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Colori, suoni, allegria, musica, folklore e i festeggiamenti per la Santuzza corrono per tutta la città di Catania. Quando mi trasferii nel capoluogo etneo, fui molto colpita dallo slancio emotivo e dalla partecipazione dei catanesi alla festa in onore di Sant’Agata. Al grido: “Cittadini! Siti devoti tutti?” i fedeli rispondono con un caloroso, profondo e potente “Sì” che risuona per le vie della città, scena teatrale dove danzano e corrono le Candelore da metà gennaio fino al sei febbraio.

Decorate con fiori, lampade e immagini che ricordano la vita della Santa, le candelore, alti cerei votivi (alcune raggiungono anche sei metri di altezza), sono in tutto dodici: di queste, dieci rappresentano  arti e mestieri della città; una, “la piccola”, è la candelora di Monsignor Ventimiglia, il vescovo che la fece costruire dopo l’eruzione del 1766; un’altra rappresenta il Circolo Cittadino di Sant’Agata. Trasportate per le strade della città da uomini vigorosi, le candelore hanno spesso al seguito una banda che suona musiche vivaci e allegre a cui segue una sorta di balletto della candelora, l’annacata che impegna notevolmente i devoti impegnati nel trasporto dei cerei.

Ricordo che la prima volta che vidi una candelora rimasi basita perché, per come me le ero immaginate, esse dovevano esprimere un significato esclusivamente religioso.

Era gennaio, faceva freddo ma non pioveva. La piazza della chiesa del quartiere dove vivevo si animò di suoni e di allegria. Vestii le mie bambine, indossammo cappotti e sciarpe e ci unimmo alla folla eccitata e grata. Era arrivata una candelora e, fedele alle mie convinzioni religiose, feci il segno della croce e invitai anche le mie figlie a recitare una preghierina. Ma ecco che degli uomini muscolosi cominciarono a far dondolare la candelora a ritmo di trombe e tamburi e riconobbi tra quelle note una canzone che non era proprio una melodia religiosa: U surdatu ‘nnammuratu. Cercai di darmi un contegno e pensai che non dovevo essere troppo esigente e critica. Dovevo capire cosa stava succedendo. Ma più mi sforzavo di fare spazio alle mie convinzioni, più mi perdevo. Che c’entrava quella canzone con Sant’Agata?! Non capivo più nulla e cominciai a ridere fino alle lacrime. -Va bene- mi dissi- non si prega più! Abbandoniamo l’aria dimessa! Ora ci divertiamo!- Man mano mi lasciavo coinvolgere da quella simpatia gioiosa mentre osservavo le mie figlie che battevano il tempo con le mani. Era come se da quella annacata e da quella musica “strana” fosse scaturita una magia: la gente accorreva numerosa attorno alla torre variopinta e riccamente adornata e la musica sortiva da richiamo per i cittadini. Le note li allontanavano dai loro affari, dalle loro controversie e li tuffava in una dimensione dove la gioia, seppur scaturita dal ricordo di un sacrificio, diventava manifestazione di gratitudine infinita.

Imparai ad apprezzare la festa e l’amore che i catanesi nutrono anche per la Montagna che osserva, racconta e invita anche le nuvole a danzare e aggiunsi ancora un altro tassello al puzzle della mia vita.

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