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-Oh Madonna Santa! Chi fu?-

-Oh Maria Santissima! Le bombe!-

Era appena sorto il sole quando si sentì un forte boato. Istintivamente le donne raccolsero i bambini in un abbraccio per proteggerli da quel fragore che sapeva di guerra, di morte e aveva scosso il sonno, i sogni e le pareti delle loro case. Aspettarono un poco prima di uscire fuori, nel patio, e guardare il mare. Perché dal mare veniva quel terribile botto. Videro, non lontano, una nave in fiamme e soldati che annaspavano nell’acqua. Soldati, uomini, forse i loro uomini che quella stupida guerra aveva portato via. Corsero svelte alla battigia e, tirate su le gonne, spinsero i gozzi in acqua.

-Remate, forza, remate!- e la voce di ognuna si alzava a dispetto della guerra, del caldo asfissiante, della nafta che aveva macchiato il mare e minacciava un grande incendio. Si avvicinarono alle zattere a cui erano appesi i soldati. Esausti, feriti, alcuni in fin di vita trovarono rifugio nei gozzi, accolti da braccia forti di donne giovani e meno giovani che andavano per mare e ne conoscevano la forza.

Era il 13 agosto del 1942 e l’incrociatore Bolzano, della Regia Marina, veniva silurato da un sommergibile inglese rimanendo incagliato nei bassi fondali di Lisca Bianca, in quella frazione di Mediterraneo che guarda l’isola di Panarea abitata, allora, da anziani, bambini e donne su cui gravava la miseria e la tristezza, la solitudine e il coraggio di affrontare il mare e la campagna dove si aggiravano fantasmi, speranze e credenze.

Dee, streghe, fate, donne. Mare.

Si muovono leggere come piccole onde

avanzano tenaci come il mare in tempesta

e vedono e sentono  cose che nessuno riesce a percepire.

Quando la guerra finì, dalla costa orientale della Sicilia tornavano a partire i pescherecci degli acitani. Erano i pescatori che dalla costa catanese di Acireale raggiungevano il mare dell’arcipelago eoliano ricco di secche, e quindi particolarmente pescoso, e si fermavano soprattutto a Lipari, l’isola più grande delle Eolie. Dai piccoli porti di Santa Maria la Scala, Stazzo e Capo Mulini, borghi marittimi ai piedi della Riserva naturale della Timpa, si muovevano le barche con un equipaggio che contava anche alcune giovani donne intraprendenti. Su una di queste barche si imbarcò Venera, una ragazza che nelle vene le scorreva un sangue caldo e furente come quella lava che tante volte aveva visto scendere da una delle bocche dell’Etna. Venera era pratica nella pesca e sapeva come muoversi su un peschereccio. La sua era una famiglia di pescatori che, spingendosi oltre lo stretto di Messina, decise di non fermarsi a Lipari. Proseguirono alla volta di Salina, isola verde, abitata per lo più da contadini. Tutti possedevano un vuzzu, un gozzo per andare a pescare quando il tempo era buono, quando si era liberi dagli impegni in campagna o quando si voleva uscire per trascorrere qualche ora a mare con gli amici. C’erano comunque delle differenze: Rinella, Santa Marina, Lingua sorti su una striscia di terra prospiciente il mare, godevano di un porticciolo e di spiagge facili da raggiungere. Malfa, Leni, Pollara e Valdichiesa, situati in collina o nelle valli, avevano un accesso più difficile al mare, dove si arrivava a piedi, percorrendo sentieri e scalinate, oppure in groppa a un un asinello. La famiglia di Venera decise di stabilirsi a Rinella dove la sabbia era nera e le barche potevano essere tirate a secco su una battigia protetta dalla montagna. Dove le case odoravano di mare e bastava tendere una mano per sentirne la brezza. Venera andava a pesca con gli uomini della famiglia e con loro imparò a conoscere le leggi del mare e a rispettarle. Poi era lei che sistemava i pesci nei cesti di vimini e con questi caricati sopra il capo, percorreva, scalza, trazzere e scale su per la collina che da Rinella portava a Leni. Raggiungeva quindi la piazzetta della chiesa e vendeva il pesce alla gente che ogni mattina l’aspettava. Venera sapeva pescare, conosceva il mare e aveva una clientela appassionata. Ad un certo punto decise di mettersi in proprio: andava a pescare da sola con il suo gozzo e, sempre scalza, raggiungeva la piazzetta di Leni e vendeva il suo pesce. Saliva e scendeva, andava e tornava. Come un’onda del mare.

“Donne che hanno imparato a dare il nome ai venti, a misurare la distanza dalle loro case e a presagire la potenzialità dell’onda rabbiosa nel mare lungo, come qualunque altro navigante.”  (Macrina Marilena Maffei, Donne di mare, Pyngitopo editore, 2013, pag. 16)