
C’era stato un temporale, e un forte vento di maestrale aveva disperso sul patio le foglie gialle degli alberi, che si preparavano alla stagione invernale. Una, due, mille foglie che raccontavano di quel giorno di vento e di pioggia. Alcune galleggiavano inermi su una pozzanghera di acqua piovana, mista a terra rossa volata dai giardini che si erano dipinti dei colori di quella strana stagione: una volta regalava una bella giornata di sole, nostalgia dell’estate trascorsa, ma poi arrivava la pioggia e il vento per anticipare e ricordare che l’inverno era vicino. E intanto i pampini delle viti si dipingevano del rosso del vino che ormai fermentava nei tini, le arance si coloravano di verde e di giallo e la sera le lumache strisciavano lungo le stradine umide, tappezzate qua e là di muschio verde.
Il vialetto che attraversava il giardino era ornato da gelsomini bianchi che cadevano lenti a ogni soffio di vento, spandendo il profumo delicato di antichi ricordi.
-Li hai portati?-
-Certo signora, sono qui.-
Dentro un cesto di canne intrecciate, riposavano morbidi i fiori bianchi odorosi. Le si illuminava il cuore a vederli e, chiudendo gli occhi, portava il cesto all’altezza del viso come per cercare un abbraccio, un amore avvolgente.
-Presto, prendi le ciotole. Quelle di cristallo che tengo nella vetrina della stanza da pranzo. Ti raccomando, stai attenta! Abbi cura di prenderle delicatamente, senza romperle!-
Dopo il momento di estasi le prendeva una specie di frenesia, di agitazione per regalare alla sua casa il fresco profumo dei gelsomini appena raccolti.
-Giuseppina, dobbiamo sempre trattare con delicatezza i nostri fiori e le cose belle che abbiamo.-
Iniziava quindi quel rito accompagnato dal vento che, in quella stagione, sussurrava qualcosa, portava in giro le nuvole, scuoteva i rami degli alberi, invitava il mare ad ornarsi di piccole onde odorose.
-Sai Giuseppina, quando ero bambina, il giorno dell’Ascensione di Gesù al cielo, quaranta giorni dopo la santa Pasqua, la mia mamma usava preparare delle ciotole grandi, più grandi di queste, dove versava dell’acqua e poi vi immergeva dei petali di fiori profumati, rose, gelsomini, e li poneva sul davanzale della finestra. Noi, ancora bambini, ci bagnavamo il viso con quell’acqua profumata di gioia e volgevamo lo sguardo al cielo. C’era una nuvoletta che si alzava sempre più in alto, verso l’infinito e, stupiti di avere visto in quel candore celeste il segno di una grande vittoria, sussurravamo: “E’ Gesù che sale al cielo!”-
Il mare aveva portato sull’isola quella donna, e lei dal mare aspettava sempre qualcuno e i giorni trascorrevano in quella attesa infinita.
-Signora Cettina è in casa?-
Dal patio arrivava la voce di don Felice che, prima del vespro, era solito passare a salutare la sua cara amica a cui confidava i capricci dei paesani.
-Buona sera, don Felice! Che succede? Mi sembrate particolarmente stanco.-
-Buona sera, signora! Si vede così tanto che sono stanco?- e rise asciugandosi il labbro con un fazzoletto bianco dove spiccavano sottili righine azzurre, cercando di dare sollievo a quella bocca che tanto aveva parlato e predicato.
-Sa della statua della Madonna arrivata da Napoli?A quel tempo lei non viveva ancora a Malfa…-
-Ho sentito che ci sono devoti che insistono sulla sacralità della statua che si trova nella chiesa di san Lorenzo…-
-Sì, ma quella è già stata interdetta due volte! Mons. Ideo l’ha definita addirittura mostruosa! Ah! Quando ho avviato i lavori per la costruzione della chiesa di sant’Anna a Capo, non c’erano tutte queste storie.-
Iniziò quindi a raccontare di una statua che don Mariano Schepis, parroco di Malfa nel 1856, aveva comprato a Lipari proprio nel convento da cui lui stesso proveniva, il convento dei Frati Minori sulla Civita a Lipari. Aveva certamente fatto un buon affare, e l’idea di introdurre a Malfa il culto dell’Immacolata Concezione prevalse sull’estetica della statua che si presentava come un manichino di fil di ferro, addobbato a mo’ di Madonna. Il vescovo interdisse la statua e, nel 1874, ne fece arrivare una di buona fattura da Napoli. Apriti cielo! Si formarono due fazioni: quella dei devoti alla prima statua che si rifiutarono di accogliere la seconda nella chiesa di san Lorenzo, minacciando il vescovo di non pagare più le decime, se mai fosse stato sostituito il loro primigenio oggetto di culto; e quelli che accolsero la statua napoletana ottenendo di celebrarne il culto là dove stava nascendo la nuova chiesa dedicata a Maria.
– Sono trascorsi quasi trent’anni e ancora ci si trova a discutere sugli orari delle messe e in quale chiesa bisogna officiare la messa domenicale, se nella chiesa di san Lorenzo o in quella dell’Immacolata.-
-Vi vedo avvilito, povero don Felice!-
-No, non si preoccupi. Adesso deciderà il vescovo. Scriverò a sua eminenza una bella lettera per spiegargli le mie difficoltà e gli chiederò, se gli è possibile, di stabilire lui gli orari delle messe.-
Sorrise mite e, facendo il segno della croce, cominciò a recitare l’Ave Maria, mentre le campane annunciavano che anche quel giorno volgeva al termine. La signora e Giuseppina, che intanto aveva finito di riordinare la cucina e aveva preparato la cena, si unirono alla preghiera mentre dalla finestra si riusciva a vedere il mare e il cielo e i confini del paese scurirsi.
-Come sta signora cara? Ha ancora dolori alle gambe?-
Don Felice guardò con tenerezza quella donna malata e silenziosa. Viveva da diversi anni sull’isola e da tempo ormai era sola in quella grande casa. Erano poche le persone che l’andavano a trovare. Lei era la “forestiera”, di lei bisognava diffidare, anche solo per il fatto che aveva amato quel luogo come una figlia illegittima che pretende di essere amata allo stesso modo dei figli naturali. La gente non sapeva come i colori dell’isola le svelavano il sapore di antichi sorrisi, di abbracci lontani, di candide promesse che aveva conservato per sempre nel cuore e amare quel posto l’aiutava ad amare la sua vita.
Don Felice era tra quelli che riuscivano a guardare con fiducia quel volto, sul quale era disegnato uno sguardo che somigliava molto alla superficie del mare: sia che era calmo, sia che era agitato non faceva mai trasparire cosa ci fosse oltre, ma si percepiva che in profondità ribollivano emozioni, gioie, tristezze, speranze, delusioni che si incontravano come correnti marine in continua agitazione che di tanto in tanto si rendono palesi, increspando la superficie che raccontava appena cosa succedeva nel fondo. Una volta la signora aveva raccontato al sacerdote di grossi fiori che la sera si aprivano per omaggiare la luna dei loro colori, e che sbocciavano da grossi rami spinosi che si arrampicavano come serpenti sulla parete di un balcone della casa a Catania, dove viveva da giovane.
Gli aveva pure confidato che ogni notte aspettava qualcuno che colmava i suoi sogni e insieme si tuffavano nei colori di quei fiori per vivere ancora insieme.
-Sa don Felice, quando la notte nei miei sogni lo incontro è come se vivessi davvero; è come se la mia vita si colorasse di nuovo. Allora, sono certa, muoio ogni giorno all’alba, come i fiori della notte. Come loro, i colori della mia vita si avvizziscono dopo averli mostrati per una notte intera alla luna.-
Il buon parroco si commosse e pensò che la signora Cettina, attraversata com’era da una grande passione, aveva bisogno che le si facesse compagnia con il rispetto del silenzio, così come quando si andava al molo e, senza dire una parola, si osservava e si ascoltavano le storie scritte su qualche onda del mare, profondo e impenetrabile come lei.
-Signora, io vado. E’ tardi.-
-Si, Giuseppina, vai. Buonanotte, a domani!-
-Ciao, Giuseppina! Salutami tuo padre!-
-Certamente don Felice! Stanotte andiamo a pescare. La luna è buona e il mare è tranquillo, anche se c’è un pochino di vento. Le nuvole dicono che va a migliorare.-
Il parroco salutò anche lui la signora Cettina che, rimasta sola, si guardò un po’ attorno, come era solita fare. Uscì fuori per vedere il sole scomparire dietro il pendio della montagna dei Porri e si lasciò avvolgere dalle tinte di quella sera autunnale. Vide la luna dominare il cielo e rientrò in casa. Cenò e andò a letto: era pronta. Chiuse gli occhi e leggera scivolò lungo i colori della sua notte.PAOLINA CAMPO
∗Riferimenti storici: Giuseppe Iacolino, Raccontare Salina, edizioni nell’attesa s.a.s., Palermo, 2012, vol.IV