Ricordo, cuore mio, che mia madre, quando si litigava e volavano parole grosse, se ne usciva con una sentenza affilata come una spada:
‘a lingua unn’ avi ossa, ma rumpi l’ossa,
la lingua non ha ossa, ma rompe le ossa.
La sentenza era potente, come potente il messaggio della forza della parola. La mia era una famiglia molto rumorosa: si parlava, si litigava, si ricordava e in tutto questo trambusto, le parole circolavano attraverso le finestre del passato e quelle del presente, come valigie cariche delle cose più importanti che ognuno si portava dietro, per tutta la durata della parentesi di respiro che è la vita.
Era dicembre e aveva nevicato copiosamente per due giorni. Zafferana, paese etneo, orgoglioso della sua posizione privilegiata alle pendici della Muntagna, s’era vestito di bianco. La sera, illuminato dai bagliori della lava e investito dalla voce tonante del vulcano, si lasciava attraversare da una magica atmosfera. Al mattino, invece, si svegliava avvolto dall’aria pungente che scendeva dall’Etna vestita di un candido mantello puntellato qua e là da macchie scure di roccia vulcanica che facevano capolino per guardare il cielo. Qualche nuvola si adagiava in cima alla Muntagna, lasciandosi attraversare da sporadici sbuffi di fumo grigio che usciva a sorpresa dal cratere centrale. Era, pensava Cettina, come se un Brucaliffo si fosse accomodato sul bordo del cratere, invece che su un fungo e, fumando il suo narghilè, lanciasse palle di fumo per invitare incaute visitatrici ad andarsene. Aveva letto il romanzo di Luis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, e tra tutti i personaggi che l’avevano divertita, incuriosita e l’avevano fermata per riflettere su atteggiamenti e situazioni vere, riscontrabili nella vita di ogni giorno, tra il Bianconiglio, il Cappellaio Matto, lo Stregatto e altri, uno le era sembrato proprio particolare, il Brucaliffo, un bruco che si dava tante arie, ma che mai sarebbe diventato farfalla. Guardando gli sbuffi grigi dell’Etna, Cettina lo immaginava lì, tra il fuoco e il fumo, ad arrostire la sua vanità.
Non è vero che un ricordo condiviso accende a tutti le stesse emozioni, dice a tutti le stesse cose, usa sempre lo stesso linguaggio per raccontarsi. C’ è qualcosa di intimo in un ricordo. Emozioni che bussano al cuore, che accendono la luce di qualcosa che si fa presente in quell’ attimo che si rinnovano i suoni, le voci, gli sguardi, i sorrisi, che ognuno ha conservato per sé. Così trascorrono gli anni, molte cose assumono significati diversi ma davanti a un ricordo si riesce a vedersi bambini, scrutando ogni cosa dalla serratura del tempo.