Tag
Allor incontro ti verran le belle
Spiagge della Trinacria isola, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l’armento:
sette branchi di buoi, d’agnelle tanti,
e di teste cinquanta i branchi tutti[1]
Ulisse era quindi arrivato nella Trinacria isola, in Sicilia, precisamente a Tauromedion, l’odierna Taormina, dove pascolavano le mandrie del Sole.
Trinacria era l’antico nome della Sicilia presso i greci, composto da Τρϵῖς (tre) e ἄκρα (promontorio), usato per riferirsi a un’isola dalla conformazione geografica strana, che parla di numeri, di figure geometriche, una in particolare: il triangolo.
Quando nel VI a.C. Pitagora (569-500?a.C.) introdusse un modo nuovo di fare matematica, concettualizzando il numero e liberandolo dalle cose, dalla conta delle cose, il triangolo rappresentò armonicamente la somma dei primi quattro numeri della sequenza numerica e la Tetraktys si legò al numero 10 che tra i pitagorici possedeva un valore mistico.
Le rigide regole della scuola pitagorica erano state tracciate a partire dai numeri interi e dal loro rapporto espresso secondo la formula n+1 per cui, nell’atto del contare, il passaggio da un elemento ad un altro avveniva sempre allo stesso modo:
1, 1+1=2, 1+2=3 e così via.
La matematica quindi era pensata come la successione di numeri discreti, finiti, distinti e identificabili. Ben presto si intuì che tra un numero e un altro esisteva la possibilità di trovare altri numeri che descrivevano un andamento che non procedeva per salti ma segnava un percorso continuo da un elemento a un altro.
Consideriamo, ad esempio, un segmento:
tra il numero 1 e il 2, tra il 2 e il 3 e oltre, è possibile pensare ad altri numeri che dividono il segmento, che però non sono numeri interi. La difficoltà aumentò quando si trattò di considerare il rapporto tra il lato di una figura geometrica e la sua diagonale, rapporti misteriosi. Come misterioso e magico era il rapporto tra il lato del pentagono e la sua diagonale, indicato con la lettera greca φ=1,618033… esempio primordiale di incommensurabilità, cioè impossibilità di misurare lato e diagonale con la stessa unità di misura.
I pitagorici dovettero scontrarsi con un altro esempio di incommensurabilità che però sfuggì ai lacci magici a cui era legato il numero.
Ippaso, discepolo di Pitagora, si rese conto dell’incommensurabilità del lato del quadrato e della sua diagonale: se il lato del quadrato è 1, la misura della diagonale risultava √2 che non era propriamente un numero, almeno nel significato che Pitagora ne aveva dato. La scoperta venne divulgata, uscì dai rigidi schemi pitagorici per affidarsi al libero pensiero, suscitando l’ira del maestro. Secondo la leggenda, nel mare della Trinacria, nel Mediterraneo, si consumò il dramma di Ippaso: condannato di apostasia per avere divulgato la scoperta di un rapporto matematico imbarazzante, fu allontanato dalla scuola e, durante un naufragio, si lasciò morire consegnando alle onde non solo il suo corpo, ma anche la √2 ; il numero aureo φ=1,618033…; π=3,14…che invece descriveva il rapporto tra una circonferenza e il suo diametro.
Il famoso rapporto tra la circonferenza e il suo diametro era un problema antico. La prima documentazione di questo rapporto risale al 1650 a. C., e si trova su un documento che oggi è noto come il Papiro Rhind, conservato al British Museum di Londra. Esso riguarda da vicino uno dei problemi classici dell’antichità: la quadratura del cerchio.
«Lo studio della misura del cerchio fu ripreso con rinnovato impegno nel IV secolo a.C. dai greci. Essi erano interessati- e secondo alcuni ossessionati-non alla misurazione di terreni ma all’esplorazione di idee…Fu un’epoca aurea per il pensiero, e benchè il rapporto fra circonferenza e diametro non fosse certo il problema più importante del tempo, attrasse quasi certamente l’interesse di alcune fra le menti più grandi della storia antica.»[2]
Archimede (287-212 a.C. ) fu tra le menti più geniali dell’antichità e i suoi interessi furono molteplici, dalla matematica, alla fisica, alla meccanica: –datemi un punto d’appoggio e vi solleverò la Terra!- esclamazione che sottolineava la soddisfazione per le sue scoperte delle leggi sulle leve.
Nato a Siracusa, ai tempi di Ierone II, è considerato il più grande matematico della Magna Grecia. A proposito di π, Archimede concentrò la sua attenzione sui perimetri di due poligoni, uno inscritto e l’altro circoscritto ad un cerchio. Approssimò il cerchio ad essi, raddoppiando quattro volte i lati dei due esagoni, fino ad ottenere due poligoni di 96 lati di cui calcolò i perimetri. Presentò quindi il suo risultato nella Proposizione 3 del Trattato Sulla misurazione del cerchio, affermando che la circonferenza di un cerchio è tripla del suo diametro e lo supera ancora meno di 1/70 del diametro e più di 10/71. Quindi π, numero infinito e trascendentale, è un numero compreso tra 3+1/70 e 3+1/71, che convertito in numeri decimali si può scrivere 3,1408…< π <3,1428….. La precisione con cui Archimede operò l’approssimazione di π fu tale che questo intervallo venne considerato validissimo per molto tempo. La conferma della fama dello scienziato siracusano come maggiore matematico dell’antichità e del suo gusto tutto particolare per i grandi numeri, è dimostrato anche da altri due suoi lavori: l’Arenario e il Problema dei buoi. Quest’ultimo è ispirato all’ episodio del dodicesimo canto dell’Odissea sopra riportato. Con una fantasia che superava quella del poeta, Archimede sfidò Eratostene[3] nel calcolo di tori e vacche, suddivisi in bianchi e neri, fulvi e screziati. La soluzione del problema lo portò al risultato che il numero dei bianchi più quello dei neri sia un numero quadrato, del tipo n·n=n2; il numero dei fulvi più quello degli screziati sia un numero triangolare[4], del tipo n·(n+1)/2. Arrivò a numeri enormi, fino a 200.000 cifre. Omero ne aveva immaginate solo 350 (7 volte 50)!
Ma è con l’Arenario, trattato dedicato a Gerone, tiranno di Siracusa, che il suo genio matematico arrivò a pensare l’infinitamente grande. La miriade era il massimo numero per il quale i greci avevano un nome. Una miriade stava per 10.000. Valutando la grandezza di un granello di sabbia, Archimede assumeva che 10.000 granelli di sabbia potessero essere contenuti in una sfera della grandezza di un seme di papavero. Partendo da questo seme e proseguendo nel considerare volumi e sfere sempre più grandi, arrivò a considerare la sfera del cosmo ( cioè la sfera avente per raggio la distanza Terra-Sole, 1010stadi, secondo i calcoli di allora) e la sfera delle stelle fisse, utilizzando le tesi dell’astronomo Aristarco. Dopo aver fatto tutti i calcoli, provò che il numero dei granelli di sabbia contenuti nel cosmo era minore di 1051, e quello contenuto nella sfera delle stelle fisse era minore di 1063. Archimede non usava questa notazione scientifica, cioè l’elevazione a potenza, che permette di visualizzare cifre significative di numeri troppo piccoli o troppo grandi. Tale procedimento non era ancora conosciuto negli ambienti matematici grechi. Usava, invece, un sistema che ricorda la tecnica tipica dei quadrati magici: «iterò le miriadi di miriadi, pari a cento milioni, su righe e colonne di una gigantesca tabella, fino a un numero da capogiro che chiamò una miriade di miriade della miriade-miriadesima riga della miriade-miriadesima colonna, pari ad un 1 seguito da cento milioni di miliardi di zeri»[5]. Solo nel 1933, il matematico Samuel Skewes ha calcolato un numero più grande. Con Archimede, la matematica cominciava a liberarsi dai ceppi della metafisica. Egli ragionò con assoluta libertà, una libertà che, qualche secolo dopo, Cantor rivendicò per i matematici che dovevano essere liberi di inventare ciò che volevano.
Il risultato che considerò il migliore tra tutti quelli raggiunti è stato certamente il calcolo della superficie e del volume della sfera. Aveva scoperto che se si paragonava la sfera ad un cilindro che la contenesse esattamente, il rapporto tra la superficie della sfera e quello del cilindro risultava di due terzi. E anche il rapporto tra i volumi era lo stesso.
Archimede considerò questo risultato come il suo capolavoro, tanto che lo scelse come epitaffio. Infatti, come ci racconta Cicerone nelle Meditazioni tuscolane, sulla tomba del matematico siracusano era incisa una sfera inscritta in un cilindro con impresso il loro rapporto: 2 ⁄3
XXIII. [64] Non ego iam cum huius vita, qua taetrius miserius detestabilius escogitare nihil possum, Platonis aut Archytae vitam comparabo, doctorum hominum et plane sapientium: ex eadem urbe humilem homunculum a pulvere et radio excitabo, qui multis annis post fuit, Archimedem. Cuius ego quaestor ignoratum ab Syracusanis, cum esse omnino negarent, saeptum undique et vestitum vepribus et dumetis indagavi sepulcrum. Tenebam enim quosdam senariolos, quos in eius monumento esse inscriptos acceperam, qui declarabant in summo sepulcro sphaeram esse positam cum cylindro.[6]
La tomba di Archimede a Siracusa non esiste più, ma la sua opera rimane una pietra miliare nella storia della Trinacria isola: il tempo ha distrutto la sua lapide ma non ha cancellato le sue formule.
Bibliografia:
-Eric T. Bell, I grandi matematici, Milano, BUR rizzoli, 2010
-Carl B. Boyer, Storia della matematica, Milano, OSCAR MONDADORI, 2010
-Paolo Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, ADELPHI, 2011
-Piergiogio Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano, Longanesi, 2008
-Piergiorgio Odifreddi, C’è spazio per tutti, Milano, Mondadori, 2011
-David Blatter, Le gioie del π, Printed in Italy, Garzanti libri s.p.a., 1999
-Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes [PDF]
-Omero, Odissea, tradotta da Ippolito Pindemonte, Milano, La Prora, 1949
[1] ODISSEA, libro XII, 164-168
[2] David Blatner, LE GIOIE DEL π, Garzanti Libri s.p.a., 1999, Printed in Italy, pag.15
[3] Intellettuale, amico di Archimede al tempo dei suoi studi ad Alessandria d’Egitto.
[4] Platone, nel Teeteto, aveva distinto tra numeri quadrati e oblunghi, derivando la distinzione da Pitagora che parlava di numeri quadrati e numeri triangolari: i numeri quadrati derivano da misure tra loro omogenee, quelli triangolari consistono di misure tra loro diverse
[5] P. Odifreddi, Progetto Polimath, TRE RE MATEMAGICI PER UN’EPIFANIA [online]//http://areeweb.polito.it/didattica/polimath
[6] Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes [PDF], V libro, http://www.documenta-catholica.eu
Articolo interessante!!
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie!!
"Mi piace"Piace a 1 persona
L’ha ribloggato su amareilmare.
"Mi piace""Mi piace"
Pingback: Trinacria matematica (i numeri strani di Pitagora e Archimede) | amareilmare