al sole.
Ni viremu, bonasira, salutamu.
A presto!
16 lunedì Nov 2020
Posted libri, Senza categoria
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ALONSO Io non vedo l’ora di conoscere tutta la storia della vostra vita, che deve essere meravigliosa a udirsi
PROSPERO Ed io ve la racconterò tutta. E vi prometto un mare tranquillo, venti favorevoli, e una traversata così rapida che sarete in grado di raggiungere, nonostante la lontananza, la vostra flotta regale in viaggio. ( A parte a Ariel) O mio Ariel, pulcino, il procurar che tutto questo accada è compito tuo. E poi sarai libero di scioglierti negli elementi…
William Shakespeare, LA TEMPESTA, BUR, Milano, 2008, pag.285
14 sabato Nov 2020
Posted libri
inHo appena finito di leggere “La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio. Ne ho apprezzato l’eleganza e la compostezza di un dialogo aperto, colto, di quelli che lasciano spazio a curiosità e approfondimenti. Leggere un libro è sempre un’esperienza, un percorso e quindi uno svelamento di emozioni che via via si intrecciano con quelle dell’autore: un tuffo tra parole, considerazioni, idee, pensieri Un’immersione nella vita, nel tempo. Quanto misura il tempo? Difficile parlarne in maniera univoca. Si può parlare del tempo della nostra giovinezza o quello della nostra vecchiaia; il tempo dedicato agli studi o al lavoro. Ma c’è anche il tempo degli incontri con il mondo fuori di noi, in un arcobaleno di esperienze diverse e che si sommano al proprio. Ecco che il tempo non si può più misurare solo secondo la sua lunghezza, ma anche secondo il suo spessore. Ne “La misura del tempo”, il protagonista è un avvocato che accetta di difendere il figlio di Lorenza, una donna con la quale aveva avuto, in passato, una relazione. Il ragazzo è accusato di omicidio e il processo si anima di prove, di persone, di eventi che si intrecciano con la storia con Lorenza. Una sommatoria di tempi, uno stratificarsi di esperienze. Una definizione si è imposta alla mia attenzione con tristezza, con amarezza: “disagio morale” che, credo, sia qualcosa che venga descritto dalla legge in sede di un processo, sia esso penale che civile. Essere coinvolti in un processo è qualcosa di stancante, che mette alla prova pazienza, comprensione e anni di sacrifici che, nel tempo, si sono sommati per la realizzazione di un sogno. La mia famiglia è stata coinvolta in un processo, usucapione, per noi assurdo, che ha provocato un “disagio morale” che la legge ha pensato di non vedere; un “disagio morale” che si rinnova con indescrivibile cocciutaggine, mirata a calpestare le più elementari esigenze del cuore.
11 mercoledì Nov 2020
Posted favola
in-Dà, dà ama a vardari!- (Là, là dobbiamo guardare)
I pescatori sapevano che, nello spazio di mare che guardava in direzione del grande arco di una casa che profumava di mosto, era possibile pescare calamari di giorno e totani la notte. Con la luna calante.
C’erano sere e c’erano notti che nessuno andava in quel tratto di mare.
C’erano sere e c’erano notti che al grande arco guardava una fata, amica della luna che illuminava il mare quando sorgeva rossa del fuoco del sole, appena scomparso all’orizzonte.
C’erano sere e c’erano notti che dal grande arco si librava una scia di stelle che avvolgeva la fata, le illuminava i capelli e la sollevava leggera nel cielo.
-Vai!- le diceva la luna.
C’era un sogno da salvare, rimasto incastrato tra le pieghe oscure di una costellazione lontana. A bordo della scia di stelle, la fata attraversava il cielo. Salutava i falchetti che durante il giorno avevano giocato con le onde del mare. Sorrideva alle caprette bianche come nuvole di primavera che vivevano su una roccia inaccessibile agli uomini, lì dove arbusti verdi e grotte sicure garantivano loro una vita tranquilla scandita dal rumore del mare che lassù arrivava come un monito divino, dal susseguirsi delle piogge e delle stagioni, dall’amore della loro madre, la luna.
La fata raggiunse il sogno che era volato troppo lontano. Era arrivato sino alla Costellazione del Cigno, attirato dalla bellezza che evocava quel nome. C’era lì un grosso buco nero che lo attirava con messaggi incantatori. Il sogno aveva cominciato a girare intorno all’orizzonte di quella massa enorme e presto capì che voleva inghiottirlo. La fata ordinò alle stelle che l’avevano portata nello spazio, di formare una lunga catena di luce più forte dell’energia della massa oscura, intimando loro di non avvicinarsi troppo all’orizzonte degli eventi ma di prendere il sogno e strapparlo al vortice malefico. Il Cigno osservava e mandò delle stelle-soldato a rinforzare la scia di luce. Il sogno passò una volta e poi ancora una seconda volta, girando vorticosamente intorno a quel buco. Una, due, tre e più volte tentò di aggrapparsi alle stelle. Finalmente si lanciò con forza e con tutte le amiche del cielo, partì alla volta del mondo. Tutte insieme salutarono il Cigno e attraversarono leggere la volta celeste. La fata accompagnò il sogno fino al grande arco della casa che profumava di mosto, perché gli uomini hanno bisogno dei sogni e di fate per guardare e viaggiare lontano e poi sempre tornare.
-Dà, dà ama a vardari!-
11 mercoledì Nov 2020
Posted poesia
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In questo tempo strano, privato di allegria, mi assale la nostalgia di affetti ormai lontani. Sembra che un dio malvagio abbia fermato il mondo, abbia legato gli animi e abbia detto al vento -“fermati”-. Dov’è la Cura bella e la Responsabilità severa che accendono la luce su cose, luoghi, volti; che insegnano ad amare le proprie tradizioni, la storia che nel tempo ha arricchito gli animi, la cultura che ha formato menti e ha nutrito i sogni di costruire stelle su ciò che abbiamo in mano? Dov’è la tenerezza che dagli occhi passa al cuore perché ogni cosa si vesta di giuste strategie e opportunità nuove? Possibile che anche la parola LIBERTA’ abbia cambiato posto nel nostro dizionario? Libertà non era anche rispetto, impegno, solidarietà? In questo tempo strano deve tornare il vento che spazzi via la noia e la tristezza, perché possiamo ancora volerci tanto bene e amare con forza il mondo che ci appartiene.