Quando ero una giovane mamma, mestiere che svolgevo a tempo pieno, la mia vita trascorreva per lo più in auto per raggiungere scuole, piscine, parchi, centro cittadino quindi piazze e strade, il mare e la montagna. Mi rendo conto, oggi, che essere mamma coincideva con la frenesia di conoscere, insieme alle mie figlie che crescevano, un mondo che altrimenti non si sarebbe svelato senza la libertà che quel “mestiere” mi permetteva. Quando poi mi “toccava” andarle a prendere a scuola, la mia curiosità, munita di raggi laser ad ampio spettro, si lanciava dritta sulla gente che proprio a quell’ora affollava la piazza che ospitava non solo il liceo ma anche un ospedale ostetrico e la facoltà di lettere e filosofia, oltre alle antiche case di una Catania da cartolina vintage. Arrivavo con un buon margine di anticipo e cominciavo a osservare quell’arnia di vite che ai piedi del vulcano si incrociavano, si scontravano e si ignoravano, e andavano dritti per la loro strada, lungo il loro da fare: studenti, informatori scientifici, medici, vigili urbani, infermieri, abitanti della piazza.
La curiosità non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per «essere-per» esso, ma si prende cura solamente di vedere…La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente piena di meraviglia…non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende…
Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976, pag. 217
Stavo lì. A vedere, senza prendermi cura di niente, senza stupirmi di niente. Senza pretendere di approfondire cosa mi stava attraversando la mente: semplici quadretti di vita.
Interessanti i neo-papà: arrivavano da soli, posteggiavano la loro auto e, imbracciati baby pulman e borsa “neonatale”, si dirigevano frettolosamente verso l’ospedale. Il ritorno in macchina era da super eroe: sedia sdraio sotto un braccio, baby pulman in una mano, borsa a tracollo stracolma e lui, con il suo bel malloppo da portare, si metteva a capo di una mini processione seguito da lei, la moglie, che avanzava con una mano sotto il ventre e un’aria stanca e l’altra, la suocera, con in braccio il risultato di quella confusione.
Una signora percorreva spesso a quell’ora il marciapiede lungo la piazza. Con passo elegante e ovattato avanzava con i suoi vestiti scuri e modesti, ma sempre in ordine. Alta, magra, capelli scuri e ondulati mostrava sul viso un sorriso velato da una certa tristezza, come di chi si è rassegnato a un destino che l’ha portata lontano dai suoi sogni e dignitosamente abbracciava la sua vita con la cura che meritava ogni cosa che la circondava. Quanto era diversa questa signora dall’impiegata della posta, dal viso simile a un maialino che si trovava in un recinto vicino casa dove ho trascorso l’infanzia. Assalita da migliaia di tic nervosi, l’impiegata strizzava gli occhi a intermittenza: prima uno e poi l’altro, e poi insieme come le lampadine di un albero di natale. Alzava nervosamente il labbro superiore, mentre le sue spalle scattavano come molle nel momento in cui si lanciava ad articolare qualche parola che stentava a uscire, incatenata da una lingua che occupava troppo spazio. E il rosa! Il colore rosa! Quanto le doveva piacere! Usava cipria e rossetto rosa, spesso sbavato; e orecchini con perline rosa; e fermaglietti rosa trattenevano i capelli gialli e arricciati. Rosa, un colore su un viso che non si rassegnava alla fuga di una primavera, allo sfiorire della sua giovinezza.
Sentivo poi il suono della campanella. I ragazzi cominciavano ad affollare la piazza per raggiungere annoiati le auto, gli autobus o si avviavano a piedi verso casa. Le mie figlie mi raggiungevano e insieme a loro portavo con me dei quadretti di vita dipinti ai piedi del vulcano, nascosti da qualche parte nella mia mente.
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