Tag

, , , ,

Di un luogo se ne può sempre sentire il respiro, anche se si è lontani, soprattutto se quel respiro ti è entrato dentro e circola costantemente e per sempre nei tuoi pensieri. Di un luogo puoi ascoltare tante voci quante ne sei capace di trovare, aprendo le porte della sua storia.

Si apre una porta. Ci sono dei bambini, giocano a iadduzzu, a galletto.

Spinni tu e spinnu iò

E’ già Natale e la magia di cristalli di zucchero attaccati ai grappoli di uva passa, fa scintillare gli occhi dei bambini. A settembre gli uomini avevano provveduto al lavaggio con acqua di mare di cannizzi, cuofini e botti. Avevano portato tutto giù al molo e alzando su le maniche delle camicie e i gambali dei pantaloni, erano entrati anche loro in acqua. C’era stata la vendemmia e poi la pigiatura dell’uva da vino, e la paziente operazione di essiccamento dell’uva malvasia stesa al sole sui cannizzi. Una volta raccolta tutta l’uva, la signora Elena aveva riempito d’acqua una grande quadara, un grande pentolone di alluminio, per preparare la liscia, una sorta di sciroppo dove al posto dello zucchero si faceva sciogliere nell’acqua la cenere di tralci di uva che la signora era solita fare bollire per 36 ore. Trascorso quel lungo bollore, si era munita di una grossa schiumarola dal manico lungo e, sistemati nell’utensile i grappoli di minnilottina, uva prelibata, li aveva immersi nella liscia bollente. Quando i chicchi dell’uva cominciavano ad aprirsi, comare Elena aveva tirato fuori i grappoli che con delicatezza dovevano essere sistemati sui cannizzi. Bisognava rigirali tante volte nel corso dei giorni che servivano perché tutti i chicchi fossero raggiunti dal sole e diventassero scuri. Poi erano pronti per essere conservati in un panno di cotone bianco come la neve e riposti nella credenza fino a Natale. Questo periodo di incubazione avrebbe creato la magia degli zuccherini.

Spinni tu e spinnu iò

e chi spenna l’ultimo chicco di uva brillante di zucchero, paga il pegno.

IMG_20170530_170229

Lì, un faro sta di sentinella a un laghetto dove si produceva il sale che un tempo portò tanta ricchezza ai mercanti dell’isola di Salina. Si apre ancora una porta. C’é festa, la gente è allegra e sventola una bandiera. E’ il primo di maggio del 1918. Autorità civili e militari insieme ai cittadini della piccola ma popolata frazione di Lingua, inaugurano l’Ufficio Postale, voluto dal Cav. Giovanni A. Giuffre’. Rosina Lo Schiavo sarà la direttrice e le succederà Ersilia Grazia Dydime, figlia del notaio Domenico Giuffre’, primo sindaco di Santa Marina. Dydime, gemella. Didyme, altro nome di Salina che mostra due monti gemelli come il seno prosperoso di una donna che guarda la sorella Filicudi che, distesa su un letto azzurro, dialoga con il sole che alla sera le si avvicina sfolgorante di luce e colori.  Gli racconta la storia infinita di una madre in attesa del figlio che dentro di lei forgia la sua vita.  E poi, Lipari, come una vecchia signora, una nonna di un tempo, una zia come quelle che una volta esistevano, guarda tutte le sorelle che indaffarate si prendono cura del tempo di quello splendido specchio di acqua.

foto-storica-lingua

A Salina c’è festa. Lo zio Bartuluzzo, quel signore con la bandiera in mano, è vedovo da tre anni e ha quattro bambini accuditi dalla zia Rosina, che fa da mamma a tutti. Quel bimbo vestito di nero è Nino, Nino Lo Schiavo, che da grande sarà direttore del periodico Avvenire Eoliano, dal 1927 al 1929, e più tardi riavvierà il commercio della malvasia, dopo il disastro della fillossera. Dietro di lui, Ersilia Grazia Dydime Giuffre’, fiera, come Dydime, come Salina.

 

 

 

Ringrazio Antonio Alizzi e il professore Angelo Cervellera per la loro disponibiltà.