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Mi svegliai prestissimo, molto presto, quando ancora la luce del giorno non riusciva ad attraversare il buio della notte. Sentii provenire da fuori un gran trambusto che all’inizio avvertii come rumore, presa da quel torpore che ti imprigiona tra il sonno e la veglia in un equilibrio strano per cui sembri vacillare, senti le vertigini di una caduta libera verso il vuoto, verso qualcosa che non conosci e poi ti svegli e dici  -ecco sono pronta-.  Riconobbi poi un concerto di uccelli, pensai fossero migliaia, che la sera prima avevano trovato rifugio tra i rami degli alberelli del giardino attiguo alla casa. Ognuno, con timbro e tonalità diversa, intonava un canto accompagnato da una sorta di basso continuo diretto dai cani della zona e da alcuni galli che, a distanza, si scambiavano messaggi. Era festa lì fuori, arrivava la luce e gli animali dell’orto pretendevano un nuovo giorno per colmarne le ore. Sentii i primi rintocchi dell’orologio della chiesa di san Lorenzo mentre la luce cominciava a disegnare, sull’azzurro del cielo e sul verde della montagna dei Porri, le linee oblique del campanile. C’era fuori un concerto, una festa, mentre nella stanza si imponeva ancora la notte.

Sei rintocchi in do, un rintocco in re: era passato appena un quarto d’ora da quando avevo iniziato il mio lungo viaggio sulle note dell’orologio della chiesa. Mi assalì la certezza che lungo quella strada avrei trovato l’antidoto alla malattia della casa-nave. L’accanimento a voler rimanere sospesa tra le storie che da lì, da quel letto, si dipanavano fino alla chiesa di san Lorenzo, avrebbe sicuramente sortito una magica ricostruzione così, per incanto o per amore, per rispetto o testardaggine, quella casa sarebbe rifiorita.

Sei rintocchi in do, un rintocco in re. Tutto quello che allora ricordavo si incastrò tra quelle due note e si intrecciò con storie a me fino ad allora sconosciute eppure così intrise del mio passato. In quella chiesa avevo seguito il catechismo e avevo fatto la comunione e la cresima.

Do-re. Cominciai a percepire qualcosa di più. Là fuori quelle note fagocitavano le piccole nubi per rendere libero il cielo, affinché il vento intonasse altre note che lente seguivano il Mediterraneo mentre scivolava verso l’Oceano, verso onde maestose dove una musica selvaggia, primitiva si univa alle povere note. Un bastone sonante, ripulito all’interno da piccoli insetti, accoglieva il canto di una voce che narrava perché il mondo, cantato, potesse continuare a vivere. Dall’Oceano una  nuova melodia sarebbe tornata in quel mare accompagnata dal vento, in tempo per donare la propria arte, per offrire la propria opera.

11024911_10206391520337742_1064957834_oDa bambina ero solita trascorrere parte dei miei pomeriggi nelle sale della sacrestia della chiesa e la mia frequenza era assidua, dato che i miei amici si raccoglievano attorno alle iniziative delle catechiste divenendo ognuno stimolo per l’altro in una catena di bambini che pregavano, cantavano e giocavano ignari della storia di due affreschi che impreziosivano la chiesa e raccontavano del diacono romano, martire nel 258 a.C. e di cui conoscevamo il nome, ne seguivamo i festeggiamenti il dieci di agosto e  guardavamo rispettosi la statua che lo raffigurava con accanto una graticola. Era morto bruciato vivo: che orrore! Il dipinto della volta che sovrastava l’altare rassicurava il nostro animo di bambini, mostrandoci san Lorenzo nella gloria dei cieli.

Non ricordo di avere mai fatto attenzione a un altro dipinto che invece raccontava di quel martirio e che esigeva un’attenzione particolare, dato che era necessario alzare lo sguardo verso il tetto della chiesa. L’immediatezza della volta e la statua posta sempre a destra dell’altare, soddisfacevano la mia curiosità sulla storia del santo protettore del paese in cui vivevo. Sarebbe arrivato il tempo in cui le domande si sarebbero moltiplicate e dietro  ogni cosa avrei voluto cercare un senso, un significato e, volgendo lo sguardo verso l’alto, avrei notato anche il dipinto dedicato al martirio di san Lorenzo. E quando mi assalì la sconvolgente percezione di trovarmi nel lungometraggio della vita, scoprii in quel dipinto la forza del dolore, il coraggio di vivere senza scorciatoie. Vidi in quell’affresco i colori intensi della vita tragica, commovente, complicata. Sensata. Una figura mi inquietava in quel quadro. Era senza colore, senza movimento. Era senza espressione, lontana dall’azione, dal dramma che si stava consumando, dall’evento che avrebbe portato poi alla gloria del cielo descritta nella volta absidale. Era dietro tutto il dolore, dietro tutta la ferocia, dietro la magnanimità di un uomo che offriva se stesso per un ideale, per un atto d’amore. Era dietro a tutto questo: era l’indifferenza.

 (A fine giornata)

Foto di Antonio Brundu